Città, conoscenza e creatività

Roma dovrà sempre più diventare un sistema culturale integrato: la città del “cozzo delle idee”. Dai centri di ricerca internazionali alle piccole biblioteche di quartiere, è necessario mettere a sistema tutte le strutture che operano nel mondo della ricerca: i centri culturali dello Stato (Biblioteca nazionale, Archivio centrale dello Stato, Accademia dei Lincei, Cnr, Istituto Luce, Cineteca Nazionale); la rete della ricerca scientifica (Università, Accademie, Centri di ricerca); il sistema degli Archivi, delle Sovrintendenze e dei Musei; la rete diffusa delle biblioteche cittadine (biblioteche universitarie, biblioteche di settore e internazionali, biblioteche di quartiere); le scuole.

Roma dovrà sempre più riconoscere sé stessa come uno dei centri europei della produzione culturale contemporanea; quindi, come luogo di sperimentazione dei nuovi linguaggi artistici e creativi, capace di accogliere e di far crescere le avanguardie giovanili, le lotte culturali della differenza di genere e dei movimenti di liberazione sessuale; il dialogo con le culture extra-europee. Nello stesso tempo, Roma resta il luogo ideale per interpretare il passato, proteggendo la trasmissione inter-generazionale dei saperi e dei mestieri. Se il centro storico rimane e resterà il luogo del consumo culturale, l’intero distretto regionale della Capitale si dovrà sempre più percepire come il luogo privilegiato della produzione e della sperimentazione culturale: Mercato Audiovisivo (Centro Sperimentale, Cinecittà; RAI; case di produzioni cinematografiche; audiovisive e multimediali); Mercato dello spettacolo (Accademia Silvio d’Amico; Accademia nazionale di Danza; Accademia di Santa Cecilia; sistema dei teatri urbani; delle scuole di musica, di danza, del circo contemporaneo, della magia; case di produzione musicali); Mercato dell’arte contemporanea (Accademia di belle arti, Accademie private, MAXXI, Macro, Gallerie private); Mercato dell’innovazione digitale (Incubatori ed Acceleratori digitali; Talent garden, Fab lab; Industria multimediale videogame).

Il dossier è parte di un lavoro collettivo dal titolo Manifesto per Roma, che viene interamente pubblicato in questo sito, nella sezione Proposte. Hanno contribuito: Daniele Balicco (coordinatore), Cecilia Canziani, Andrea D’Ammando, Marina Formica, Tommaso Morawski, Maria Nicolaci, Luca Rosini, Ludovica Tranquilli.

1. Roma, fra dismissione e sovrabbondanza

Per iniziare a disegnare una mappa dei centri della conoscenza e della creatività a Roma, il modo migliore è partire da un elenco sommario. Se ci teniamo esclusivamente al settore della ricerca scientifica, dati alla mano, Roma è la prima città d’Italia per numero di Università (4 università pubbliche, 5 università private, 8 università telematiche, 24 atenei pontifici, 4 università internazionali – 2 americane, 1 francese ed 1 spagnola – a cui si aggiungono 47 distaccamenti di università americane[1]) e, di conseguenza, per numero complessivo di studenti universitari (243.000 iscritti tra università pubbliche e private[2] nel 2019; senza contare però gli studenti internazionali e quelli iscritti agli atenei pontifici). La stessa cosa vale per il numero di professori e ricercatori scientifici (essendo sede, oltre che di centri universitari, di istituti di ricerca avanzata come CNR, ENEA, INFN, INAF, ASI, ISS, ISPRA, ISTAT; nonché dell’Accademia dei Lincei e di quella nazionale delle Scienze).

Se ci spostiamo dal settore strettamente universitario a quello più generale della conservazione e della produzione di conoscenza e di arte, la densità della mappa si fa impressionante. A Roma hanno sede 41 istituti di cultura AICI, più di 50 accademie estere (unico caso al mondo) e 12 istituzioni internazionali, fra cui 6 agenzie dell’Onu (FAO, IFAD, WFP, Bioversity International, IDLO, CFS). Centro archeologico e artistico di importanza internazionale, l’area metropolitana di Roma ha la più alta concentrazione al mondo di musei e di siti archeologici (46 musei statali, 22 musei comunali; 23 musei universitari; 9 musei militari; 21 musei religiosi; 36 musei privati). Un altro primato viene dall’Auditorium Parco della Musica che è la prima struttura culturale europea per numero di visitatori, seconda al mondo solo dopo il Lincoln Center di New York[3]. Roma – che ha ottenuto dall’UNESCO il riconoscimento di “Creative City of Film” – resta il più importante hub italiano del settore audio-visivo, sia per formazione (qui hanno sede il Centro Sperimentale di Cinematografia, la Scuola d’Arte Cinematografica “Gian Maria Volonté”, l’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio D’Amico” oltre a 3 accademie private come IED, RUFA e NABA) che per mercato: qui viene prodotto il 70% dell’intera produzione italiana, mentre il Lazio è la seconda regione a livello europeo per quota di investimenti nel settore. Perfino nello sviluppo tecnologico digitale, Roma è una realtà ricchissima di centri di ricerca: qui hanno sede Make Faire Europe (la più importante fiera europea di robotica e intelligenza artificiale) e Cyber Tech Europe; Luissenlabs (il più grande acceleratore di start up italiano), Pi Campus (distretto internazionale di innovazione digitale) e un rete sempre più fitta di incubatori (24 Start up Studios, 6 scuole d’Impresa, 12 Fab Lab, 5 centri di Technology Transfer, 50 Smart Working Center fra cui 3 Talent Garden[4]).

A questo elenco, necessariamente impreciso e sommario, andrebbe infine aggiunta la rete fittissima di autoorganizzazione culturale dal basso che è stata capace in questi anni di gestire scuole popolari, cinema, biblioteche, giardini, teatri, radio, palestre, spesso in supplenza delle istituzioni del Comune e dello Stato. E di esprimere sperimentazioni culturali riconosciute perfino a livello internazionale[5].

Questo ultimo aspetto – la supplenza rispetto alle istituzioni del Comune e dello Stato – ci permette subito però di affrontare la questione di fondo, che rende Roma una capitale eccentrica, soprattutto se confrontata con l’unica città al mondo con cui è gemellata: Parigi. Ma il confronto potrebbe essere fatto con qualsiasi altra capitale occidentale: Roma non solo non gode di uno statuto giuridico speciale, né di fondi adeguati al suo ruolo istituzionale; ma è da decenni oggetto di un massiccio disinvestimento da parte dello Stato che ormai a malapena finanzia i suoi stessi centri culturali; centri che in qualsiasi altra capitale del mondo vengono all’opposto valorizzati come simbolo della propria storia culturale e della propria capacità amministrativa.

Basta scorrere anche solo l’elenco di quelli più importanti (si pensi all’Archivio centrale dello Stato, alla Sovrintendenza generale, alla Biblioteca nazionale, al CNR o all’Accademia dei Lincei) per registrare la scarsa visibilità pubblica della loro presenza culturale sia a livello cittadino, che a livello nazionale; questi centri si trovano, infatti, da decenni, in una condizione di estrema difficoltà per un concorso eterogeneo di cause: riduzione dei finanziamenti ordinari, blocco di nuove assunzioni, fatiscenza delle strutture, scarsa progettualità pubblica e assenza di sperimentazioni capaci di renderli attrattivi e funzionali alle esigenze del lavoro di ricerca contemporaneo. In alcuni casi, ci troviamo di fronte a scelte istituzionali incomprensibili: che senso ha chiudere il Museo d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” in un periodo storico in cui l’interesse per la cultura asiatica è sempre più forte e pervasivo? O ancora: per quale ragione dismettere il più antico centro di studi climatologici italiano proprio quando gli studi sul clima sono al centro del dibattito pubblico sul riscaldamento globale e sull’Antropocene? Il termine “razionalizzazione” che serve a giustificare pubblicamente queste operazioni nella sostanza si traduce in disinteresse istituzionale, miopia, assenza di progettualità, abbandono: è come se lo Stato si stesse ritirando dalla città che lo ospita.

Il nostro lavoro di ricerca parte dunque segnalando questa contraddizione: da un lato la città gode di un’oggettiva sovrabbondanza di centri di ricerca e di poli creativi, spesso di prim’ordine; nello stesso tempo, però, patisce una massiccia dismissione di investimenti da parte dello Stato che a malapena finanzia biblioteche, archivi e centri istituzionali di ricerca di sua competenza. A questa contraddizione di fondo si aggiungono le difficoltà del governo comunale che per poteri, capacità e scarsa qualità della classe amministratrice, si è rivelato per lo più incapace di valorizzare il patrimonio culturale e creativo della città, abbandonandolo alla rendita unidimensionale del turismo di massa. Per l’insieme di queste ragioni, la città si trova in uno stato di crisi profonda. Una crisi di identità[6], prima che economica o infrastrutturale. Crediamo che uno dei modi possibili per provare ad uscire da questa crisi sia quello di affiancare un serio lavoro di ricerca multisettoriale con uno sforzo immaginativo, progettuale; a tratti utopico. Se non riusciremo a scardinare la rappresentazione mediatica, spesso tossica, nella quale questa città è imprigionata, difficilmente sarà possibile progettarne il futuro ricominciando a provare stupore per la sua storia millenaria, come per la sua metamorfica intelligenza vitale. 

