di Alessandra Valentinelli

“Nell’Agro non c’era niente ma alla fine, in fondo trovavi il mare”, Alice Urciolo così introduce il suo ultimo romanzo Adorazione, giocato sugli alterni sentimenti dell’amicizia e della gelosia: un tema classico col quale anche Roberto Venturini, Nicola Lagioia, Tommaso Giagni o Giulia Caminito si sono di recente misurati, sviluppando intrecci che colpiscono piuttosto per l’ambientazione che li accomuna, che non per i toni diversi o gli esiti affatto scontati delle rispettive trame. Collocati in uno spazio narrativo raramente individuato, a tratti accennato e più spesso inventato, tutti i protagonisti di questa anomala ‘cinquina’ si muovono infatti in un’incerta periferia romana, scenario dell’anima prima che contesto urbano: un territorio elettivo delle moltitudini contemporanee, per le quali la città resta una realtà lontana, per lo più sconosciuta, poco e male frequentata; un rovescio ambìto delle proprie vite, un luogo mitico del passato e della nostalgia.

Per comprenderne i caratteri e restituirne il senso nel panorama dell’abitare metropolitano, serve una lettura trasversale dei loro racconti. È Giulia Caminito a spiegare attraverso Gaia, la voce narrante di cui solo all’ultimo, e un’unica volta, ci rivela il nome: “per dire periferia, ci vuole un centro. Io non ho mai visitato il centro. A scuola le gite non le facciamo e con mia madre esco solo per andare al mercato rionale”. L’infanzia di Gaia sono le quattro mura del cortile romano sinché la madre, Antonia “la Rossa” non ottiene una casa dell’Ater a Corso Trieste che scambierà per un trilocale ad Anguillara Sabazia. È qui che Gaia intesse infine la sua rete di amicizie, non senza fatica: tra vecchi e nuovi residenti, “l’impasto crea dissapori, inquietudini, apprensioni”. Per Gaia inizia un’esistenza scissa, da pendolare nelle scuole di Roma dove affronta anche episodi di bullismo perché, nelle periferie della Cassia, resta “una che viene da fuori”. La svolta è l’arrivo delle giostre sul lungolago di Anguillara: per Antonia è “il segno della scelta giusta”, per Gaia l’occasione di svaghi con cui consolidare legami. “La gente di paese ti considera rispetto al tuo grado di estraneità”: “solo attraverso le ore di noia e le lunghe giornate al lago sono riuscita a fare questo luogo un po’ mio, a non sentirmi più appena arrivata, in ritardo sui miti fondativi, le leggende e le geologie”; alla fine, quando per evitare lo sfratto, dovranno rientrare a Corso Trieste, non sarà nell’unità della famiglia, ma nel ricordo di Anguillara, che Gaia tornerà a rifugiarsi col pensiero, cercando le energie per ricominciare.

Questo processo di territorializzazione che identifica il proprio ‘centro’ là dove si riconoscono, agiscono e coltivano i propri spazi relazionali, si ritrova nel ‘Quartiere’ di Giagni, un luogo molto simile, anche negli equilibri sociali, alla ‘Citè’ de La Haine di Cassovitz, l’antesignano del genere banlieusard.
Anche qui lo spazio è chiaramente perimetrato per zone di influenza, ciascuna recante un appellativo distintivo, come la ‘Spina’ o la ‘Grotta’, che ne esprime la mappatura mentale, oltre che la stratificazione sociale. In questa geografia, i tre amici, Abdou, Manuel e Flaviano sono la ‘seconda generazione’: non arrivano prigionieri delle proprie differenze da un ‘altrove’, al contrario maturano nel ‘Quartiere’, le proprie specifiche radici comuni e meticce. Diversamente dagli altri romanzi della ‘cinquina’ nei quali il sentimento di amicizia è spesso offuscato da piccole invidie, spietate gelosie e sostanzialmente dalla noia, il loro legame è profondo e solido, disposto a grandi slanci, a gratuite mutualità come alla sfrenata allegria. Anche loro, risiedendo in un punto imprecisato lungo l’Aniene, vivono lontano dal ‘centro’; solo Abdou, praticando di nascosto e in solitaria le sue perlustrazioni urbane, ne conosce l’impianto di massima e sarà una nottata nelle strade di Roma a svelarne loro il fascino senza tempo. Per Giagni tuttavia, come del resto per Venturini, questi legami per quanto saldi non bastano a invertirne i destini di marginalità.

Per sottrarsi alla condizione esistenziale che Venturini ritrae in una Torvaianica intristita dalle brume invernali, tra brandelli di un fasto un po’ ‘cafone’ delle estati anni ’80 e tessuti tarmati da “buchi che offendevano la bellezza di ciò che era stato”, per sconfiggere la nostalgia, l’amarezza o la depressione – sembrano ammonirci tutti e cinque gli autori – , l’amicizia non basta. Non solo perché senza il contrappeso di valori sociali, vi si possono annidare ricatti personali dai risvolti drammatici come narrano Urciolo e Lagioia, ma per l’assenza di una dimensione collettiva nella quale il confronto con l’alterità possa far crescere saperi critici e pratiche civili, alimentando comunità solidali anziché il rancore.

Oggi di fronte a tanta solitudine, non può non tornare in mente quel “avvicinare le periferie” che ha segnato una delle stagioni più fervide della Capitale sul piano urbano e culturale: quando le istituzioni, ponendosi all’ascolto dei quartieri, ne stimolarono le energie per un progetto di trasformazione che restituisse alla città intera, spazi pubblici di vita e relazione. Molte eredità di quegli anni sono ancora operanti nella memoria e nella cittadinanza attiva; frammentarie e disperse, meriterebbero la determinazione di allora per riconnettere i margini di un territorio capace di affrontare le sfide future, forte del proprio passato ma libero da ogni residua nostalgia.

L’anomala cinquina è riferita alle ultime pubblicazioni di:

Giulia Caminito, L’acqua del Lago non è mai dolce, Bompiani 2020
Tommaso Giagni, I Tuoni, Ponte alle Grazie 2021
Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi 2021
Alice Urciolo, Adorazione, 66thand2nd 2020