Autore

Ella Baffoni

Recensione:

Michele Colucci e Stefano Gallo (a cura di), Le strade per Roma, rapporto sulle migrazioni interne in Italia.
Il Mulino, pp. 193, euro 20.

Di cosa sono fatte le città? Delle persone che l’abitano. Difficile negarlo. Ma quanto questa affermazione è vera? Viviamo in una società complessa, e complesse sono le relazioni che ci legano gli uni agli altri, tanto più in una città grande come Roma. Per districare alcuni di questi fili ecco Le strade per Roma, rapporto sulle migrazioni interne in Italia a cura di Michele Colucci e Stefano Gallo (edizioni il Mulino, 193 pgg. 20 euro). Un libro che offre dati e la loro interpretazione, studi, testimonianze. Così da sottolineare quanto i movimenti migratori hanno inciso nella trasformazione della città. Quelli provenienti dalle regioni italiane prima, quelle provenienti da paesi diversi, a volte lontanissimi dopo. E non solo nelle periferie.
C’è chi, Lidia Piccioni, ha analizzato i quartieri del ceto medio, soprattutto il personale amministrativo civile e militare attorno al centro prima, e poi anche fuori. C’è chi (Luciano Villani) ha indagato sulla formazione delle borgate in epoca fascista e dei borghetti, che accoglievano sfrattati e lavoratori con redditi aleatori, come gli edili. Malvisti da prefetture e da ogni tipo di amministratori, la scatenata propaganda antiurbana ha costruito un’immagine terribile di quei luoghi e dei suoi abitanti. Una visione che è continuata negli anni del dopoguerra e che anche oggi ha i suoi tristi epigoni.

Dalle baracche agli appartamenti dei fuorisede

Curiosamente, nonostante la stigmatizzazione e le sporadiche demolizioni, baracche e borgate sono si sono moltiplicate durante il fascismo. E ancor più dopo, fino agli anni ‘50 e ‘60, quelli del boom edilizio, con il fenomeno delle “case della domenica” costruite abusivamente dagli edili e dalle loro famiglie. Ma il divieto fascista di risiedere a Roma senza il permesso della prefettura verrà abolito solo nel 1961.
La fine delle baracche arrivò negli anni ‘70 e ‘80, con la ripresa dell’edilizia popolare e l’infrastrutturazione delle periferie. Nei due decenni successivi si registrò un calo demografico. La popolazione di Roma ricominciò a salire solo negli anni 2000, con le migrazioni dall’estero.
Diversi invece i flussi delle migrazione studentesche (studiati da Luciano Governali). Un’analisi ostacolata dal fatto che i dati sulle residenze dei fuorisede all’università La Sapienza non sono consultabili. Eppure è evidente quanto l’arrivo di studenti della prima, seconda e terza università ha cambiato i quartieri in cui i fuorisede si sono insediati. Giocoforza allora utilizzare almeno le auto inchieste fatte dai collettivi dei fuorisede e, ma solo a partire dal 2004, i dati del questionario sottoposto ai laureandi dal consorzio Almalaurea. Persino i dati sull’uso degli stanziamenti per il diritto allo studio – tra cui i fondi per i posti letto e l’accoglienza dei fuorisede – sono fermi agli anni novanta.

Roma è un hub migratorio

Roma è un hub migratorio, sostengono Corrado Bonifazi, Daniele De Rocchi, Frank Heins. Un crocevia delle migrazioni interne e internazionali, in movimento continuo. Tutte le strade portano a Roma, ma tutte le strade se ne allontanano. Per analizzare i flussi, i ricercatori hanno utilizzato il Sistema locale del lavoro di Roma, i dati cioè sui flussi dei pendolari per motivi lavorativi. E se Milano, ad esempio è un hub più attrattivo, a Roma resta il patrimonio dei movimenti verso le università, i centri di ricerca e la funzione di Capitale. Servirebbero più investimenti, dicono i ricercatori, nella produzione e diffusione di conoscenza, e nei settori economici più avanzati.