Proporremo dunque una mappa dinamica, per immaginare la città e il suo rapporto con la conoscenza, con la ricerca scientifica, con la valorizzazione del suo passato e con la creatività. In un primo tempo, osserveremo la città individuando quattro nodi: anzitutto due nodi virtuosi del suo funzionamento culturale (Auditorium e Maxxi). Quindi, segnaleremo, all’opposto, la drammatica assenza di altri due nodi, fondamentali per portare la storia culturale della città all’altezza del contemporaneo: il nodo archeologico, a partire dal mancato Parco dei Fori e di un museo della città; e il nodo scientifico, di cui il recente naufragio del progetto del museo della scienza a Guido Reni è ennesima prova; insieme ai tentativi, forse solo negli ultimi mesi meno timidi, di immaginare un centro di formazione politecnica all’altezza della tradizione scientifica di Roma. Se il primo tempo della mappatura è dedicato ai nodi, nel secondo ci occuperemo di mappare alcune reti che, disseminate in modo disomogeneo in città, ne innervano il tessuto culturale: anzitutto la rete delle biblioteche di base, vera spina dorsale dell’acculturazione cittadina; quindi, la rete cosmopolita delle Accademie internazionali, eredità del Grand Tour e della sua capacità di rendere Roma “plaza del mundo”; infine, la rete dell’innovazione digitale dove si sperimentano le forme economiche e sociale del futuro e dove si potrebbe progettare, già da domani, un laboratorio strategico per l’innovazione dell’amministrazione pubblica; tanto per la città, quanto per lo Stato.

La sfida che ci poniamo è dunque quella di riuscire a immaginare Roma al di fuori delle logiche e dagli stereotipi che la mortificano, schiacciandola unidimensionalmente nel ruolo di «città turistica»[7] e di capitale senza stato. L’orizzonte che abbiamo iniziato a tracciare restituisce alla città la funzione di centro internazionale di sperimentazione scientifica e di produzione artistico-culturale che le è proprio. Serve però, preliminarmente, un’opera di re-scaling, guardando anzitutto ai luoghi di produzione della conoscenza e della creatività non come entità chiuse in sé stesse, ma quali nodi e reti di un sistema integrato di flussi di informazione che si diramano, fruttificano e hanno radici nel territorio cittadino. Del resto, è la stessa natura «reticolare dei beni culturali romani»[8] a suggerire di mettere a sistema le diverse strutture che operano nel campo della conoscenza. Ma questo significa anche investire sui processi che sono alla base della sua produzione e condivisione; si tratta quindi di riprogettare le geografie urbane ed extra-urbane che regolano i rapporti di scambio e cooperazione tra gli attori coinvolti (individui, istituzioni, luoghi informali e/o virtuali), riorganizzare le reti di distribuzione dei flussi di informazione e ridefinire le chiavi pubbliche di accesso alle infrastrutture culturali. Solo ripensando l’eterogeneità dei propri spazi e promuovendo una visione reticolare e policentrica, la città sarà capace di smarcarsi dalle logiche della turistificazione di massa e di scardinare lo stereotipo del centro storico come luogo di consumo culturale.

[1] https://aacupi.org/members-by-location/rome

[2] http://ustat.miur.it

[3] Cfr: https://www.ansa.it/canale_viaggiart/it/regione/lazio/2017/01/26/auditorium-parco-musica-2016-da-record_f90ff2df-dc00-49f8-9175-c874c7da1ae7.html

[4] Dati da http://www.romastartup.it/Data/Sites/1/media/docs/rs-ecosystem-ita.pdf

[5] Sul riconoscimento internazionale della sperimentazione musicale underground a Roma, vedi: Valerio Mattioli, Remoria. La città invertita, Minimum Fax, Roma 2019.

[6] Walter Tocci, Roma come se. Alla ricerca del futuro per la capitale, Donzelli, Roma 2021.

[7] Cfr. Marco D’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, Feltrinelli, Milano, 2019.

[8] Walter Tocci, Il caleidoscopio romano, postfazione a: Keti Lelo, Salvatore Monni, Federico Tomassi (a cura di), Le mappe della disuguaglianza. Una geografia sociale metropolitana, Donzello, Roma, 2019, pp161-191.

2. Una capitale senza Stato

Un buon modo per iniziare a mettere a fuoco il rapporto alquanto problematico che lega oggi la Capitale allo Stato, può essere quello di partire dalle celebrazioni mancate del 150° anniversario della cosiddetta Breccia. Non possiamo non sottolineare, infatti, il senso politico di un atto mancato, segnalando, più in generale, i rischi di un disinteresse diffuso sul significato della scelta di Roma come capitale d’Italia. Perché se la memoria nazionale si configura come effetto di un processo selettivo di date ed eventi ritenuti significativi – ed è un processo necessario per la formazione dell’identità di qualsiasi comunità – le ricorrenze andrebbero onorate, quanto meno per riflettere in modo critico sulla propria storia, attraverso un’analisi obiettiva delle scelte di eventi e di protagonisti del passato: senza questa volontà pubblica interpretativa diventa problematico indicare linee e progetti che consentano di costruire un futuro, per quanto possibile, condiviso.

La scelta istituzionale di non celebrare questo anniversario, se non in forma del tutto laterale , ha un significato simbolico, prima che politico. E non stupisce che la città appaia – o meglio venga continuamente rappresentata – come una città smarrita, incapace di incarnare il senso profondo del suo ruolo nel contesto nazionale e in quello mediterraneo. Roma subisce, infatti, la crisi dello Stato, della sua difficile trasformazione, sempre più in scacco di tensioni profonde, a tratti disgregatrici; uno Stato che finché non riuscirà a trovare una nuova forma e un nuovo equilibrio, difficilmente sarà in grado di valorizzare il ruolo e la funzione della sua città capitale.

Ben prima dell’emergenza Covid, le celebrazioni dei 150 anni di Roma Capitale furono per lo più ritenute un’occasione di riflessione da consegnare agli storici e agli urbanisti, che iniziarono infatti a progettare una serie di eventi, manifestazioni e convegni per affrontare, quanto meno dal punto di vista della ricerca scientifica, le questioni legate alla fine del potere temporale dei papi e alla successiva scelta di Roma come capitale del Regno. Ma a causa d’imperscrutabili scelte del prefetto Francesco Paolo Tronca, Commissario governativo dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano – il cui Statuto ha come fine quello di “promuovere e facilitare gli studi sulla storia d’Italia dal periodo preparatorio dell’Unità e dell’indipendenza” – la progettazione delle attività messe a punto dal Comitato scientifico venne poi annullata, tra lo sconcerto degli addetti ai lavori, senza essere sostituita da altre occasioni istituzionali di confronto storico, civile, politico, simbolico. Nello stesso tempo, era stato chiuso, per altre ragioni, anche il Vittoriano, vale a dire il museo che simbolicamente incarna questa storia. Un duplice atto simbolico, quindi: per un verso, l’Istituto è stato esautorato dalla progettazione delle celebrazioni e, per un altro, l’accesso al polo museale è stato bloccato per “per esigenze di riallestimento funzionale”.

Sconcerto e amarezza, dunque, giacché questa celebrazione poteva invece costituire un’occasione storica importante per riflettere pubblicamente sul rapporto fra Capitale e Stato, per affrontarne i nodi irrisolti e per iniziare finalmente a cambiare l’incapacità delle istituzioni a comprendere l’identità profonda di questa città: da sempre spazio multiverso e cosmopolita, nonché centro di ricerca scientifica. Senza una discussione pubblica di questo tipo, è difficile immaginarne un rilancio autentico. Eppure, basterebbe leggere con occhio più avveduto la storia delle relazioni di Roma in Età moderna, per rendersi conto che la città è stata riconosciuta nella sua grandezza solo quando ha saputo investire in cultura. Bisognerebbe ricordare, ad esempio, il valore delle sinergie – certo contraddittorie, talora soffocanti, ma comunque autonome e vitali – attivatesi tra le corti pontificie, aristocratiche, cardinalizie nella configurazione di Roma come meta imprescindibile del Grand Tour. Le celebrazioni del 150° potevano rappresentare l’occasione per riattivare sinergie, in scala internazionale, per ripensare la città, progettando tavoli e ricerche a cui invitare storici, urbanisti, architetti, sociologi, antropologi, letterati, scienziati, demografi, geografi urbani; italiani e stranieri.

Almeno due questioni, tra le altre, richiedono con forza di essere affrontate. La prima: in un’età di globalizzazione sempre più omologante, in che modo il patrimonio urbano di Roma può contribuire a un ripensamento della sua fisionomia di grande capitale mondiale? Quali possono essere le forze sociali e le immagini simboliche da valorizzare per restituire alla città la sua funzione di polo attrattivo di un’immigrazione intellettuale qualificata, così come è stato per secoli, soprattutto tra il Cinquecento e il Settecento, quando pensare a Roma significava pensare alla “plaza del mundo”? Città cosmopolita e internazionale da sempre, secondo quanto annotava Michel de Montaigne nel XVI secolo (“Roma è la città dal carattere più cosmopolita del mondo, e quella dove meno si bada se uno è straniero e di nazione diversa” ), Roma non perse questi suoi tratti caratteristici neppure nell’Ottocento, contrariamente a quanto sostiene una vulgata lenta a morire.

Si sarebbe potuto anche iniziare a discutere, proprio in occasione dei 150 anni di storia della capitale d’Italia, su come dotare la città di un proprio museo, di un Urban center capace di raccontare la sua storia millenaria; un polo espositivo multimediale, assimilabile a quelli delle principali capitali del mondo, dovrebbe e potrebbe favorire la conoscenza dello sviluppo urbanistico e demografico della città, peraltro mettendo in debito rilievo la sempre numerosa presenza di stranieri, di nationes, di viaggiatori e diplomatici, che tanto ha influito sulla sua evoluzione, sulla sua lingua, sulla sua architettura, sulla gastronomia. Peraltro, fu proprio dall’indomani del 1870, che Roma prese a ospitare una tale mole di enti e istituti culturali stranieri da renderla, ancora oggi, un unicum al mondo. Questa ricchezza non sembra essere però essere né compresa né valorizzata appieno dalle istituzioni, a vari livelli: al di là di singole iniziative, nel complesso mancano infatti stabili rapporti di sinergia con il Comune, con le università, pubbliche e private, così come con gli spazi museali della città.

