Autore

Mariella Guercio, Sonja Moceri

“… e poi non rimase nessuno” è l’incipit di una brillante e disperata iniziativa promossa dall’Associazione nazionale archivistica italiana nel 2011 – in collaborazione con la Società Italiana degli Storici Medievisti (SISMED), la Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna (SISEM) e la Società italiana per lo Studio della Storia contemporanea (SISSCO) – che aveva l’ambizione di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, della politica e delle istituzioni sulla drammatica situazione degli archivi e degli archivisti italiani, dovuta a una carenza gravissima di risorse, di personale, di spazi. Da allora passarono più di cinque anni solo per bandire un concorso per i tecnici dell’allora Ministero dei beni culturali che includesse, tra gli altri, anche gli archivisti di Stato, mentre è stato pubblicato solo in questi giorni, dopo 13 anni dal precedente, quello per i dirigenti tecnici, ormai ridotti al lumicino rispetto all’organico previsto. L’evento del 2011 raccolse il sostegno di migliaia di cittadini e di centinaia di istituzioni, ma ebbe conseguenze assai limitate, del tutto inadeguate a pianificare e a sostenere gli sforzi che sarebbero stati necessari per affrontare con energia e mezzi necessari la difficilissima situazione del patrimonio archivistico italiano.
Dal 2011 gli appelli non sono certo mancati, anche perché finora le poche soluzioni proposte si sono limitate a qualche palliativo per fronteggiare i casi più gravi. Anzi, non passa mese ormai senza che qualche emergenza costringa giornali e televisioni (generalmente refrattari a occuparsi di archivi) a sollevare il problema della minacciata o effettiva (l’Archivio di Stato di Genova ha dovuto sospendere il servizio il 17 novembre 2021) chiusura di istituti archivistici e dei servizi di consultazione al pubblico della documentazione sedimentata nei depositi d’archivio e nelle sedi succursali.
Tuttavia, il quadro – già grave un decennio fa – è ben più impegnativo e drammatico di quanto evidenziato nelle richieste di intervento delle diverse associazioni e riportato dalla stampa, dato che non si tratta più solo di trovare spazi, risorse e personale tecnico agli archivi di Stato e alle strutture di tutela del settore, ma riguarda un comparto molto più ampio che coinvolge tutta la pubblica amministrazione e, anche, il settore privato (delle imprese, delle istituzioni culturali, delle associazioni) perché la memoria documentaria è cambiata nelle forme e nei processi di produzione e accumulazione ed è cresciuta enormemente in quantità e in disordine diffuso in tutti i campi. Per affrontare le vecchie e le nuove emergenze (in parte condivise anche nel resto d’Europa), gli appelli sono utili, ma non bastano più. Servono nuovi modelli di conservazione fisica e di tutela giuridica, come sanno bene i professionisti del settore che condividono da tempo la consapevolezza che la trasformazione digitale avviata da almeno vent’anni non ha ancora ottenuto il riconoscimento istituzionale necessario a trovare soluzioni efficaci e sostenibili per la conservazione delle nuove fonti.
In sede locale, ovviamente, i problemi irrisolti e l’assenza di personale competente e sufficiente rischiano di travolgere, quando non l’hanno già fatto, le modeste strutture disponibili sul territorio, anche quando in gioco ci sono parti fondamentali della nostra memoria storica. È quanto vediamo accadere da anni anche a Roma, a fronte di un patrimonio documentario di dimensioni e proporzioni di incredibile rilievo e di un ruolo storico che dovrebbe collocare la capitale “all’avanguardia della trasformazione che rende la conoscenza accessibile in tempo reale a miliardi di persone” (W. Tocci, Roma come se. Alla ricerca del futuro per la capitale, p. 152).