La testimonianza di Francesco Carchedi

Particolarmente interessanti due contributi divergenti e singolari. Il primo è l’incontro dei curatori con il sociologo Francesco Carchedi. Figlio di immigrati calabresi, si è occupato tra i primi di immigrazione straniera. Militante politico al Tufello-Valmelaina, testimonia di quel coacervo – a volte contraddittorio ma molto fecondo – di culture, desideri, sentimenti che fu il ‘68. Tra il concerto di Jimi Hendrix e l’occupazione delle case c’è anche l’incontro con i migranti di questo secolo, che vengono da molto lontano ma con desideri, bisogni tutto sommato non poi così diversi. Aiuta anche l’esperienza di vita a Campo Parioli, agglomerato di baracche che si stendeva sotto la collina del quartiere “bene” per antonomasia. Perché il parallelo tra i borghetti romani, le favelas di Benin City, i ghetti dei braccianti in Puglia non sono poi così diversi. Dice Carchedi: “Soltanto a pensarci una persona che non ci ha vissuto può dire ‘Oddio, come si fa a vivere in quel luogo’. Invece in quella scala la vita continua in maniera anche gioiosa, con quello che c’è… Anche nei luoghi all’apparenza più poveri, come all’interno di questi insediamenti, c’è sempre la vita, l’umanità”.
Rileva, con occhio da sociologo, che la sospirata assegnazione della casa popolare, per quanto apprezzata, ha prodotto un cambiamento, ha allentato i rapporti di solidarietà e amicizia tra gli ex vicini, e la comunità di Campo Parioli si è dissolta.

L’Idroscalo, visto da dentro

Un po’ quello che temono gli abitanti dell’Idroscalo, raccontati da Stefano Portelli con un diverso punto di vista, quello dell’antropologo (RomaRicercaRoma se ne è già occupata recensendo un bel documentario di Francesca Mazzoleni, qui il link). Che sottolinea innanzitutto che gran parte degli abitanti di questa enclave – descritta indegnamente anche da giornali progressisti , Repubblica in testa,come una favela che ospita “vite miserabili”, approdano all’Idroscalo spesso provenendo da altri borghetti, Acquedotto Felice, Mandrione, Borghetto Prenestino e spesso essendo migranti interni, originari di Calabria, Puglia, Abruzzo, Campania o Lazio. Migrazioni nelle migrazioni.
Ora l’insediamento, completamente abusivo, ospita anche migranti stranieri, peruviani, rumeni, nordafricani e africani. Sbaglierebbe però chi immaginasse che le prime case furono costruite come abitazione. Erano invece baracchette usate in estate dai fagottari, per fuggire dall’asfalto rovente della metropoli soprattutto d’agosto. Le prime autocostruzioni sono tutte fondate sui ruderi preesistenti. E i suoi abitanti si sentono pionieri.

Gli abitanti chiedono rispetto, e sono orgogliosi della loro socialità

Sì, non avevano il permesso di costruire. Ma non vogliono una casa popolare qualsiasi, vogliono restare lì, legalmente. Già da anni pagano multe per l’occupazione abusiva di terreno pubblico e l’illuminazione pubblica: vogliono abitare insieme, lì, non disfare la comunità come invece è avvenuto a Valle dell’Inferno negli anni ‘80. Obiettivo difficile, quella è un’area di esondazione del Tevere, ma non impossibile. Dice Portelli: “il vuoto legale ha permesso che nel quartiere si sviluppassero forme di socialità di cui gli abitanti sono consapevoli e orgogliosi, e che li mantiene legati alla zona. Testimoniano la vitalità delle culture migranti a Roma oggi, e la varietà delle forme del loro intrecciarsi con le culture locali; in particolare la continuità dei modelli abitativi e sociali propri del mondo rurale, che in questo spazio autocostruito trovano la possibilità di esprimersi”.
Per questo chiedono rispetto per il lavoro fatto, le strade spianate, l’illuminazione e quello che i giornalisti superficiali non sanno vedere: la loro comunità. Per questo lo sgombero forzoso di 35 famiglie nel 2010 è stato una frattura. E in fondo, suggerisce Portelli, è stato un trauma, al limite della deportazione, anche il trasferimento dai vecchi borghetti alle case Iacp. Rileggere quelle vicende senza l’urgenza di allora potrebbe farci ragionare sui cumuli di macerie che quegli eventi hanno lasciato dietro di sé. E sulle possibili alternative.

Una città che cambia

Le strade per Roma è un utile strumento per chi voglia interrogarsi sul futuro di una città eterna ma sempre in movimento, soprattutto nelle periferie. Utile sopratutto ai suoi amministratori.
E’ un buon auspicio che alla presentazione alla biblioteca Enzo Tortora, sia intervenuto il nuovo assessore alla cultura, Miguel Gotor, il cui padre fuggì dalla Spagna franchista, annunciando che proprio la biblioteca di Testaccio sarà particolarmente vocata ai temi delle migrazioni. E’ di buon auspicio che ricordi come le classi dirigenti siano indietro, e quanto siano avanti le seconde generazioni. Già, quelle che aspettano da decenni una cittadinanza formale, che rispecchi quella reale.