Purtroppo, le celebrazioni dei 150 anni di Roma Capitale sono andate in tutt’altro modo: di fatto, con pochissime manifestazioni pubbliche di rilievo (pensiamo al concerto tenutosi al Teatro dell’Opera sotto la direzione di Riccardo Muti) in cui lo Stato si sia fatto promotore del compito di onorare la storia di una città millenaria che, fino a prova contraria, da 150 anni è anche la sua Capitale.

3. Nodi virtuosi, nodi mancanti

Per mappare tutti i centri della conoscenza e della creatività a Roma non basterebbe un volume intero. Abbiamo scelto dunque di concentrarci su alcune istituzioni particolarmente virtuose nel rapporto con la città: l’Auditorium Parco della Musica e il Maxxi. Possono essere considerati come due veri e propri nodi, due centri su cui attivamente convergono una serie di reti (la città della musica, la città dell’arte contemporanea, la città del cinema e delle arti performative) ramificate nell’intero ecosistema culturale urbano. Questi nodi possono essere considerati come due modelli operativi per iniziare a coordinare, anche in altri settori, la sovrabbondanza di reti della conoscenza, istituzionali e non, disperse nel territorio urbano. Renderemo conto, inoltre, di un progetto urbanistico importante che ha lo scopo di creare fra Auditorium, Maxxi e Foro Italico un nuovo parco/distretto urbano dedicato allo sport, alla musica, al cinema e all’arte contemporanea. In questo progetto è prevista anche la costruzione di un nuovo polo museale dedicato alla scienza.

Le ultime indicazioni della giunta capitolina sembrano però andare in tutt’altra direzione. Crediamo invece che la creazione di questo nuovo distretto urbano, con Museo della scienza annesso, sia un’occasione da non sprecare, soprattutto perché permetterebbe alla città di riconquistare una delle componenti più importanti e più misconosciute della sua millenaria identità: quella di città della scienza e dell’ingegneria. A questo proposito, abbiamo scelto di contrapporre agli esempi virtuosi di Auditorium e Maxxi due nodi mancati, che da troppi anni pesano sulla capacità della città di ripensare il proprio passato e ridisegnare il proprio futuro: il Museo della scienza, appunto, e il “Progetto Fori”. La proposta di rinnovamento urbanistico dell’area archeologica che va da Piazza Venezia al Colosseo – promossa e sostenuta già da Benevolo, La Regina, Cederna, Insolera e Petroselli tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta – rappresenta infatti un passaggio cruciale per ricostruire il progetto (ancora incompiuto) di una capitale moderna, in grado di rielaborare in modo ambizioso e innovativo il rapporto con la propria storia e di immaginare un nuovo modello di spazio pubblico.

3.1 Primo nodo: Auditorium
L’Auditorium, inaugurato nel 2002, nasce inizialmente per dare una casa definitiva all’Accademia di Santa Cecilia, 70 anni dopo la demolizione del Teatro Augusteo. Promosso su iniziativa degli Amici di Santa Cecilia e di un vasto movimento culturale e civile, politicamente trasversale, il progetto venne sostenuto dai sindaci Franco Carraro, che nel 1993 bandì la gara, e Francesco Rutelli, che diede avvio ai lavori, terminati poi sotto Veltroni.

La gestione dell’Auditorium è affidata alla Fondazione Musica per Roma, nata nel 2004 dal cambiamento della ragione sociale originaria di Società per Azioni con la quale era stata istituita nel 1999 . I soci fondatori sono il Comune di Roma, che ha conferito in concessione d’uso per 99 anni l’immobile Auditorium alla Fondazione, la Camera di Commercio e la Regione Lazio. Oltre alla Fondazione Musica per Roma e all’Accademia di Santa Cecilia, l’Auditorium ospita la Fondazione Cinema per Roma.

Progettato da Renzo Piano, il complesso del “Parco della Musica” è composto da 4 sale da concerto rispettivamente da 308, 673, 1.133 e 2.742 posti, tutte dotate di cabine regia ed impianto audio, 3 sale prova da 160 mq, la grande cavea da 2.782 posti e un’area espositiva di 3.000 mq coperti disposta su due livelli. L’idea alla base del progetto iniziale è stata quella di creare intorno alla casa dell’Accademia di Santa Cecilia un ecosistema culturale più vasto ed innovativo, secondo un modello volto a superare lo schema di uno spazio monofunzionale dedicato alla musica sinfonica e cameristica. A una programmazione più classica sono quindi state affiancate varie forme di spettacolo dal vivo, con l’obiettivo di intercettare e ibridare pubblici differenti. Per questo motivo nelle varie sale hanno trovato spazio la musica rock e il pop, il jazz, la word music, il Romaeuropa Festival, la danza contemporanea, festival di storia e di scienza.

3.2 Fondazione Musica per Roma
Tra le grandi istituzioni culturali cittadine, la Fondazione “Musica per Roma” è una delle più giovani e, al tempo stesso, una delle più radicate e riconosciute. Fin dai primi anni di attività, infatti, la Fondazione si è inserita nell’immaginario e nelle abitudini culturali dei romani, contribuendo a rendere l’Auditorium “Parco della Musica” uno dei centri culturali di riferimento per la città, in grado di attrarre 2 milioni di persone tra spettatori (più di un milione) e semplici frequentatori dell’Auditorium come spazio cittadino.

L’Auditorium è la sede principale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, una delle più antiche istituzioni musicali al mondo. Fondata ufficialmente nel 1585, Santa Cecilia unisce un corpo accademico composto di 100 membri fra i più illustri esponenti della cultura e dell’arte musicale a un’orchestra e un coro sinfonico fra i più accreditati in campo internazionale; svolge attività di alta formazione musicale e conserva un patrimonio storico ricchissimo, riflesso della sua storia plurisecolare. L’ingresso nelle nuove strutture dell’Auditorium ha comportato cambiamenti nel suo pubblico, con un abbassamento dell’età media e una più ampia articolazione sociale, e nello sviluppo dell’orchestra, grazie all’arrivo di importanti direttori residenti e ospiti. La conformazione aperta e inclusiva del Parco della Musica, inoltre, ha contribuito a rafforzare il rapporto con la cittadinanza e la musica amatoriale. L’Accademia oggi ospita 12 cori infantili e giovanili, 5 orchestre giovanili, due cori amatoriali e un’orchestra amatoriale.

All’attività concertistica di Santa Cecilia, la Fondazione ha affiancato negli anni una programmazione multidisciplinare ed eterogenea che, oltre agli spettacoli di musica rock, pop, jazz e ai festival di arti performative, ha ospitato vari convegni e festival sulla letteratura, la storia, le arti figurative, le scienze, il giornalismo, il fumetto e la storia dell’arte. L’Auditorium è quindi diventato un centro dove confrontarsi con le idee, in una forma teatrale non relegata a lezioni accademiche. Da questo punto di vista, il modello di riferimento è rappresentato dal Lincoln Center di New York, a cui la Fondazione guarda anche per le forme di finanziamento privato che ne sostengono le attività. L’Auditorium, d’altronde, è il più grande complesso multifunzionale a livello europeo e uno dei dieci più vasti al mondo, e ospita oltre 300 manifestazioni “business” all’anno tra convention, congressi, lanci di prodotto, incentive e business meetings, con una media di circa 1.000 partecipanti per evento.

3.3 Fondazione Cinema per Roma
Roma è la città del cinema e della televisione. Oltre alla Rai e ad alcune importanti televisioni private (fra cui La 7 e Sky Arte), in città hanno sede l’Istituto Luce, Cinecittà, la Cineteca Nazionale, la Casa del Cinema, il nuovo Miac (il Museo del Cinema e dell’Audiovisivo) associazioni di categoria (l’Anica, l’Apa, Doc It, Agici e Agis), degli autori (100 autori e l’Anac) e dei distributori (Anec), diverse società di produzione e distribuzione televisiva e cinematografica (tra cui la sede del nuovo centro direzionale Netflix), insieme a importanti centri di formazione come il Centro sperimentale di Cinematografia e gli istituti Volonté e Rossellini. Stando ai dati ISTAT pubblicati da Report Ricerca Audiovisivo Lazio, Roma ospita 2058 imprese che lavorano con il cinema o la televisione – quasi l’80% delle industrie audiovisive nazionali –, contribuendo a una filiera audiovisiva regionale che offre lavoro ad almeno 27 mila addetti

Questo ecosistema economico produttivo contribuisce a far crescere tutto il resto del sistema produttivo culturale e creativo, che a Roma ha un valore del 10% rispetto al totale italiano, collocando la capitale al primo posto in Italia per incidenza del valore aggiunto generato dal sistema creativo. L’industria audiovisiva ha inoltre uno stimolo sull’indotto delle aziende che a vario titolo partecipano alla sua produzione, con una moltiplicazione dei consumi capace di toccare altri settori, e dunque tutta l’economia regionale. É stato calcolato che ogni euro investito in una produzione audiovisiva può generare un moltiplicatore di indotto per il territorio pari a 3,25 euro. Il Lazio, secondo i dati della stessa Regione, assorbe il 77% dei finanziamenti alle produzioni cinematografiche totali d’Italia e vanta 88 coproduzioni finanziate al 2019, ponendosi in Europa come la seconda regione d’Europa per volume d’investimenti nel comparto (23 milioni di euro nel 2016) dopo Berlino-Brandenburgo.

