Autore
Paolo Buonora
Note a margine del seminario 26 maggio 2021.
Ho passato gran parte della mia vita lavorativa come archivista di Stato a Roma, con un intervallo di tre anni in cui sono stato direttore dell’Archivio di Stato all’Aquila, per poi tornare all’Archivio di Stato di Roma come direttore e per un anno anche Soprintendente ad interim in Abruzzo. In questa sede vorrei passare dal quadro generale che è stato fatto con grande acume dal prof. Montanari a un caso di studio particolare: non per – parafrasando Tocci – piangere su una città coloniale, ma per cercare di partire da un caso concreto e tornare da qui ai temi più generali.
È ormai abbastanza noto anche al cittadino comune che il Ministero della Cultura, come si chiama adesso, è in una situazione di collasso nazionale. Non abbiamo più dirigenti: ogni dirigente superstite ha in genere più incarichi, e da anni si riempiono i vuoti nominando nelle sedi del Ministero dirigenti provenienti da altre amministrazioni, nell’assunto che siano tutti “manager pubblici” equivalenti per formazione e funzioni; così in Abruzzo, alla Soprintendenza Archivistica, quando dovetti andar via fui sostituito dal dirigente di una ASL; all’Archivio di Stato di Roma è stata nominata una professoressa di liceo di storia dell’arte, preside da circa un anno: fortunatamente tutte persone con un backround di studi classici. Tuttavia, queste scelte mostrano la difficoltà oggettiva a disporre di dirigenti sperimentati nello specifico settore della conservazione del patrimonio culturale. Ancor peggio, nelle piante organiche mancano archivisti, storici dell’arte, bibliotecari, funzionari amministrativi, operatori della vigilanza; una buona metà delle attività del Ministero è ormai gestita da una società, la ALES, che è una società partecipata dal Ministero, ma pur sempre una società di regime privatistico.
Tutto questo per introdurre il fatto che, su scala nazionale, moltissimi istituti archivistici, e anche di altro tipo, rischiano la chiusura per mancanza di personale; tra questi c’è anche la sede “sussidiaria” dell’Archivio di Stato di Roma, in via di Galla Placidia in zona tiburtina, che ospita in gran parte le fonti per lo studio della Roma contemporanea: in altre parole, proprio la Roma che studiamo con questi gruppi di discussione e di ricerca.
Si tenga presente che la sede è in affitto, quindi è assolutamente giusto pensare di assegnare una sede demaniale per risparmiare sull’affitto, che è molto elevato. In realtà proprio negli anni in cui ero direttore (2015-2019), abbiamo avuto in assegnazione dal Demanio delle sedi del tutto improbabili, poco più che terreni su cui dover bonificare l’esistente e tirare su ex novo degli edifici; e si consideri che un archivio con i suoi depositi è una struttura edilizia particolarmente sofisticata: deve reggere il peso di una quantità incredibile di carta, deve avere delle attrezzature antincendio tecnologicamente avanzate – nel 2018 abbiamo perso due colleghi all’Archivio di Stato di Arezzo, morti asfissiati per il malfunzionamento di un impianto antincendio. In conclusione, sicuramente si dovrebbe lasciare la sede in locazione di via di Galla Placidia, ma a mio modesto avviso, prima di fare questo si dovrebbe essere attrezzati (finanziamenti, progettazione) per disporre di un edificio a norma, di proprietà demaniale.
In questa situazione, viceversa, la Direzione Generale per gli Archivi ha deciso di trasferire comunque la documentazione conservata in un deposito privato, il che significa che quanto meno si dovranno fare due traslochi dal costo non irrilevante: dalla sede attuale al deposito in outsourcing, e da questo a una nuova sede in un futuro non ancora definito, poiché non vi è al momento il progetto per una nuova sede demaniale. Sia le aree delle caserme del Trullo, sia quelle della Cerimant sulla via Collatina, a suo tempo assegnate, furono restituite al Demanio negli anni passati con un nulla di fatto.
