San Daniele Stilita, miniatura dal Martirologio di san Basilio.

“Anche quando davvero erano isolati dal mondo gli studiosi avevano un riconoscimento sociale che noi abbiamo perduto”

Autore

Barbara Pizzo

Il 10 ottobre nell’Aula Magna della Sapienza si è tenuto il convegno “Roma e/è le sue periferie”: una giornata di studio sulle esperienze di ricerca-azione delle università romane con i protagonisti sociali dei territori, anche a confronto con le esperienze di altri atenei italiani, rispetto al ruolo che le università svolgono e possono svolgere, oltre il concetto tradizionale di Terza missione, per uno sviluppo territoriale integrato.

 La riflessione che propongo parte dal binomio “centro-periferia”, applicandolo alla conoscenza, e alle possibilità concrete di avere voce e di influire sulle decisioni politiche che riguardano i nostri ambienti di vita.

Nel fare questo, proverò a sfatare un mito e alcuni fraintendimenti che quel mito ha generato.

 Il mito del ricercatore nella torre d’avorio

Quella del ricercatore fuori dal mondo, rinchiuso e quindi protetto dentro la sua rassicurante torre d’avorio, è stata a lungo l’immagine dominante dell’accademico, sebbene, anche nei periodi in cui la distanza tra cultura accademica e cultura diffusa era incomparabilmente più ampia di quanto non lo sia ora (dal Medioevo al Novecento), il ruolo sociale degli studiosi non fosse mai quanto adesso messo in discussione.

Il filosofo o l’amanuense chiusi (spesso letteralmente) nei monasteri godevano di un riconoscimento sociale che noi abbiamo perduto, anche se certamente il loro lavoro non aveva né implicazioni pratiche immediate né impatti misurabili – ed era tanto distante dalla vita quotidiana della maggior parte della popolazione.

Se riflettiamo su questo, potremmo accorgerci che la metafora dello studioso nella torre d’avorio si è imposta perché serve principalmente a diffondere l’immagine che fatalmente ne deriva, quella di una conoscenza accademica che ‘non serve’ (a meno che non sappia trovare legittimazione nel produrre risultati concreti, possibilmente immediati).

Da questo mito derivano una serie di fraintendimenti ai quali accennerò velocemente prima di qualche considerazione conclusiva.

a. Il fraintendimento della ‘terza missione’ – deriva dal mito precedente (terza missione come ‘uscita’ dalla torre d’avorio)

L’idea di una ‘terza missione’ del ricercatore sottintende che quello che ‘normalmente’ il ricercatore fa non abbia una relazione con la società. In buona sostanza, con questo concetto rischiamo di portare avanti (seppure inconsapevolmente) l’idea che fare ricerca (di base, ma anche applicata), e insegnare, NON siano sempre e comunque azioni ad elevato contenuto sociale, non implichino uno scambio con la società nella quale si è immersi, non producano comunque innovazione sociale, in modo diretto o indiretto.

Ma se, come abbiamo visto, quello del ricercatore nella torre d’avorio è un mito che nasconde un pregiudizio e, con quello, tende ad inserire l’università e la ricerca in un circolo vizioso nel quale la ricerca spasmodica di una collocazione “al centro” significa in realtà dispersione di energia, allora bisogna forse pensare in modo diverso al rapporto della ricerca con il suo ‘centro’ e le sue ‘periferie’.

Nella mia esperienza – nella nostra esperienza come associazione –, i ricercatori sono da tempo usciti dalla torre d’avorio (se mai ci si fossero ritirati): ma, per le strade sulle quali si muovono, molto difficilmente trovano degli interlocutori che vogliano davvero ascoltarli.

Dove trovano ascolto è piuttosto nelle periferie, tra le persone che capiscono che nella collaborazione tra università e società civile si può provare ad avere voce.

Da questo fraintendimento fondamentale, che è del rapporto tra università e società nel suo complesso, deriva quello relativo alla forma e al significato della collaborazione tra università e impresa, e tra università e pubblica amministrazione.

b. Il fraintendimento della collaborazione tra università e impresa:

