Autore

Gabriele Rabaiotti

Io sono qui in un mondo che ormai, gira intorno a vuoto lontano dal tuo sole
E piove, ma io qualche cosa farò, per sentire ancora tutto il calore che ora non ho
E avere un po′ di pace che ora non ho, e luce nei miei occhi che ora non ho
Una direzione giusta che ora non ho, che ora non ho
(Neffa, Lontano dal tuo sole)

Intorno alla casa e al lavoro

La casa e il lavoro sono le due questioni sociali oggi più rilevanti per un Paese che sta collassando mentre resta seduto su un modello di welfare esclusivamente assistenziale e da tempo non più sostenibile. Riscatto sociale e riduzione delle diseguaglianze sembrano possibili solo a condizione che si cambi la natura dell’intervento pubblico (e l’orientamento della spesa) riferita a questi due capitoli leggendoli come parti della stessa storia.

Siamo di fronte a due campi di azione che, nel tempo, hanno perso l’ancoraggio e l’appoggio delle politiche centrali (cui faceva sponda l’istituzione locale) e le cui conseguenze, in termini di aumento della fragilità e delle situazioni di disagio, sono sempre più drammaticamente leggibili nelle nostre città restando sulle spalle degli amministrazioni locali.

Per non perdere il carattere pubblico (almeno dentro a queste policies così ‘socialmente sensibili’ e rilevanti) e contenere lo scivolamento in atto verso modelli più decisamente privati (per quanto ‘socialmente orientati’) abbiamo bisogno di ripensare a un diverso modello di azione che sia sostenuto nuovamente dello Stato e/o dalle Regioni e quindi supportato dall’intervento delle amministrazioni locali e che ci permetta di interrompere l’automatismo che porta tutti coloro che esprimono un bisogno lavorativo/occupazionale e/o abitativo a entrare dentro al sistema passivo di assistenza pubblica. La casa, senza lavoro, diventa nei fatti intervento assistenziale. Nelle risposte che le istituzioni pubbliche forniscono in modo indistinto e generalista da decenni è evidente quanta ‘dipendenza’ si sia generata nelle nostre comunità urbane, precisando a scanso di equivoci che in diverse situazioni l’intervento non può che essere di ‘presa in carico’; in molti casi il modello di welfare che ben conosciamo è il modello giusto e necessario, ma è pericoloso affidarsi solo a questo modello per rispondere a tutti quelli che, ad esempio, hanno un reddito ISEE inferiore a 3mila euro e chiedono un aiuto.

Reddito di cittadinanza, contribuiti (vari) di solidarietà e sussidi, casa popolare (quando si riesce ad assegnarla) accompagnano e sostengono in modo permanente le persone che si trovano in situazioni di estrema difficoltà e che non hanno modo di attivare percorsi di risalita. Per questo sembrano fatti.

Ma quelle stesse misure (le uniche disponibili) riducono le motivazioni, le possibilità e le potenzialità di coloro che, pur partendo da 3mila euro di reddito ISEE, possono – se opportunamente affiancati –intraprendere percorsi di autonomia e riscatto. I rischi di usi distorti (se non perversi) sono tanto più alti quanto più sono ridotti gli strumenti di intervento a disposizione del sistema pubblico e quanto più è complessa e articolata la società in cui operiamo. In sostanza ci troviamo a utilizzare gli stessi attrezzi per affrontare situazioni considerate simili (dal modello) ma differenti per le ragioni che le hanno prodotte da un lato e per le diverse potenzialità (personali, relazionali, di contesto) che possono esprimere. Dentro a un processo di forte semplificazione (il ‘trattamento amministrativo dei bisogni’) portiamo tutti all’interno di uno stesso processo di assistenza permanente.

 

Provando a ripensare al welfare nelle città

Dal 2019 al 2021 mi sono trovato a fare l’assessore alle Politiche Sociali e alla Casa nel Comune di Milano. Nei primi mesi drammatici della pandemia, in un contesto emergenziale che ha aperto il fronte della domanda portando alla luce situazioni invisibili che non riuscivano a (o non volevano) trovare occasioni di contatto con il Comune e situazioni che mai prima di allora avrebbero immaginato di doversi rivolgere all’Amministrazione, l’utilità della risposta pubblica ma anche le sue distorsioni sono emerse con più forza.