Si consideri che, se tutto il materiale documentario che i colleghi stanno accuratamente etichettando e sistemando per il trasferimento resterà lì per, diciamo, 10 anni, non solo non potremo consultarlo e studiare la Roma contemporanea per tutto questo tempo, ma è anche improbabile che tutto torni ordinatamente al suo posto in un tempo accettabile, una volta che gli attuali colleghi saranno in gran parte fuori servizio. Questo rischio di oblio della documentazione storica è alto; ad esempio, i lavori fatti nel 2019-2020 per i seminari dell’Università di Roma Tre “Tra Roma e il mare”, promossi dal prof. Carlo Travaglini sul settore urbano strategico della “coda della cometa”, e qualsiasi lavoro di ricerca documentaria sulla Roma contemporanea, dal prossimo anno non potranno più essere realizzati. Per non parlare dei rischi connessi all’affidare a una struttura privata esterna la conservazione dei documenti, anche se fornita di tutti i requisiti normativi di sicurezza antincendio: nel 2011 alcuni fondi dell’Archivio affidati per mancanza di spazio in outsourcing furono distrutti da un incendio, probabilmente doloso.
Cerchiamo dunque di passare da questo caso particolare a delle considerazioni più generali. Vi è la tendenza, che è anche nel cambiamento di natura e di denominazione del mio vecchio Ministero, da “Beni Culturali” a “Cultura”, a un divorzio tra produzione della cultura e conservazione del patrimonio. Questo è un po’ tradire il DNA originario del Ministero, ove la conservazione era al tempo stesso ricerca; al di là di quella che è la marginalizzazione della funzione di conservazione e il ruolo “ancillare” che abbiamo in quanto archivisti e bibliotecari nei confronti della ricerca universitaria, non vi è conservazione possibile senza ricerca: non possiamo conservare qualcosa senza sapere che cos’è. Dobbiamo in primo luogo fare delle ricerche – che sono le stesse che fanno gli storici dell’arte, delle istituzioni, dell’economia. Viceversa c’è insomma il rischio che si divida la cultura tra una “good company”, quella dello spettacolo dal vivo, del cinema, delle mostre che portano pubblico e turisti, e una “bad company”, il sistema di conservazione, che costa e non offre una rendita politica immediata; alla lunga, questa tendenza produrrà una situazione di cui anche la “good company” risentirà, ad esempio non potendo più produrre mostre scientificamente valide e offrire al visitatore un patrimonio conservato in condizioni decenti.
Ho letto con molto interesse, nel documento di presentazione del seminario sul patrimonio, il tentativo di comparare il patrimonio culturale al patrimonio pubblico in generale, anche immobiliare: sicuramente vi sono aspetti che vanno considerati assieme, perché dal punto di vista economico dobbiamo ragionare a largo spettro, ma si faccia attenzione al fatto che nello specifico culturale abbiamo a che fare generalmente con dei beni demaniali, ossia con un patrimonio di cui noi non siamo “proprietari” ma piuttosto “depositari”: lo riceviamo dalle generazioni passate e dobbiamo passarlo integro nelle mani delle generazioni future. Da questo punto di vista dobbiamo avere chiaro a chi ci rivolgiamo. Per il caso dell’Archivio di Stato di Roma che ho menzionato, che è uno dei più importanti archivi storici italiani – abbiamo come interlocutori: 1) il mondo, tout court, poiché vi è documentazione di grande interesse anche per la storia di paesi lontani; 2) l’Italia, perché per le complesse vicende del papato, o di nobili famiglie romane, da molte regioni vengono studiosi a ricercare fonti documentarie che riguardano i loro territori; 3) un’area interregionale piuttosto vasta che comprende gran parte del centro Italia (ossia l’ex stato pontificio; 4) infine, il territorio romano. In altre parole, non sono i cittadini romani gli unici destinatari del nostro lavoro di professionisti della conservazione.
Tanti anni fa Salvatore Settis spiegò che il patrimonio culturale in Italia – a differenza che altrove – forma un continuum, cioè un insieme integrato in cui è molto difficile separare un elemento da un altro. Personalmente vedo la realtà istituzionale deputata alla conservazione del patrimonio come una catena di anelli che devono essere tutti solidissimi. Il Ministero della Cultura, la Regione, il Comune, il Vicariato, che a Roma è importantissimo – ricordate il crollo improvviso del tetto della Chiesa dei Falegnami ai Fori – le istituzioni internazionali e private, devono essere tutti anelli di una catena in cui, se un anello non regge, nulla potrà funzionare in maniera adeguata. Il principio di sussidiarietà, cioè la norma per cui ad esempio lo Stato può intervenire se la Regione è inadempiente, non può valere dal basso verso l’alto.