Gli archivi romani, infatti, non sono esclusivamente quelli – di enorme valore – del Comune e delle sue aziende municipalizzate (Atac esclusa dato che tutto il suo grande archivio storico e di deposito – ad eccezione di quello fotografico – è andato completamente distrutto in un incendio del 2011 le cui cause non sono state mai chiarite). Nella capitale trovano sede propria – non solo i Ministeri e gli organi costituzionali – ma anche tutti gli archivi dei grandi enti pubblici, economici e non economici, dall’Inps all’Istituto nazionale delle assicurazioni, all’Agenzia nazionale turismo Enit, all’Accademia dei Lincei, all’Enciclopedia Treccani, all’Istat, alle Agenzie fiscali, alle Autorità amministrative indipendenti, alle Federazioni nazionali degli Ordini professionali, oltre ai grandi ospedali, alle centinaia di istituzioni di assistenza, alla Città metropolitana e alla Regione. La capitale ospita, da secoli, gli archivi privati dichiarati beni culturali di proprietà delle accademie (anche internazionali), delle fondazioni, di moltissime associazioni (tra cui per esempio quelle che raccolgono i patrimoni documentari dei movimenti femministi), di istituti culturali, delle strutture centrali delle organizzazioni sindacali e dei partiti politici, di molti giornali nazionali, della RAI, dell’ENI e di un numero notevole (oltre un migliaio) di importanti personalità della cultura, dell’amministrazione e della politica. Impossibile e inutile stilare un elenco, che peraltro esiste aggiornato e dettagliato presso la Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio, la struttura di tutela più importante del Paese insieme all’Archivio centrale dello Stato, alla quale si dovrebbe riconoscere uno statuto speciale (anche immaginando una Soprintendenza speciale archivistica e bibliografica di Roma distinta dalla Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio) e personale e mezzi sufficienti ad affrontare il peso di un’azione di salvaguardia e supporto molto impegnativi sia per la quantità dei procedimenti amministrativi instaurati, sia per la vastità degli interlocutori e la complessità delle loro fonti.
Anche l’elenco delle criticità attuali è lungo, ma non è inutile provare a sintetizzarne gli elementi principali allo scopo di individuare, accanto e oltre i limiti del presente, le linee di una futura azione, coraggiosa e adeguata ai bisogni:

  • gli archivi del Comune di Roma – Roma Capitale sono sconfinati, in continua espansione, fuori controllo, caratterizzati da collegamenti non sempre facili da individuare e gestire ma non avari di sorprese; occupano tutti gli spazi che trovano liberi, saturandoli all’istante; avrebbero bisogno di una folta squadra di archivisti professionisti, assunti stabilmente e adeguatamente formati in tutte le aree di competenza professionale, comprese quelle che riguardano la gestione documentale e la formazione e conservazione di archivi digitali;
  • l’Archivio storico capitolino non accoglie più versamenti dagli uffici comunali dagli anni Trenta del secolo scorso per mancanza di spazio: una situazione gravissima per qualunque ente, inimmaginabile per la capitale dello Stato, da colmare con urgenza sia con interventi tampone sia con una seria pianificazione dei depositi, necessariamente in cooperazione con le tante altre istituzioni in sofferenza che operano a Roma;
  • l’Archivio di Stato di Roma e l’Archivio centrale dello Stato sono afflitti dallo stesso problema (carenze di strutture e di persone, depositi decentrati e difficilmente raggiungibili) tanto che da tempo ormai sono impossibilitati ad accogliere nuovi versamenti e donazioni. Per l’Archivio di Stato di Roma è in corso di realizzazione un ambizioso progetto di riqualificazione degli ex magazzini dell’Aeronautica militare da adibire a sede succursale in luogo della sede di Galla Placidia, decentrata e del tutto inadeguata (16 milioni di euro: https://programmazionestrategica.beniculturali.it/progetto/roma-archivio-di-stato-3/).
  • gli archivi degli enti pubblici – pur nella varietà di configurazione giuridica e di dimensione – condividono in larga parte le medesime insufficienze tra cui l’inadeguatezza del personale e delle infrastrutture, da cui derivano interventi di smaterializzazione scorretti, governo inadeguato e quindi proliferazione e frammentazione della sedimentazione documentaria, mancanza di interventi di restituzione alla cittadinanza dei patrimoni archivisti storici conservati.