Sempre più spesso ci viene ripetuto che è necessaria una relazione più stretta tra università e impresa, come chiaramente emerge ora anche dal titolo della Missione 4  Componente 2 (M4C2) del PNRR, chiamata ‘Dalla ricerca all’impresa’: ma quello che rischia di accadere, certamente almeno nel nostro paese, è che l’università nel tentativo di compiacere sempre più le richieste dell’impresa, rischi di ritrovarsi al suo servizio, con finanziamenti che arrivano se e quando si accetta questa posizione di subordinazione, in questo contraddicendo sostanzialmente non solo il principio dell’università ‘libera’, che ormai va purtroppo passando di moda, ma anche quello della ricerca scientifica come motore di innovazione. Per produrre innovazione, la ricerca deve sì guardare al mondo per come è, ma non esser costretta dentro maglie che sono inevitabilmente troppo strette, perché in questo caso il rischio è che si continui a riprodurre il già noto – e del resto è nella natura stessa dell’impresa che un primo investimento, fatto magari in una direzione molto innovativa, debba essere messo a frutto continuando a produrre lungo la filiera progettata. La disponibilità al cambiamento, dopo un investimento importante iniziale, è più difficile.

Quando l’università assume questo stesso modo di ragionare e di agire, non può che perdere la propria identità.

Al contrario, l’università per essere tale deve uscire dal mainstream, deve sperimentare approcci eterodossi e il non-già-noto, deve in sostanza coltivare “pensieri periferici”.  

c. Il fraintendimento della collaborazione tra università e pubblica amministrazione:

Anche il rapporto tra università e pubblica amministrazione è fortemente auspicato, e anche in questo caso tale rapporto sembra spesso frainteso. Da un lato, si sottintende che il contributo dell’università possa in qualche modo sopperire o controbilanciare la mancanza di aggiornamento della PA che dovrebbe invece essere garantito dalla sempre nominata ma ancora non sufficientemente attuata ‘formazione permanente’.

Dall’altro, si confondono spesso ruoli di consulenza o anche incarichi ‘conto terzi’ come un modo per legittimare corsi d’azione non necessariamente virtuosi o auspicabili: il ricorso al giudizio tecnico come legittimazione della scelta politica finisce prima per depotenziare il processo decisionale, poi per delegittimare lo stesso sapere tecnico-scientifico ritenuto ‘responsabile’ delle decisioni prese.

La conoscenza scientifica parte dunque dall’essere ritenuta inutile o irrilevante, per poi diventare oggetto di strumentalizzazione, ed essere infine del tutto disconosciuta e delegittimata, come accade sempre più spesso.

L’università (e in particolare l’università pubblica) dovrebbe contribuire maggiormente al raggiungimento dell’obiettivo essenziale della formazione permanente, prima di tutto, ad es. ampliando l’offerta formativa per il personale della PA, ed anche, e questo sarebbe altamente auspicabile, migliorando e diffondendo le scuole di formazione per la PA, non solo a livello dirigenziale, sul modello della tradizione francese, che a sua volta oggi sembra richiedere un ripensamento che risponda a esigenze nuove.

In ogni caso, qualsiasi forma di collaborazione tra università e amministrazione, incluse quelle più direttamente ‘operative’ come il conto terzi, dovrebbe portare ad un innalzamento della qualità (di entrambe le istituzioni e del contesto nel quale lavorano), e nel far questo è nostro compito quello di salvaguardare l’indipendenza dell’università anche e soprattutto quando dal rapporto con imprese e amministrazioni derivano finanziamenti.

Per un’urbanista, quale mi trovo ad essere, i concetti di centro e di periferia sono oggetto continuo di riflessioni; certamente ‘centro’ non è soltanto concetto spaziale, ma anche sociale, politico, economico: se dunque per ‘centro’ intendiamo anche ogni centro decisionale e di potere, è bene che l’università continui a frequentare ‘la periferia’, perché da lì riesce ad avere quello sguardo critico che solo un certo distacco permette di esercitare.

In un libro famoso apparso nel secondo dopoguerra lo storico dell’arte Hans Sedlmayr, con la nostalgia del conservatore, lamentava la “Perdita del centro”, e citando Majakovskij scriveva che “Tutti i centri sono in frantumi / e non esiste più un centro”, ma oggi è quanto mai tempo di avventurarsi nelle periferie, delle città come del sapere, e ho provato a mettere in fila tre ragioni essenziali per farlo:

  • per uscire dal mainstream, e sperimentare approcci eterodossi e il non-già-noto,
  • perché nelle ‘periferie’, più che non nel ‘centro’ si trovano interlocutori con cui intessere dialoghi fertili e collaborativi orientati al cambiamento;
  • per ricordarsi che la curiosità e lo spirito critico, che sono l’anima della ricerca, non si possono esercitare se si moltiplicano i vincoli che siamo disposti ad accettare per stare al ‘centro’.

 

 

 

Quartiere Val Melaina 

Fotografia aerea di Andrea Jemolo