Il comparto ha quindi per Roma una funzione strategica, che è stata sorretta da politiche pubbliche e finanziamenti, Nazionali, Regionali e Comunali, molto importanti. Negli ultimi 20 anni a Roma sono nati la Festa del Cinema, il Mia, Videocittà (un evento che ha coinvolto fino a 200 mila spettatori, luogo di incontro tra il cinema, il videomapping, la realtà virtuale e l’arte visiva) e la prima Film Commission d’Italia, che ha la funzione di aiutare le produzioni sia sul piano logistico-amministrativo che su quello finanziario. Esiste poi una legge regionale del 2012 che pone il cinema come settore strategico per lo sviluppo e lo finanzia con 22 milioni di euro attraverso il Programma operativo per l’audiovisivo (dati 2020) e il fondo Cinema.

All’espansione e al consolidamento del comparto audiovisivo romano ha contribuito in maniera significativa la Fondazione “Cinema per Roma”. Nata nel 2006 su iniziativa di Camera di Commercio, Fondazione Musica per Roma, Regione Lazio, Roma Capitale, istituto Luce-Cinecittà e Provincia di Roma (che sono anche i componenti del collegio dei soci), la Fondazione organizza ogni anno negli spazi dell’Auditorium e in altri luoghi della città la Festa del Cinema di Roma, divenuta negli anni uno degli appuntamenti più importanti del cinema in Italia e un punto di riferimento a livello internazionale. L’edizione 2019 ha visto più di 60 mila presenze, la metà delle quali provenienti dalla città, con una rappresentanza molto variegata in base all’età e una prevalenza del pubblico giovane (quasi la metà tra i 18 e i 44 anni). La Festa presenta una vetrina di film in anteprima mondiale, internazionale ed europea, a cui si aggiungono la sezione autonoma Alice nella città – che presenta una rassegna di opere prime e seconde con una giuria composta da studenti delle scuole superiori –, incontri e masterclass con protagonisti del cinema e della cultura, retrospettive e rassegne per celebrare il cinema del passato e scoprire quello del futuro ed eventi speciali che spaziano dall’arte visiva alla musica.

La Fondazione Cinema per Roma, tuttavia, non esaurisce le sue attività solo con la Festa. Accanto ad essa si sviluppano infatti iniziative e attività su tutto sul territorio romano nel corso dell’intero anno, con l’intento di sostenere l’audiovisivo a Roma e nel Lazio. L’esempio più significativo è rappresentato dal CityFest, un contenitore di eventi e iniziative culturali che coinvolge la città dal centro alle periferie, dalle sale cinematografiche alle biblioteche, dai centri culturali alle Università, fino allo stesso Auditorium Parco della Musica e al MAXXI, dove è attiva una rassegna dedicata al cinema documentario. La Fondazione sviluppa inoltre progetti di educazione al cinema nelle scuole e negli istituti di formazione a ogni livello e sostiene piccole rassegne o film di particolare qualità che non hanno la forza di essere distribuiti larga scala. Grazie alla Fondazione, inoltre, a Roma è stato assegnato il titolo UNESCO di “Creative City of Film”, che consente alla Capitale di far parte del prestigioso Network di 116 Città Creative in tutto il mondo nominate per l’eccellenza in ambiti quali Artigianato e Arti Popolari, Design, Cinema, Gastronomia, Letteratura, Media Arts e Musica.

3.4 Secondo nodo: MAXXI
Nel maggio del 2010 l’inaugurazione del MAXXI, celebrata in contemporanea con la riapertura del MACRO, segnava la chiusura e l’ideale compimento di una stagione di grandi opere pubbliche che aveva trasformato profondamente il panorama culturale romano. In poco meno di quindici anni, il programma di rinnovamento e modernizzazione iniziato da Rutelli e proseguito da Veltroni e Borgna aveva portato infatti all’apertura dell’Auditorium Parco della Musica, delle Scuderie del Quirinale e del Museo dell’Ara Pacis, al progetto di risistemazione degli spazi dell’ex Mattatoio di Testaccio, alla creazione delle varie “Case” (del Cinema, del Jazz, delle Letterature, della Memoria e dell’Architettura) e alla nascita del Globe Theatre, dei teatri di cintura nelle periferie e del sistema delle Biblioteche di Roma. Tra i progetti avviati e realizzati in quella stagione, tuttavia, il MAXXI era senza dubbio uno dei più ambiziosi. E lo era, non tanto (o non solo) per l’impatto dirompente dell’architettura di Zaha Hadid, o per i costi programmati (e poi lievitati in corso d’opera) per la realizzazione, ma perché pensato per inserirsi come il nuovo punto di riferimento istituzionale all’interno di un settore, quello del contemporaneo a Roma, all’epoca ancora poco sviluppato.

Nel 1998, quando la Soprintendenza Speciale Arte Contemporanea, su incarico del Ministero dei Beni Culturali, aveva bandito il concorso internazionale di idee per la realizzazione del primo museo nazionale delle arti e dell’architettura contemporanee, le realtà istituzionali che si occupavano specificamente di arte contemporanea a Roma erano poche e in molti casi di recente apertura. Il MAXXI era pensato infatti come ampliamento delle collezioni e degli obiettivi di ricerca de La Galleria Nazionale di Roma. Negli anni successivi, complici anche le inaugurazioni programmate – e più volte rimandate – di MAXXI e MACRO, il sistema romano del contemporaneo si era ampliato e rafforzato, con le aperture di giovani gallerie italiane e internazionali e la nascita di fondazioni private a vocazione pubblica. A questi spazi istituzionali, inoltre, si erano affiancate le esperienze preziose e spesso innovative dei collettivi legati a occupazioni e centri sociali, spazi non profit e progetti editoriali. Eppure, all’epoca dell’inaugurazione del museo progettato da Hadid, il sistema romano del contemporaneo soffriva ancora di alcune debolezze strutturali – mancanza di una solida rete di coordinamento e collaborazione tra le varie realtà, carenze sul piano della formazione, scarsa capacità di ampliare il proprio pubblico e di coinvolgere nel sistema alcune importanti istituzioni (dalle Accademie internazionali alle tre grandi università pubbliche, fino all’Accademia delle Belle Arti).

Oggi, a distanza di dieci anni dalla sua apertura, il MAXXI è una realtà consolidata. Gestito dall’omonima Fondazione costituita nel 2009 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il MAXXI ha una struttura complessa, con un direttore artistico, due direttori per i due musei (Arte e Architettura) e quattro dipartimenti: MAXXI Arte, MAXXI Architettura, MAXXI Ricerca, Educazione e Formazione, e MAXXI Sviluppo. Dopo le difficoltà dei primi anni, questa complessità è stata progressivamente organizzata e valorizzata – così come gli stessi spazi del museo, e in particolare della piazza –, per favorire lo sviluppo di un polo del contemporaneo in grado di raggiungere un pubblico sempre più ampio ed eterogeneo. A dimostrarlo, ci sono i numeri del primo decennio di attività: 3.328.000 visitatori totali, 106 mostre (di cui 45 prodotte, coprodotte o realizzate con altre istituzioni italiane e internazionali), una collezione d’arte passata da 235 a 531 opere e una collezione di architettura arrivata da 13 a 88 fondi archivistici, oltre 2.000 eventi culturali tra lezioni, incontri, cinema, teatro, musica e danza, poco più di 5.300 attività educative e di formazione con 125.200 partecipanti e un palinsesto online durante il lockdown imposto per l’emergenza Covid-19 che ha superato le 14 milioni di visualizzazioni.

Al di là del successo di pubblico in termini di numeri, ciò che emerge da questi dati è la peculiarità dell’offerta culturale di questo primo decennio, almeno in relazione al contesto romano del contemporaneo. A un’intensa attività espositiva, il MAXXI ha accompagnato infatti – soprattutto negli ultimi anni – una programmazione caratterizzata dall’apertura verso i diversi ambiti della cultura contemporanea – anche grazie a una rete di collaborazioni con importanti istituzioni cittadine (tra le altre, Auditorium, Festa del Cinema e Romaeuropa) – e da un’attenzione specifica per la formazione (con didattica base, master universitari e post-universitari). Da questo punto di vista, insieme al polo costituito da Palazzo delle Esposizioni, Macro e Mattatoio (che ha lanciato nel 2019 il Master PACS su Arti Performative e Spazi Comunitari), e alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, il MAXXI costituisce uno dei soggetti di riferimento per lo sviluppo futuro del sistema delle arti e della cultura contemporanee a Roma.

In questo momento e in particolare nell’ultimo biennio l’offerta della città per quanto concerne l’arte contemporanea è diventata ancora più ricca, trasversale e diversificata: si pensi alla ritrovata centralità della Quadriennale, ripensata a partire dalla formazione e promozione dell’arte italiana a livello internazionale; alla programmazione delle Accademie Internazionali di Cultura; alle mostre di alto profilo ospitate da Palazzo Altemps, Palazzo Barberini e Galleria Borghese dove il contemporaneo incontra altri pubblici e infine alla nascita di numerosi artist run spaces che di fatto è il segno di una (inedita) attrattività della città per i giovani artisti.

Restano però alcune fragilità: per compiere un ulteriore e decisivo salto di scala, tuttavia, è necessario un coordinamento sovra-istituzionale (e dunque una precisa volontà politica e un impegno da parte delle amministrazioni locali) che sia in grado, da un lato, di gestire una rete consolidata di collaborazione tra le varie istituzioni artistiche e le istituzioni formative, e dall’altro, di sostenere sulla lunga durata la produzione: studi per giovani artisti, spazi non profit e di ricerca, ovvero quei luoghi di sperimentazione senza i quali non esiste un ecosistema dell’arte, una scena capace di generare discorso, di attrarre i giovani creativi, di fare futuro. Solo così è possibile attivare un circolo virtuoso che permetta di superare un’altra debolezza storica di Roma – denunciata già da Moravia in un breve ma fulminante saggio di più di quarant’anni fa –, e cioè l’assenza di un’ampia borghesia culturalmente formata e informata capace di sostenere, valorizzare e rilanciare la scena del contemporaneo.