Senza un significativo apporto di risorse (ulteriori rispetto a quelle pubbliche impiegate tutti gli anni dal Comune) non saremmo stati in grado di rispondere a nessuno se non a quelli cui da tempo già rispondiamo. Il sistema di welfare pubblico si trova in uno stato di ‘blocco da saturazione’ e può solo generare liste di attesa correndo il rischio, data la sua rigidità e la sua necessità (non siamo nelle condizioni di interrompere le misure garantite ai beneficiari storici che le vivono come un diritto), di essere ingiusto e iniquo dal momento che nessuno ci può dire che la persona già inserita nel sistema di protezione del welfare sia in una condizione di maggior bisogno di chi, per la prima volta, richiede un intervento.

Ci hanno aiutato molto le risorse attivate dalle associazioni locali, dai volontari, dalle organizzazioni filantropiche e dalle Fondazioni, dai privati (particolarmente sensibili in quella fase) ma può dipendere da questo apporto straordinario e volontario la sostenibilità del welfare locale pubblico?

A Milano in media una famiglia abita in una casa popolare (nella stessa casa popolare) per 42 anni; con una domanda reale di casa che balla tra le 12 e le 15mila famiglie riusciamo ad assegnare un migliaio di appartamenti popolari all’anno. Il sistema nel suo complesso ha una mobilità inferiore al 2%. Chi cercava un lavoro, anni fa, è oggi assistito da contributi che vengono faticosamente garantiti sempre che resti senza lavoro; chi cercava una casa, anni fa, abita oggi in un alloggio popolare sempre che non abbia cercato e non abbia trovato casa altrove; chi chiedeva un aiuto economico, anni fa, beneficia oggi di sostegni e aiuti sociali (sostitutivi rispetto al reddito da lavoro) e continua ad ottenerli sempre che stia attento a non modificare (in meglio) la sua condizione socio-economica.

 

Lavori di casa (e intorno alla casa)

Nel nostro Paese resta aperta e urgente la domanda su come impostare diversamente le politiche del lavoro – il nodo decisivo non risolto – e su quale ruolo possono e devono giocare le città per attuare un modello che, oltre alle misure più assistenziali, sia in grado di allargare e diversificare il campo di azione attivando leve e incentivi per le imprese più coraggiose, che hanno voglia di aprire le porte e di scommettere anche sulla domanda più fragile e a rischio di esclusione. Torno però sulla casa e sulla sua (possibile) combinazione con l’intervento sociale, inteso in senso lato. Le ‘deleghe combinate’ che hanno segnato gli ultimi due anni di consigliatura a Milano mi hanno in qualche modo aiutato (forse costretto?) a tenere vicini i due fronti di azione, a tentare quella che a mio parere è risultata una interessante sovrapposizione.

La pandemia ha ribaltato la geografia della città, spegnendo il centro solitamente scintillante e riempiendo, anche di giorno, i quartieri dormitorio più popolati (oltre che più popolari) togliendoli così dall’ombra e mostrandone la loro potenza, il loro ‘peso’ e il loro possibile protagonismo (per chi conosce Milano, si consideri che all’interno delle ‘mura spagnole’ – e quindi nel centro storico vero e proprio, quello della cosiddetta area C – abitano 90mila persone; se consideriamo, in aggiunta, l’anello che arriva fino alla circonvallazione della filovia 90/91 raggiungiamo le 400mila e, quindi, nei quartieri che si sviluppano oltre quel confine, nella Milano costruita a partire dagli anni Cinquanta, risiede il restante milione dove decisamente più alta è la quota di edilizia residenziale pubblica). In questo contesto ho provato a combinare e comporre campi di intervento propri delle politiche abitative (la manutenzione delle case, le relazioni con i comitati inquilini e le autogestioni, gli interventi di ristrutturazione straordinaria e la gestione dei cantieri, il recupero degli alloggi sfitti, la liberazione di quelli occupati abusivamente e insieme la tutela delle famiglie occupanti in stato di necessità) con quello delle politiche sociali, prestando attenzione in particolare alle misure rivolte alle persone e alle famiglie in situazioni di fragilità come l’assistenza domiciliare, la custodia sociale, i contributi di solidarietà e i sussidi per il contrasto alla povertà economica. L’operazione (forzata) di sovrapposizione fra il mondo sociale e quello abitativo, da sempre seguiti da due direzioni differenti e quindi, nei fatti, tra loro indipendenti e separati, ha avuto alcuni effetti interessanti. Provo ad elencarli per punti.