    Il fattore più grave, peraltro, non è rappresentato dal cahier de doleance che precede ma dalla mancanza di una pianificazione all’altezza della complessità e gravità dei problemi segnalati, la cui soluzione è allo stesso tempo – almeno per quel che riguarda la capitale – un problema nazionale e locale insieme. Ci sono interrogativi di fondo che devono essere sollevati e a cui si devono trovare risposte istituzionali che non possono essere lasciate alla capacità limitata dei singoli interlocutori, fermo restando che ogni ente deve farsi carico delle proprie responsabilità e delle proprie carenze, soprattutto in una fase di trasformazione che non ammette rinvii. Basti pensare al nodo della conservazione digitale e, ancor prima, della gestione dell’archivio corrente e di deposito, la cui trascuratezza implica la perdita inevitabile e definitiva della memoria prodotta.
    La risposta – operativa, concreta e ambiziosa – implica la definizione e la messa in cantiere di un piano articolato, sostenuto finanziariamente e condiviso, finalizzato a dare a Roma e al Paese quella città degli archivi di cui si è parlato a più riprese in passato senza che nulla sia stato fatto finora. Un intervento di questo livello non dovrebbe e non potrebbe ridursi semplicemente a un sistema di depositi collegati, ma richiede una ri-progettazione impegnativa finalizzata a delineare un nuovo modello di gestione e di tutela da proporre anche a livello nazionale, basato sulla condivisione degli impegni, sul superamento dei vincoli burocratici – che non dipendono tanto da una normativa bloccata quanto dalla pigrizia consolidata delle organizzazioni –, e anche sulla capacità di adeguare in meglio gli assetti istituzionali del settore. E’ improrogabile, infatti, il compito di ridefinire con gli strumenti e l’esperienza oggi disponibili l’originale modello archivistico italiano caratterizzato dal policentrismo della conservazione, per cui ogni struttura pubblica (di qualunque dimensione e natura) che produce un archivio nell’esercizio delle sue funzioni è – ovviamente – responsabile della sua gestione e tenuta nella fase corrente e semi-attiva, ma anche e per sempre (se non è soppressa) della documentazione storica, con l’unica possibilità di depositarla (sempre su base temporanea, sia pure lunga a piacere) presso archivi di concentrazione dedicati come gli Archivi di Stato o l’archivio storico (Sezione separata d’archivio) di un altro ente (per esempio di una Regione), mentre oggi questo avviene prevalentemente a favore di un operatore economico privato (outsourcer) cui è nei fatti delegata la gestione dell’archivio istituzionale dell’ente previo consistente esborso di denaro pubblico. Solo le amministrazioni statali non sono più giuridicamente responsabili delle proprie fonti storiche quando le trasferiscono – il termine tecnico di versamento implica non solo il passaggio fisico della custodia, ma anche quello legale – negli Archivi di Stato competenti. Versamento che, peraltro, spesso non avviene proprio per la carenza degli spazi sopra evidenziata.
    Oggi il sistema è in crisi considerate la quantità, la complessità tecnica e, soprattutto, le insufficienti risorse anche tecniche degli enti: i costi sono insostenibili ed è sempre più difficile fornire i servizi qualificati ed efficienti che l’utenza richiede e che la norma esige. Il settore privato – non obbligato a vincoli conservativi se non nei casi in cui esista già un patrimonio storico consolidato e riconosciuto di interesse culturale nazionale dallo Stato – soffre ancora di più dei cambiamenti subiti dalle fonti contemporanee che rischiano in questo ambito la perdita definitiva.
    Si tratta di trasformazioni che richiedono partnership istituzionali di alto livello basate su istruttorie adeguate all’obiettivo di lungo periodo di riformare e migliorare un modello consolidato assicurando efficienza e rispetto della qualità originaria. Il punto di partenza è la capacità di iniziativa dei nostri interlocutori politici, a cui le comunità professionali e il mondo delle associazioni culturali e tecniche non farebbero certo mancare incoraggiamento e supporto per un progetto di questo livello. Perché non partire dalla capitale e dal suo enorme patrimonio archivistico per avviare e realizzare un primo laboratorio approfittando della presenza di un sindaco e di un assessore, entrambi studiosi di storia contemporanea e, almeno in passato, assidui frequentatori degli archivi della Capitale, quindi, consapevoli più di altri della rilevanza nazionale del patrimonio archivistico che la città custodisce e delle sofferenze strategiche di cui soffre?