3.5 Nodo mancato (I): il Parco dei Fori
Valorizzare la produzione di cultura contemporanea è un’operazione necessaria anche per ripensare il patrimonio archeologico di Roma, sottraendolo al ruolo di quinta prospettica – ritagliato su misura per la prima volta durante il ventennio fascista – e al consumo turistico di massa. Solo ridisegnandone forma e funzione, ci sembra, è possibile restituirne il senso più autentico e la capacità di generare identità e partecipazione attiva della cittadinanza. Antico e contemporaneo non sono termini alternativi e in opposizione, ma possono concorrere a costruire il progetto incompiuto, e a lungo dimenticato, di una capitale moderna. In questo senso, è possibile ripartire da due modelli, due strade già immaginate – e inavvertitamente abbandonate – nel corso del Novecento.
La prima via è quella indicata dalla storia del plastico della Roma imperiale di Italo Gismondi, realizzato nel 1933 per la mostra augustea della Romanità e collocato poi, dopo un ampliamento, nel Museo della Civiltà Romana nel 1955. In quell’operazione, infatti – con cui si configura una sorta di struttura a scatole cinesi, dove la città antica, la città fascista e la città moderna esistono contemporaneamente – la memoria legata al patrimonio storico e archeologico non solo non viene cancellata, ma si articola e si arricchisce attraverso la lente del museo, che renda leggibile la storia al di fuori di ogni retorica. A questo proposito, non si può non evidenziare come le vicende di Eur SpA e del nuovo Museo delle Civiltà abbiano mortificato quell’esperimento (pur parziale e imperfetto), con la chiusura del Museo – la cui data di apertura è ancora rimandata – e un riallestimento delle collezioni dell’ex Museo Pigorini e dell’ex museo delle Arti e Tradizioni Popolari che, ancora una volta, non fa chiarezza sulla provenienza delle collezioni e sul nostro passato coloniale.
La seconda via, ancora più ambiziosa nel ripensare il rapporto della città con la propria storia, è quella legata al “Progetto Fori Imperiali”, da attualizzare a partire dalle premesse di Benevolo, La Regina, Cederna, Insolera e Petroselli e riportare alla città contemporanea, intrecciando l’idea di un cuneo che attraversa e unisce centro e periferia non solo come luogo di identità, ma anche come modello di sostenibilità della città contemporanea. Nato per esigenze di conservazione del patrimonio, esposto al danneggiamento derivante dall’inquinamento atmosferico, il progetto di rinnovamento urbanistico dell’area archeologica che va da Piazza Venezia al Colosseo prevede lo smantellamento di via dei Fori Imperiali, la creazione di una struttura ipogea di accesso ai Fori legata alla nuova stazione della Metro C, la pedonalizzazione dell’area e il recupero della geometria delle piazze imperiali dei Fori. Non è questo il luogo per analizzare i dettagli logistici legati alla riorganizzazione della viabilità e del sistema di trasporti dell’area, che pure incidono sulla considerazione e sull’inquadramento generale del progetto . Ai fini del nostro discorso ciò che più interessa è l’impatto che una simile operazione avrebbe sulla forma urbana dell’area archeologica, e dunque sulla rielaborazione del proprio passato da parte della città – anche in relazione agli interventi effettuati in epoca fascista – e sulla capacità di immaginare un nuovo spazio pubblico, sottratto alla funzione automobilistica e restituito alla cittadinanza. Come ha giustamente suggerito Walter Tocci, Roma «non sarà mai davvero una città moderna finché non porterà a compimento la sistemazione dei Fori. Non sarà davvero città internazionale finché non avrà l’ambizione di proporre al mondo un senso nuovo della “città eterna”. Non sarà autenticamente città storica se non riuscirà a creare una tensione creativa tra passato e futuro» .
3.6 Nodo mancato (II): il Museo della Scienza
Il rapporto tra Roma e la scienza è tanto antico e fecondo quanto misconosciuto e maltrattato. La ricostruzione culturale e sociale della città oggi deve fare i conti sia con la sua identità scientifica sia con le conseguenze che il rifiuto di questa preziosa eredità hanno portato. Da via Panisperna a Galilei, dalla scuola di matematica all’impresa che portò all’eradicazione della malaria nell’agro-romano, dalla casa del bambino di Maria Montessori ai successi del settore aerospaziale. Tra tutti gli esempi che si potrebbero scegliere per raccontare il legame della scienza con la città di Roma, qui si vuole ripercorrere la storia di un grande assente, di un nodo mancato della città: il museo della scienza.

Nel dicembre 2014 la CDP Investimenti d’intesa con l’Amministrazione Comunale bandisce un concorso di progettazione urbana per affrontare la rigenerazione e lo sviluppo di una vasta zona in una parte significativa della città all’interno del II municipio, già oggetto di un intenso e vincente processo di trasformazione: quella del MAXXI e dell’Auditorium. Gli edifici industriali di via Guido Reni, un tempo utilizzati per scopi militari (l’ex caserma “Stabilimento militare materiali elettronici e di precisione” restaurati e adattati), avrebbero dovuto ospitare la Città della Scienza. Il progetto dello studio vincitore, fra 246 candidature provenienti da 20 paesi, sarebbe dovuto partire in tempi brevi per inaugurare la Città della Scienza nel 2020. Tuttavia, come già in passato, il progetto non verrà realizzato e non sarà più presente nell’agenda della città.

Infatti, la possibilità di un museo della scienza a Roma risale almeno al XIX secolo. Tuttavia, scorrendo l’elenco degli ultimi progetti avviati e mai realizzati spiccano quello visionario dei primi anni Ottanta di Maurizio Sacripanti in via Giulia, promosso da Giorgio Tecce e da Renato Nicolini, e il progetto di Paolo Portoghesi di un moderno museo nelle aree dismesse del Mattatoio (o dei Magazzini Generali). Infine, si arriva alla proposta, coordinata da Paco Lanciano, di realizzare il museo in un’area del quartiere Ostiense di proprietà dell’Eni – probabilmente quella che, più delle altre, ha raccolto maggiore successo e speranza di realizzazione.

Ebbene, la costruzione di uno Science Center, di nuova concezione e ad alta sostenibilità ambientale, cuore del dialogo tra scienza, cittadinanza e democrazia, è una sfida da rilanciare: un luogo in grado di segnare una discontinuità netta rispetto al panorama nazionale e internazionale attuale. In questo senso, la riflessione su Roma, città policentrica, in potenza, sconnessa, dismessa e inquieta, deve ribaltare vecchi paradigmi e stereotipi narrativi e investire sulla sua immensa e ineguagliata tradizione di antica capitale scientifica, per creare prima e diffondere dopo, un nuovo modello di creatività e conoscenza. E il presente nodo mancato non è di per sé mancante. Il progetto, infatti, esiste già e ha la sua sede ideale all’interno del polo – decisamente virtuoso – composto da MAXXI e Auditorium che vi si presta innanzitutto urbanisticamente.

Il progetto in questione, in realtà, nasce quasi dieci anni prima del già citato concorso bandito nel 2014. È il settembre del 2005 quando, un decreto-legge autorizza la “dismissione urgente e prioritaria”, nell’ambito di “obiettivi di finanza pubblica” di immobili ad uso non abitativo, in cui, tra i vari, risultano essere presentigli Stabilimenti militari materiali elettronici e di precisione (SMMEP) di via Guido Reni.

Ripercorrendo la storia degli atti, nel giugno del 2010 viene dato virtualmente il via libera alla valorizzazione delle caserme fra le quali è annoverato l’area degli SMMEP. Tuttavia, la delibera dell’amministrazione Alemanno non contiene destinazioni di interesse pubblico e non viene così rinnovato alla scadenza. Con la nuova giunta guidata da Ignazio Marino, nel settembre 2013, viene approvata una memoria nella quale si prevede di collocare nell’area da valorizzare sia il museo della scienza sia una quota di alloggi sociali e servizi di interesse territoriale. Contemporaneamente, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, cede l’area a Cassa Depositi e Prestiti SGR che, di fatto, accoglie gli indirizzi della memoria della giunta Marino. Come ricordato in precedenza, è il 2014 l’anno in cui viene indetto da, CDP Investimenti e Comune di Roma, un concorso internazionale che vedrà vincitore un progetto nel quale la città della scienza è al centro dell’area a disposizione. Al di là delle criticità tecniche, il progetto non viene portato avanti e rimane, in questo modo, in sospeso durante il commissariamento Tronca.

Con la nuova amministrazione a guida Virginia Raggi si dovranno aspettare quasi tre anni prima di tornare a parlare di un progetto per la città della scienza: la prima delibera della nuova giunta è infatti datata all’ottobre 2019. Sarà il secondo assessore all’urbanistica della Giunta, Luca Montuori, a riprendere l’impianto e collocamento delle precedenti delibere, introducendo però alcune significative modifiche: la prima prevede la messa a concorso gli spazio pubblici di quartiere; la seconda, invece, accoglie alcune modifiche richieste da CDP per l’albergo, in base a standard internazionali del settore. Viene poi cambiato lo strumento urbanistico che non è più quello dei piani di recupero.