  1. Abbiamo, come amministrazione, ‘contestualizzato’ l’azione sociale; abbiamo capito dove abitano i beneficiari delle misure sociali, chi sono i loro vicini, in quali quartieri vivono. Abbiamo visto come sono fatti i loro quartieri. Abbiamo cominciato a localizzare le politiche sociali, che di solito nella città sono indifferenti al territorio, geograficamente indistinte. Abbiamo constatato che, a differenza di quanto è accaduto nella prima metà del Novecento, per molte famiglie il bisogno non si risolve con l’ottenimento di un appartamento pubblico in affitto, a canone basso o bassissimo. La città è cresciuta in complessità, si è differenziata; ha premiato a dismisura alcune sue parti dimenticandone altre, rimaste al margine. Le periferie popolari sono gli spazi deboli della città che, mentre ospitano le persone e le famiglie in condizioni di maggior bisogno (così per volere del legislatore e quindi per loro mandato) sono anche i luoghi in cui c’è meno, dove risultano ridotte le opportunità e le occasioni che altrove invece esistono e, anzi, sono numerose. Per molti un alloggio non basta e faticano a trovare gli interlocutori a cui chiedere ‘altro’ dal momento che sono abituati a interagire solo con l’assessorato alla Casa; in sostanza parlano dei loro problemi (non abitativi) con chi ha la possibilità di rispondere all’unico problema (quello abitativo) che non hanno. Questo è risultato evidente, ad esempio, nelle discussioni e nel confronto con i sindacati degli inquilini.
    Una volta assegnata la casa (oramai tanti anni fa) in quei quartieri non ci siamo andati più, se non in campagna elettorale. Il ritorno del pubblico nei quartieri, il ritorno reale, effettivo, materiale, l’entrare negli alloggi, l’attraversare i cortili, il sostare nei negozi che occupano i piani terra delle case, l’incontrare il dirigente delle scuole del quartiere ha riportato al centro della mappa amministrativa la città ‘piena’, quella abitata dalle famiglie che vivono nelle nostre case, con le loro storie (più o meno annodate, più o meno ‘oggettive’, più o meno comprensibili e intellegibili).
    Ho chiesto alle politiche sociali, geograficamente indifferenziate, di ‘prendere casa’ in quei quartieri, di abitare la città delle ‘famiglie in carico’, di misurarsi con i loro contesti, fatti di contraddizioni ma carichi anche di potenzialità. Se non lì, dove dobbiamo andare?
  1. Con il passare dei decenni, la politica pubblica della casa ha perso contenuto sociale; è diventata prima ‘politica edilizia’ (prevalentemente impegnata nella costruzione dei nuovi quartieri popolari nella ricostruzione postbellica) e poi, ora, politica di ‘manutenzione edilizia’ concentrata sulla cura (quando riesce) del patrimonio esistente. Alle politiche sociali mancavano le case, alle politiche della casa mancava la società; abbiamo provato ad avvicinarle, a farle parlare, a farle lavorare insieme cercando di unire le forze. Assistenti domiciliari, assistenti sociali territoriali, custodi sociali, animatori dei laboratori di