La razza zingara. Dai campi nomadi ai villaggi attrezzati: lo “scarto umano” in venticinque anni di storia.

Carlo Stasolla, Fondazione Migrantes, Tau editrice, 2021, 147 pagine

Questa è la storia di un delitto. Un delitto terribile, che strappa alle vittime dignità e diritti. Un delitto commesso da persone con le idee più diverse ma concordi nelle azioni. La storia la racconta Carlo Stasolla nel recente “La razza zingara. Dai campi nomadi ai villaggi attrezzati: lo “scarto umano” in venticinque anni di storia” (Fondazione Migrantes, Tau editore, 147 pg. 15 euro).

Il delitto, che ha avuto una lunghissima recidiva e molti complici, è quello di aver creato una categoria – comunque li si chiamino: zingari, nomadi, rom – per infilarci dentro un’umanità variegata accomunandola nei ghetti e nello stigma. E nessuno che chieda loro come vogliano invece essere chiamati.

Carlo Stasolla lo sa: ha deciso di vivere una parte della sua vita lì, nei campi. Una vita impossibile, senza alcuna sicurezza, da uno sgombero a un altro. Che il sindaco si chiamasse Rutelli o Veltroni, Alemanno o Marino o Raggi, per gli sgomberati non è cambiato molto. L’idea era la stessa, segregare. Così si sono costruiti dei ghetti per separare anche spazialmente la vita quotidiana dei cittadini romani da quella di chi magari è italiano, nato a Roma, e ci vive, e ci ha fatto i figli. O per chi è profugo dalla ex Jugoslavia. O addirittura apolide, senza passaporto né documenti. Persone.

 © Ella Baffoni

Questo libro ci prende per mano, e ci mostra, passo dopo passo, ordinanza dopo ordinanza, sindaco dopo sindaco, le conseguenze sulle persone delle decisioni politiche. Alle volte usate per fare campagna elettorale o per accarezzare la pancia razzista dei romani, ma alle volte prese in perfetta buona fede, pensando di fare la scelta giusta, fidandosi magari delle persone sbagliate. Cosa vuol dire “villaggio della solidarietà”? Qual è, per chi vive nei campi, il valore della parola “provvisorio”, riferita alla loro collocazione? ci sono campi provvisori durati decenni. Sta di fatto che è facile commuoversi per un bambino che muore nel rogo di una roulotte, molto più difficile vedere nella madre che piange e nei fratelli attoniti quel che sono davvero, baraccati.

Sì, ci sono le baracche, a Roma. Non sono bastati i Giubilei a mostrarle, a farne pietra di scandalo. Ci sono i senza casa, ci sono gli occupanti di casa, ci sono le baracche, e i campi nomadi. Ma finché ci vivono gli “scarti umani” (che siano i profughi della ex Jugoslavia, i braccianti africani, i malati mentali) a molti non sembra un problema.

Il campo ghettizza, rende diversi. Chi assumerebbe una domestica che vive nei campi, ufficiali o informali che siano? Il campo rende infantili gli uomini, costretti a una complicata burocrazia e a mostrare il tesserino per entrare in casa propria. Preda di qualsiasi sgombero le cui ragioni sono ignote a loro e alla maggioranza delle famiglie cacciate, che le lascia in strada senza altra alternativa che l’istituzionalizzazione, e ancora, e ancora. Vittime e ostaggi di malaffare e corruzione, come dimostra la recente vicenda giudiziaria “Terra di mezzo” e le sue illuminanti intercettazioni.

Dopo uno sgombero |© Ella Baffoni

Di stigma in stigma, a volte sbandierato senza pudore, chi abita baracche, campi e roulotte diventa un paria. Non una persona in difficoltà o povera: un paria, l’ultima delle caste.

“Segnati come siamo dal marchio dell’antigitanismo – scrive Stasolla – che parte dall’assunto che quando si parla di rom si intenda comunque una razza altra, pensare di dare un giorno una qualche discontinuità alle politiche descritte in queste pagine sarà un’impresa titanica per chiunque. Perché 25 anni di pregiudizi nei confronti di soggetti dalla cultura irriducibilmente diversa sono stati “certificati” in ambito accademico ed ecclesiale, negli statuti di associazioni, tra gli storici e gli amministratori, trasformandosi così in verità certe e insindacabili che hanno bloccato sul nascere ogni vera azione efficace di cambiamento. E poi perché il “campo rom” rappresenta non solo un’area di concentramento monoetnico ma anche e soprattutto un’ideologia. Superare definitivamente un insediamento non vuol dire solo svuotarlo dalle persone buttando giù i container, ma modificare il pensiero collettivo che è alla base di quel dispositivo”.

Il titolo del libro, “La razza zingara” è, lo si capisce man mano, una provocazione: non esiste nessuna razza zingara, o nomade, o rom. I nomadi non “nomadano”, come invece asserì una leader della destra cattivista con gli occhi sbarrati. “Se vogliamo parlare di chi oggi abita nei campi – conclude Stasolla – dovremmo definirli persone che hanno avuto un giorno il coraggio di lasciare una casa, un quartiere, una città per cercare riparo altrove, e che oggi rivendicano un dialogo sociale paritario, e che oggi dichiarano genuinamente, al di là di quanto riportato sul passaporto, di sentirsi “a casa” nei quartieri che anche noi abitiamo”. Cittadini romani tra noi cittadini romani.