La storia di quello che attualmente è l’ultimo stop alla realizzazione di un museo della scienza a Roma si conclude il 17 dicembre 2020 con l’Assemblea Capitolina che approva le controdeduzioni alle osservazioni per la trasformazione urbana degli ex stabilimenti militari di Via Guido Reni: la trasformazione riguarderà una superficie complessiva minore di quella stabilita inizialmente (circa 55000 mq) nella quale si conferma che saranno realizzati edifici residenziali, un albergo, esercizi commerciali di vicinato, oltre a servizi per il quartiere. Nessuna decisione è stata presa sulla parte pubblica, circa metà dell’area, dove la Giunta Marino aveva ipotizzato di realizzare la Città della scienza con una parte museale, laboratori e servizi per l’università, oltre a una grande piazza pubblica simmetrica al prospiciente MAXXI. In questo modo, si conclude l’ultimo atto della Città della Scienza.

3.7 Flaminio distretto culturale
Il progetto “Parco della musica” ha un ideale completamento al quale la Fondazione Musica per Roma lavora da tempo: il Distretto culturale Flaminio. L’idea è quella di un Parco allargato, che partendo dall’Auditorium si muova sulla direttrice di Via Guido Reni, abbracci il Palazzetto dello Sport progettato da Nervi, il MAXXI, le Caserme e arrivi, attraverso il ponte della Musica, fino allo Stadio Flaminio e al Foro italico. L’idea è quella di creare un’area integrata, un parco della cultura, dello sport, dell’arte, della musica e della scienza .

MAXXI e Auditorium hanno già utenze analoghe, a cui si sommerebbe il bacino illimitato del pubblico sportivo. Con una destinazione museale delle Caserme in via Guido Reni, realizzando un Museo della Scienza, con un utilizzo diverso del Palazzetto del Nervi e la sua cavea coperta, con due sale da 200 e 400 posti, si produrrebbe un nuovo Parco con strutture complementari. Un progetto mai realizzato, che però aleggia nelle ipotesi di varie sindacature ed ha già introdotto una trasformazione urbanistica con la realizzazione nel 2011 del Ponte della Musica – Armando Trovajoli, un collegamento ideale di questa linea progettuale che arriva al Foro italico dove, con l’avvenuta copertura dello Stadio del tennis, si potrebbero organizzare anche rassegne musicali permanenti, grazie ad un sito che può ospitare quasi 6000 persone.

Fino ad oggi non è stato possibile dare progettualità operativa a questa visione perché gli interlocutori sono molti e molteplici: Palazzetto Nervi e Stadio Flaminio prima sotto il controllo del CONI e poi restituiti al Comune; MAXXI sotto lo Stato; le Caserme Guido Reni sotto il demanio. Per realizzare questo nuovo “distretto” della cultura è necessario creare una governance comune, un coordinamento, affinché tutte le istituzioni coinvolte operino in uno stretto rapporto. Non un nuovo Cda, che potrebbe creare conflitti e un ulteriore livello amministrativo, ma uno scambio leggero e informale. L’idea potrebbe essere, per esempio, quella di ospitare nei vari Cda delle istituzioni coinvolte i rappresentanti di ciascun’altra. Tutto per fare diventare il quartiere Flaminio il quadrante romano della cultura e dello sport. Ovviamente il progetto dovrebbe essere supportato da un sistema di trasporti sostenibile, perché insisterebbe su tali numeri da giustificare un rafforzamento del sistema tranviario e la realizzazione di una fermata Auditorium della Metro C, di cui esiste già un progetto.

Si parla molto dell’attrattività giovanile di Roma. Il distretto Flaminio della cultura e dello sport, farebbe fare un salto di scala alla capitale, facendola diventare attrattiva sul piano della tradizione classica, ma proiettandola sul contemporaneo in concorrenza positiva con le grandi capitali europee. Si tratta sicuramente di un progetto straordinario che meriterebbe molta più attenzione da parte della città, anche per la sua ricaduta urbanistica, mettendo in rete capolavori architettonici come il palazzetto di Nervi riqualificato, l’Auditorium di Renzo Piano e il MAXXI di Zaha Hadid con un nuovo museo della Scienza; per finire nel Foro Italico. Mancherebbe solo a coronare questo progetto una grande biblioteca pubblica centrale, sul modello di quella presente al Centre Pompidou di Parigi. Per l’amministrazione comunale questo dovrebbe essere uno dei progetti di rescaling su cui puntare decisamente: per altro, gli investimenti sono già pronti, ma serve una regia politica che sposi la visione e che spinga i vari attori coinvolti verso un’unica direzione.

Un progetto di questo tipo avrebbe anche il merito di interrompere quel modello urbanistico romano, sempre uguale, fatto di sovrapposizioni e sovrabbondanze, che in ogni sua fase di crescita ha visto l’aggiungersi di un’estensione edilizia, senza trasformare la precedente. Il progetto “Flaminio distretto culturale” darebbe vita, invece, al primo esempio europeo di “museo totale”, inaugurando una nuova agorà pubblica capace di integrare sport, musica, arte, cinema e scienza. Senza considerare che la realizzazione di questo distretto potrebbe usufruire di un ulteriore convergenza strategica: quella della rete delle Accademie internazionali, per lo più situate a Valle Giulia.

 4. Riannodare le reti: accademie, biblioteche, sviluppatori digitali

Auditorium e Maxxi ci hanno permesso di osservare da vicino il funzionamento di due centri nodali su cui convergono sistemi culturali a rete che potranno essere ulteriormente potenziati dal progetto “Flaminio Distretto culturale” e, soprattutto, dalla creazione di un nuovo nodo imprescindibile: il museo della Scienza. Ora analizzeremo, invece, tre diverse reti della conoscenza ramificate in città, per lo più prive di nodi capaci di coordinarne pubblicamente attività e fruibilità urbana. La prima rete nasce nel passato ed è quella delle accademie internazionali che ci permette subito di definire una componente fondamentale – oggi misconosciuta almeno quanto quella scientifica – dell’identità culturale di Roma: il suo essere capitale cosmopolita di una modernità, addirittura in anticipo sul resto d’Europa. La seconda rete è più recente ed è sicuramente quella, fra le tre analizzate, più fragile: la rete delle biblioteche pubbliche di base. Dovrebbe essere la spina dorsale della conoscenza pubblica in città, in stretto dialogo con scuole e territori, ma resta una rete sotto-finanziata, ospitata in edifici poco funzionali e organizzata secondo modalità di fruizione ancora obsolete. Infine, la rete più recente, quella dell’innovazione digitale, rete in rapida crescita, ben ramificata in città, che fa di Roma uno dei centri italiani potenzialmente più attrattivi del settore, perfino a livello internazionale.

4.1 Prima rete: la città cosmopolita delle accademie
Il 25 marzo 1861 il conte Camillo Benso di Cavour, primo Ministro del Consiglio del neonato Regno d’Italia, tenne un celebre discorso alla Camera dei Deputati sulla «questione romana» e sulle ragioni alla base della scelta di Roma come capitale del Regno: «La questione della capitale – sosteneva Cavour – non si scioglie, o signori, per ragioni né di clima, né di topografia, neanche per ragioni strategiche […]. È il sentimento dei popoli quello che decide le questioni ad essa relative […]. [I]n Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali e morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio».

Roma, dunque, «capitale delle memorie», di memorie che sono insieme locali e universali. Del resto, per Roma essere capitale significa da sempre fare i conti con la propria dimensione internazionale, globalizzarsi, negare i propri confini spaziali e temporali per fare dell’orbis una urbs. Come ricorda il filosofo Massimo Cacciari, l’apertura verso il mondo e l’idea di una città mobilis e augescens sono connaturate all’essenza stessa della civitas romana; definiscono la sua peculiare «forma di vita urbana» e il suo particolare concetto di cittadinanza. Eppure – lo ribadisce lo stesso Cavour – è soprattutto la specificità del paesaggio urbano di Roma, caratterizzato dalla stratificazione di tempi storici diversi, ad aver imposto nell’immaginario europeo e occidentale il mito di Roma «capitale del mondo» .

Da quando Roma è diventata definitivamente capitale d’Italia nel 1871, sono state soprattutto le Accademie internazionali a fornire un’infrastruttura scientifica alla vocazione cosmopolita della città, riadattando la geografia multi-scalare del suo paesaggio urbano alle sfide di una globalizzazione sempre più rampante. Questa rete di «colonie cosmopolite», come le chiama un articolo del Times del 27 aprile 1933, situate prevalentemente intorno all’area di Valle Giulia , nel corso dei decenni ha contribuito ad attirare, accogliere e ospitare artisti e studiosi internazionali, implementando e rinforzando il ruolo di Roma come luogo del «cozzo delle idee» e come centro internazionale di formazione, produzione e sperimentazione creativa, artistica e culturale. Nello specifico, a Roma sono attivi due cluster: l’Unione internazionale degli istituti di archeologia, storia e storia dell’arte in Roma, che raccoglie trentaquattro istituti di ricerca, italiani e non italiani, appartenenti a diciannove nazioni diverse, europee ed extra-europee , e la sede romana dell’EUNIC (European Union National Institutes for Culture), una rete degli istituti di cultura dei paesi dell’Unione Europea attivi fuori dal territorio nazionale . L’Unione nasce nel 1946 con la missione di riportare in Italia le biblioteche dei quattro più importanti istituti tedeschi (la Bibliotheca Hertziana, l’Istituto Archeologico germanico di Roma, l’Istituto storico germanico di Roma e l’Istituto germanico di storia dell’arte di Firenze) e di ristabilire «quel quadro di collaborazione internazionale» lacerato dall’avanzata dei nazionalismi e dalle due guerre mondiali. La sede di Roma dell’EUNIC esiste invece solo dal 2008 ed è nata con l’obiettivo di creare e promuovere forme di collaborazione e contatti stabili tra i propri membri. Entrambe queste reti, uniche nel loro genere e vera specificità della capitale italiana, contribuiscono a garantire continuità politica e scientifica a quel rapporto col passato che è la chiave della modernità di una città come Roma. Come scriveva Antonio Cederna, infatti «solo i distruttori d’Italia possono avere interesse a farci credere che la salvaguardia dell’antico è opera puramente passiva e di conservazione». Ma è vero piuttosto il contrario, cioè che «solo chi è moderno rispetta l’antico, e solo chi rispetta l’antico è pronto a capire le necessità della civiltà moderna» .