quartiere, operatori delle sedi territoriali di gestione della casa hanno cominciato a sentirsi, a incontrarsi, a scambiare informazioni, a sovrapporre i network locali all’interno dei quali ciascuno si trovava inserito. Le risorse conoscitive, relazionali, tecnico-strumentali, hanno cominciato a essere scambiate definendo un ‘campo di azione locale’ più articolato, più spesso e più carico di possibilità di risposta. Per questo più promettente e interessante. Quel campo deve essere considerato lo spazio di lavoro in cui disegnare la città di domani.
  2. Costretti dal Covid nello spazio ‘ridotto’ delle loro case (ridotte non per dimensioni ma per riduzione delle opportunità che quelle case offrono) e dei loro cortili, per gli abitanti delle case pubbliche sono diventati più chiari gli effetti dell’isolamento e della segregazione territoriale che ha segnato la storia più recente di alcuni quartieri popolari di Milano: San Siro, Gratosoglio, Zara-Testi, Corvetto, Ponte Lambro, Molise-Calvairate, Giambellino-Lorenteggio. Anche chi abitava in questi quartieri non poteva fare conto sugli scambi, pur ridotti, con il resto della città e della metropoli (penso ad esempio alle grandi piastre commerciali cresciute nei Comuni di prima cintura e spesso meta delle fughe delle famiglie e delle ragazze e dei ragazzi che vivono sul bordo metropolitano o al venire meno delle poche linee di collegamento garantite dal trasporto pubblico locale). La stessa scuola, compressa dalla DAD, riduceva per i piccoli e per le loro famiglie, quell’apporto faticoso attribuito al quadro delle loro interazioni sociali quotidiane. A ‘porte chiuse’ i quartieri popolari li abbiamo visti per come sono: separati da quello che gli sta intorno, poco innervati e a limitata accessibilità, poco interessanti per chi non vi risiede, isolati rispetto al sistema delle opportunità urbane. Aiutati dalle Brigate Volontarie per l’Emergenza, da ARCI, da Emergency siamo partiti da questi quartieri. Abbiamo bussato a ogni porta per consegnare le mascherine in tutte le case, attivato la consegna del pacco alimentare per le situazioni di più forte bisogno, costituito punti di approvvigionamento del fresco, preparato e consegnato i pasti per le persone più anziane, attivato punto di informazione sulla salute, telefonato periodicamente alle persone sole per ascoltarle e sostenerle; con gli animatori del CSI siamo andati, durante l’estate, nei cortili per far giocare i più piccoli, sostenuto (economicamente) il lavoro prezioso degli abitanti impegnati nelle Autogestioni e nei Comitati Inquilini , finanziato gli hub alimentari per la distribuzione del cibo alle famiglie in ogni municipio, seguito, con i ristoratori disponibili, le ‘cucine di quartiere’ per aumentare i pasti consegnati a domicilio agli anziani, facilitato e sostenuto la realizzazione di un progetto di trasporto solidale (gratuito) finanziato da una fondazione filantropica e dai radiotaxi della città, … Altro si doveva e si poteva fare ma un processo diverso è stato attivato.

Per tentare di recuperare la distanza che separa questi quartieri dal resto della città è necessario un intervento straordinario che possa fare i conti non tanto su risorse economiche straordinarie ma che metta insieme e combini campi di azione diversi e solitamente non connessi integrandoli in forme variabili a seconda della specifica situazione locale. Non sempre lo sport è di difficile accesso ma qualche volta sì; non sempre mancano occasioni comunitarie di incontro, non sempre è necessario organizzare sostegno scolastico, non è detto che serva più animazione sociale o culturale ma nella cassetta degli attrezzi dobbiamo avere tutti questi strumenti combinandoli a seconda del posto in cui ‘decidiamo di abitare’; per inserire o potenziare quello che manca o è presente in forma insufficiente. Questo può accadere se i quartieri popolari prendono forma, posto e peso nell’agenda pubblica locale, e non solo. Se riteniamo che il futuro delle nostre città passa già da lì.

L’idea che abbiamo provato a disegnare a livello locale e urbano (e che andrebbe ora attuata) è quella di trattare differentemente i quartieri della città, di definire una strategia di selezione utilizzando risorse e strumenti ordinari e già presenti orientandoli su territori particolari, su ‘aree bersaglio’ e non impiegandoli in modo indistinto sull’intera città. Ad esempio la mitica legge 285, che da anni finanzia interventi sui minori, o i contributi alle associazioni culturali o sportive erogati a pioggia alla fine di ogni anno, le attività promosse dalle biblioteche comunali nei diversi municipi, potrebbero muovere risorse vincolandone l’impiego (in toto o in parte) in determinati quartieri o modulandole a seconda della specifica situazione del contesto. Una sorta di ‘dotazione territoriale’ che, condivisa con le municipalità, sia esito della composizione di misure di finanziamento e di progettazione di interventi provenienti da differenti assessorati e direzioni. Era ed è lo spirito della legge 266/97 che chiedeva ai Comuni di precisare le zone critiche e i quartieri bersaglio in cui sostenere lo sviluppo di nuove attività economiche e di impresa. Diverse devono essere le misure che convergono sui medesimi territori altrimenti, nella solitudine delle politiche di settore, è troppo forte il rischio di fallimento quando queste si misurano con le aree più complesse della città.

 

Una direzione giusta

Un’azione congiunta tra differenti assessorati/direzioni, tra Comune e Municipalità, ancorata a una precisa intenzionalità che precipita in una ‘mappa-guida’ condivisa sulle necessità di intervento pubblico nella città aiuterebbe, anche in assenza di programmi speciali e straordinari, a orientare le politiche ordinarie verso la città debole e preparerebbe il terreno per eventuali partecipazioni a bandi di (ulteriore) finanziamento. Concentrare l’attenzione dell’amministrazione locale facilita anche l’attivazione di altre attenzioni; muovere i quartieri, sbilanciarli, rompere i loro equilibri instabili (e a volte malsani) introducendo nuovi servizi, dando vita a nuove attività, spiazzando le loro consuetudini, aumentando le occasioni, i percorsi da intraprendere e le vie di uscita; invitare nuovi ‘attori’ a partecipare; tenere gli abitanti vicini per trovare il passo e il ritmo giusto, limitando i rischi di rigetto locale ma contemporaneamente spingendo nella direzione, sempre faticosa, del cambiamento e della trasformazione della condizione presente; tenere gli abitanti vicini per cercare con insistenza la loro attivazione, la loro mobilitazione e il superamento di quella predilezione per le forme di assistenza pubblica che, alla lunga, producono nelle persone, nelle famiglie e nelle comunità locali dipendenza e pigrizia.

Se riteniamo che una direzione giusta per l’intervento pubblico sia quella di assumere anche un ruolo ‘abilitante’ e di promozione per la popolazione che bussa alla nostra porta evitando di ritrovarci nella strettoia che ci costringe a reiterare i percorsi di sola assistenza, di dipendenza e a lungo andare di distorsione del rapporto tra azione pubblica e azione sociale, dobbiamo (e non basterà) riavvicinarci ai quartieri popolari, tornare ad abitarli convinti che il compito pubblico, sia quello di essere (più) forti dove la città è (più) debole. Credo che, almeno nelle città, che rappresentano i luoghi nei quali è più evidente l’esaurimento del modello di welfare che abbiamo ereditato, questa direzione vada sperimentata con decisione e discussa, valutata. Il percorso di uscita dalla pandemia rappresenta una ‘condizione per il cambiamento’ difficilmente ripetibile nel breve-medio periodo. La voglia e il bisogno di nuovo appaiono in questa fase più presenti e quindi interventi di rottura e di discontinuità sembrano oggi politicamente più praticabili. È il momento di provare.

 

Il punto è semplice: il senso della possibilità presuppone la libertà per le persone
di esplorare, immaginare, delineare i tratti di mondi sociali possibili più degni di lode del mondo attuale.
Oggi questa libertà fondamentale è minacciata, negata e coartata
da una famiglia di poteri che evoca lo spettro dell’ancien régime,
vestito con i panni della falsa necessità

(S. Veca, Il senso della possibilità. Sei lezioni, 2018)

Due immagini dell’iniziativa ‘Estate popolare’,  comune di Milano/CSI, anno 2020 (prima edizione)