Oggi le Accademie internazionali sono un soggetto importante per la vita culturale della città, in grado di contribuire in maniera sostanziale alla produzione culturale anche grazie alle relazioni e agli scambi solidi e proficui che sono riuscite a costruire negli anni con le università, ma anche con le istituzioni museali, le case editrici, i teatri e il circuito del cinema. In questo senso, l’auspicio è che vengano integrate sempre di più nel sistema di istituzioni che operano nei vari ambiti della conoscenza, consolidando e potenziando il ruolo di Roma come centro internazionale di ricerca, formazione e produzione.

4.2 Seconda rete: le biblioteche di base come spina dorsale mancante
Se tra i mattoni fondamentali della crisi strutturale che investe Roma, si prendono in considerazione scuole e biblioteche salterà all’occhio che, a riguardo, Roma ha un enorme problema: disomogeneità in quantità, qualità e distribuzione sul suo vasto territorio; strutture fatiscenti, esteticamente e funzionalmente inadeguate e, soprattutto, un pensiero cristallizzato e scarsamente innovativo che si combina, fatalmente, a una governance esclusivamente dall’alto, top-down.

A Roma, infatti, le biblioteche hanno un’elevata densità nel primo municipio per diluirsi rapidamente nelle aree più periferiche. Roma ha trentanove ‘sedi operative’ (biblioteche di base) di cui sette nel I municipio della Capitale. Le restanti sono così suddivise: quattro in II municipio, una in III, tre in IV, quattro in V, tre in VI, tre in VII, una in VIII, due in IX così come in X e XI, invece sono tre in XII, ancora due in XIII e XIV e, infine, una sola biblioteca in XV. A questi numeri si aggiungono le sei biblioteche federate e i quaranta bibliopoint (biblioteche scolastiche che hanno firmato un protocollo d’intesa con l’amministrazione) .

In questo senso, i dati sono volti a mostrare come anche per il sistema comunale delle biblioteche sussista una geografia monocentrica che conferma l’impressione della distanza sociale tra le diverse zone e lo scarso investimento da parte del pubblico. Le biblioteche, così come in generale i centri culturali, – ben prima dei mezzi pubblici o di altri ‘servizi’ di cui si ha diritto – dovrebbero essere il modo di orientarsi e relazionarsi con l’amministrazione e, soprattutto, sentirsi parte della città. Tuttavia, la carenza strutturale (e, come si vedrà a breve, lo scarso investimento) non consente la fruizione da parte della cittadinanza di una struttura basilare che dovrebbe accrescere il potenziale sociale e culturale di Roma.

Una delle ragioni per cui il sistema biblioteche (così come i centri culturali cittadini) sembrerebbe non essersi riuscito a sviluppare, si potrebbe rintracciare nel falsato investimento sociale dell’edilizia residenziale pubblica (ERP) . Si prenda ad esempio la biblioteca Renato Nicolini, che insiste tra Portuense e Corviale. Come noto, la mastodontica opera di architettura sociale di Corviale aveva nel progetto originario per ogni lotto una sala condominiale che potesse essere utilizzata per attività ricreative comuni. Oggi, tuttavia, dell’idea sociale (e, a tratti, socialista), dell’architetto Mario Fiorentino sono visibili solo delle flebili tracce, come il centro di arte contemporanea Mitreo Iside, nato nel 2007 dalla riappropriazione popolare di un luogo pubblico abbandonato. Dall’inizio degli anni Ottanta sino ai primi anni Duemila l’impegno delle istituzioni per la valorizzazione di quel patrimonio sembra non essere avvenuta. Solo nel 2002, infatti, è stata inaugurata e aperta al pubblico la biblioteca comunale (dieci anni dopo intitolata a Renato Nicolini): sono distanze temporali che mostrano l’inottemperanza degli obiettivi originari e il fallimento non solo di un modo di costruire la città, ma di governarla.

Un modo di esercitare il (mal) governo della città confermato dai dati dell’investimento: difatti, Roma spende per le biblioteche circa 5€ per ogni cittadino, poco meno di Barcellona e Madrid (7€) ma molto meno di Vienna e Parigi (18€), tenendo ancor meno il confronto con le capitali del nord Europa (e.g. Helsinki, con circa 50€ a testa) . Nonostante lo scarso investimento, quando animate da associazioni e volontari, le biblioteche romane sembrano essere esperimenti virtuosi. È il caso della Casa delle Letterature, che per molti anni ha gestito nella basilica di Massenzio il più grande evento letterario internazionale romano (“Festival Letterature alla Basilica di Massenzio”, oggi “Insieme Festival – Lettori, Autori, Editori”), e che, tuttavia, appare oggi come uno dei simboli più eclatanti della dismissione culturale che sta investendo la città. Riprendendo il titolo di un appello del 2017 firmato da Paolo di Paolo, la vicenda che ha interessato Casa delle Letterature rappresenta la strettoia burocratica che ha soffocato una parte della cultura romana : nell’azzeramento totale avvenuto negli anni di amministrazione Raggi, il centro culturale accanto a Piazza dell’Orologio si è trovato vittima perfetta e silente, nonostante abbia ricevuto una sorte diversa della vicina Biblioteca Rispoli. Quest’ultima, infatti, in pochi mesi è passata da chiusa per manutenzione alla chiusura definitiva, nel mentre Casa delle Letterature veniva accorpata e diveniva “soltanto” una biblioteca.

Caso contrario è quello del hub-culturale Moby Dick alla Garbatella, dal 2016 luogo trasversale di incontro e formazione per la città. Nella sua conformazione standard Moby Dick è utilizzato come aula studio, dal tardo pomeriggio, invece, ospita incontri su temi di rilevanza sociale o presentazioni con il Circolo di lettura Moby Dick. Tuttavia, occorre evidenziare che, nonostante Moby Dick aderisca al circuito biblioteche di Roma, non è un progetto di Roma Capitale, ma un’esperienza di partecipazione e riappropriazione di un luogo pubblico. Questa esperienza nasce infatti da un’occupazione: nel 2014 giovani residenti hanno (per un breve periodo, è da dire) occupato l’edificio storico che, nell’architettura popolare fascista, ospitava i bagni pubblici del quartiere. La Regione Lazio si è così presa in carico il progetto di nuovo uso degli spazi e ha investito 700mila euro per la ristrutturazione. È di iniziativa regionale anche il piano “Generazioni Due” – ancora non messo in pratica sul territorio capitolino – che prevede interventi di potenziamento degli Atenei per la realizzazione di nuove biblioteche e, contemporaneamente, l’apertura delle stesse in orari meno canonici.

Benché Biblioteche di Roma rappresenti il vulnus per il sistema conoscenza, è necessario sottolineare l’efficienza del servizio BiblioTu, il portale delle Biblioteche di Roma, e la nuova ReteINDACO, la biblioteca digitale. Tuttavia, nonostante la tecnologizzazione e messa in rete del patrimonio bibliotecario, Roma resta una città che non consente ai centri bibliotecari di svolgere la missione generativa sul territorio e, in questo senso, di attrarre la propria comunità di residenti.

4.3 Terza rete: l’ecosistema digitale come potenziale laboratorio pubblico
Da otto anni a questa parte si tiene a Roma il più importante evento di robotica, intelligenza artificiale e sperimentazioni digitali 3D d’Europa: il Rome Maker Faire. Il Maker Faire nasce nel 2006 nella Bay Area degli Stati Uniti, per presentare ad università ed operatori di settore i nuovi prototipi e i progetti più innovativi della ricerca digitale; l’edizione romana parte nel 2013 e diventa da subito la seconda fiera più grande al mondo, per numero di visitatori e progetti esposti, seconda solo a quella americana. L’edizione del 2019 si è chiusa infatti con numeri davvero impressionanti: oltre 100.000 visitatori in tre giorni, di cui 27.000 studenti; più di 700 progetti esposti, provenienti da 40 paesi differenti; 391 i seminari organizzati, 40 le università coinvolte, 87 scuole presenti, più di 600 fra giornalisti e blogger accreditati. Ma per quale ragione organizzare proprio a Roma un evento di questa portata? Non sembra questa scelta andare subito in rotta di collisione proprio con quell’immagine mortificante con cui la città viene ormai quasi esclusivamente identificata, vale a dire come capitale di un turismo di massa senza qualità e di una burocrazia in sfacelo?

La presenza del Maker Faire a Roma ci permette in realtà di aprire una porta sul nuovo ecosistema di sviluppatori digitali che da alcuni anni sta trasformando la città in una rete ad alto potenziale di ricerca e sperimentazione. Si può partire dalla scelta di Davide Dattoli, fondatore di Talent Garden, di concentrare proprio su Roma – unica città europea – ben tre sedi (l’ultima inaugurata, quella di Ostiense, occupa uno spazio enorme, di oltre 5000 mq con Fab Lab digitale annesso; ospita più di 300 postazioni di lavoro, oltre a sale workshop, bar e palestra) di questa prestigiosa rete internazionale di centri di formazione e di “incubazione” di start up digitali. Alberto Luna, il fondatore di Rome Maker Faire, ha il suo studio operativo proprio in Talent Garden Ostiense, di cui è executive partner.

Roma è però anche la sede di Pi Campus, una sorta di Silicon Valley in miniatura ospitata nel microcosmo verde di via Indonesia all’Eur, fondato da Marco Trombetti che è l’ideatore, insieme alla moglie Isabella Andrieu, di Translated, il servizio di traduzione linguistica ad intelligenza artificiale utilizzato da Google. Pi Campus ospita 47 società internazionali ed è uno dei più importanti centri di formazione e di sviluppo tecnologico a livello mondiale.

Il terzo nodo imprescindibile di questa nuova rete è sicuramente Luissenlabs, la fabbrica di start up più grande d’Europa. La sede si trova nel lato di via Marsala della Stazione Termini; ha una superficie di oltre 5000 mq e può ospitare fino ad 80 start up contemporaneamente. In termini tecnici, Luissenlabs è un acceleratore: il suo scopo infatti è quello di selezionare “gli unicorni” di domani, vale a dire quelle rarissime start up che riescono a superare, in un breve periodo di tempo, un valore di mercato di oltre 1 miliardo di dollari. Per far questo, un bando pubblico seleziona 6 progetti ogni semestre su cui vengono investiti 160.000 euro a testa, a fondo perduto. Lo scopo è quello di “accelerarne” lo sviluppo, per accompagnarle, dopo sei mesi di strutturazione, nel mercato dei fondi di investimento internazionali.

Questi tre centri rappresentano i nodi più importanti su cui gravita la nuova rete della sperimentazione digitale romana, i cui numeri sono costantemente in crescita: oggi nell’area metropolitana si contano 24 Start up Studios, 6 scuole d’Impresa, 12 Fab Lab, 5 centri di Technology Transfer, 50 Smart Working Center. È fondamentale sapere però che lo sviluppo di Talent Garden, Pi Campus e Luissenlabs è frutto di un progetto coordinato da due università pubbliche (Sapienza e Roma Tre) ed una privata: la Luiss. Rappresenta, quindi, un primo esempio virtuoso di collaborazione strategica fra centri universitari, città e mondo dell’innovazione; nello stesso tempo, non secondario nello sviluppo più generale della rete, è stato il ruolo di Lazio Innova, programma regionale di accompagnamento ed “incubazione” di start up digitali.

Lo sviluppo di questa rete è dunque effetto di un intervento attivo di politiche pubbliche mirate. Tuttavia, stupisce che la ricaduta sulla vita della città sia ancora relativamente irrisoria. Da una serie di interviste ad alcune personalità direttamente coinvolte nello sviluppo di questo settore , emerge sempre lo stesso problema di fondo: la sostanziale mancanza di personale qualificato in Comune che sia capace di confrontarsi, anche superficialmente, con l’insieme di questi nuovi modelli operativi di amministrazione dei dati. Le strutture del comune di Roma avrebbero la possibilità concreta di godere di uno dei più innovativi distretti digitale europei. Con una serie di alleanze mirate, la città potrebbe non solo iniziare un processo virtuoso di modernizzazione radicale dell’amministrazione comunale; ma avrebbe perfino l’opportunità di ripensare – al massimo livello oggi possibile di sperimentazione – il proprio ruolo di capitale, come centro della pubblica amministrazione.

 5. Questioni aperte

Siamo partiti segnalando una contraddizione: Roma è una città tutt’ora ricchissima dal punto di vista della produzione e della sperimentazione di conoscenza; nello stesso però, patisce un massiccio disinvestimento (progettuale, finanziario, infrastrutturale e simbolico) da parte dello Stato di cui è sede. L’identità della città è in crisi anche perché la cornice istituzionale, nella quale è stata inserita da centocinquant’anni, è in stato di dismissione, se non di vero e proprio abbandono. Ciononostante, Roma si sta trasformando e la mappa dinamica, strutturata su nodi e reti, che abbiamo provato a costruire, vuole essere un esercizio immaginativo, capace di indicare tendenze potenziali su cui scommettere, quanto criticità da superare.

Ci siamo soffermati su due istituzioni (Auditorium e MAXXI) che ci pare stiano lavorando come nodi di una rete fitta, convergente su centri istituzionali all’altezza di una capitale internazionale; abbiamo poi ragionato su due nodi mancati e tutt’ora mancanti: il parco dei Fori come occasione irrinunciabile per essere contemporanei nell’interpretazione del proprio passato; e il museo della Scienza, che avrebbe lo scopo di rimettere al centro dell’identità romana, la tradizione scientifica, spesso di prim’ordine, che qui si è sviluppata. Quest’ultimo nodo consentirebbe, se realizzato come da progetto in via Guido Reni, sarebbe inoltre vettore di un progetto di trasformazione urbanistica importante: creare un’enorme agorà pubblica, un parco museo integrato unico al mondo. Infine, ci siamo concentrati su tre reti ramificate nel territorio metropolitano: la prima, quelle delle accademie internazionali, è antica e ci parla di un altro aspetto imprescindibile dell’identità profonda di Roma: il suo essere da sempre centro urbano cosmopolita. Per questa ragione, se ci pare più che mai necessario istituire un Science Center (ed un Politecnico), allo stesso modo a Roma servirebbe un museo della città capace di interrogare la sua storia millenaria come storia di popoli, come “cosmopoli”: un Urban center dove poter attraversare i millenni stratificati della storia di questa città; e dove poter progettarne il futuro. La seconda rete che abbiamo analizzato è quella più fragile: la rete delle biblioteche pubbliche, ancora troppo poco ramificata e sotto-finanziata. Siamo convinti, invece , che le biblioteche potrebbero diventare dei centri polivalenti dedicati allo studio, alla formazione permanente, gestendo alcuni servizi di prossimità, piccoli urban center insomma, capaci di raccordare scuole e territori. Infine, la rete dell’innovazione digitale che crediamo essere la risorsa fondamentale per riprogettare un altro aspetto decisivo dell’identità di Roma: quello di capitale dell’amministrazione pubblica.

Due ultime questioni restano aperte. La prima: Roma è ancora una città attrattiva per i giovani? Il futuro delle grandi città passa infatti da questa condizione necessaria. Come abbiamo visto, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, Roma può contare su un tessuto di istituzioni, centri di ricerca e realtà innovative di assoluto rilievo. Fatta eccezione, infatti, per il sistema delle biblioteche – che esige, come già detto, una riorganizzazione radicale e un aumento consistente degli investimenti – molti dei settori chiave della cultura e della conoscenza mostrano una vitalità che poco si sposa con l’immagine di una città immobile e imbalsamata. Roma, insomma, sembra possedere le potenzialità e i mezzi necessari per tornare ad essere un polo attrattivo a livello internazionale. E tuttavia, a una tale abbondanza di risorse non corrisponde la capacità politica e amministrativa di mettere a sistema e valorizzare la rete delle strutture e dei luoghi (formali e informali) che operano nei diversi ambiti della conoscenza. Da questo punto di vista, la debolezza di Roma è una debolezza strutturale, che ne frena lo sviluppo sia in termini di attrattività, sia in termini di accessibilità.

Partiamo dal primo problema: l’attrattività. Come è ovvio, è un problema che non riguarda tanto il versante della fruizione – che spesso si divide tra il consumo turistico del patrimonio storico della città e la partecipazione a piccoli o grandi eventi di richiamo – quanto quello della produzione creativa di conoscenza. Non si tratta, in altri termini, di incrementare turisti e visitatori o di ampliare il pubblico, più o meno specialistico, dei vari settori, ma di creare le condizioni per la nascita di poli di formazione e produzione che, sfruttando anche le istituzioni già attive sul territorio, siano in grado di attirare ricercatori, artisti, curatori, professori, intellettuali e giovani creativi. In questo senso, per spostare l’attenzione dal consumo alla produzione è necessaria una gestione politica e amministrativa che si impegni a investire nella creazione di spazi adeguati di residenza e produzione. Oltre alla scarsa capacità di convogliare e mettere in relazione gli sforzi delle istituzioni e dei singoli attori, Roma soffre infatti la carenza di residenze pubbliche per studenti e per giovani professionisti della conoscenza e della cultura. A tal proposito, un caso esemplare è rappresentato dagli alloggi per la popolazione studentesca (di competenza della Regione Lazio). Ad oggi, in città sono presenti dieci edifici che ospitano le residenze universitarie pubbliche (a cui, cioè, si accede mediante bando), per un totale di 2035 posti letto. La sola popolazione studentesca romana, tuttavia, supera le duecentomila unità. Per arginare tale criticità – e, più in generale, per sopperire alla mancanza di spazi di residenza e produzione – la città ha bisogno di una politica pubblica attiva ed efficace, in grado ad esempio di sfruttare il patrimonio immobiliare dei Ministeri (in parte già del Comune di Roma dal 2014), in molti casi privo di utilizzo, rigenerandolo magari sul modello del social housing nord-europeo.

L’altra grande debolezza strutturale di Roma è quella relativa all’accessibilità, che non riguarda, evidentemente, solo la costruzione di una piattaforma comune o l’elaborazione di un sistema di percorsi integrato, ma soprattutto i limiti strutturali della mobilità. Da questo punto di vista, è necessario (e non più rimandabile) un piano di viabilità efficiente, ambizioso e il più possibile capillare, che unisca un progetto come Metrovia (orientata all’utilizzo e alla riconversione delle tratte urbane ferroviarie di superficie) alla creazione di una rete interconnessa e integrata di piste ciclabili (come la Web Endless Bikeline progettata dall’associazione salvaciclisti ) di “pontili” pedonali . Solo in questo modo, d’altronde, è possibile supportare lo sviluppo di un sistema della conoscenza consolidato e al tempo accessibile, che promuova la visione di una città policentrica e reticolare.

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