Dunque temo che qualsiasi attività, coraggiosa e significativa, da parte di un Assessorato alla Cultura del Comune non potrà risolvere il problema di carenze che rimandano a un livello superiore, al livello dello Stato.
Nel documento del meeting sulla produzione e la creatività della cultura si è parlato di una situazione di “capitale senza stato”; non vorrei dare un giudizio troppo duro, ma secondo me questa è stata una scelta politica legata alla marginalizzazione di alcune attività, e sicuramente anche a quello che da sempre è il grande dominus della politica romana che è la rendita fondiaria. Tempo fa un amico con un indubitabile orientamento di sinistra, economista di un certo prestigio, mi chiedeva perché non trasferivamo i nostri voluminosi archivi storici in periferia, fuori dal raccordo anulare, ove il costo di terreni ed edifici è sicuramente minore. Certo, tutto si può fare se si ha una progettualità complessiva per la riqualificazione delle periferie; purtroppo i buoni propositi e i finanziamenti promossi in passato dal Ministro Franceschini sono svaniti nel nulla, e quello che resta è appunto la marginalizzazione degli Archivi di Stato, evidenziata in maniera eclatante dalla recente estromissione del Soprintendente dell’Archivio Centrale dello Stato dalla presidenza del Comitato per la desecretazione degli atti riguardanti le stragi decisa da Draghi l’8 settembre.
In positivo, per concludere, è il caso di affrontare alcune proposte concrete per Roma.
- Una grande opportunità di “coworking istituzionale” può essere offerta dalla tecnologia digitale, di cui si parlava nel documento del meeting precedente; è un terreno su cui – per esperienza diretta – si possono mettere assieme le Lo si è visto tanto nel lavoro sulle “mappe della diseguaglianza” quanto sui progetti condivisi (Università di Roma Tre, Soprintendenza di Roma Capitale, Archivio di Stato di Roma) di sistemi informativi geografici (GIS) basati sulla cartografia storica.
- È giusto insistere sulla risorsa del patrimonio immobiliare pubblico e sulla opportunità che la Cassa Depositi e Prestiti si faccia carico dell’adeguamento e della nuova costruzione degli edifici funzionali all’attività dell’amministrazione pubblica; gli edifici pubblici devono essere considerati infrastrutture, non come parte del mercato immobiliare e soggetti a libera vendita – si ricordi la devastante “cartolarizzazione” realizzata in passato per riempire le casse statali.
- Gli operatori che operano nel mondo culturale devono essere tolti da una situazione di precarietà perenne che dura da decenni. Le ragioni che giustificavano gli entusiasmi per il “terzo settore” sono ormai cosa di altri tempi2, ed è tempo di eliminare ogni persistenza ambigua di “volontariato” e di “scontrinisti”, ancorché legittimata da un bando pro-forma.
- Dobbiamo impegnarci a non separare “cultura alta” e “cultura bassa”: ricerca e divulgazione devono essere al servizio del cittadino, non di una élite ristretta. Per lo scenario romano, in cui la sinistra si vuole aprire alle molte culture della metropoli mediterranea multietnica, questo comporta una sfida non facile: cosa può interessare al migrante nordafricano, slavo o sudamericano della Roma pontificia, o del nascere della nuova capitale del Regno d’Italia? Quale narrazione possiamo sostituire a quella mussoliniana dell’”Impero che rinasce”, ben illustrata nel famoso pannello all’inizio dei Fori imperiali?
- Infine, bisogna tentare di veicolare l’emersione del sommerso della “città di AirBnB” evidenziata da Christian Raimo3, con un sistema di tassa di soggiorno che non sia solo un balzello a fondo perduto, ma supporti l’emissione di biglietti per frequentare luoghi poco noti di Roma, e quindi faccia uscire il visitatore dal circuito obbligato Colosseo – Musei Vaticani per far scoprire al turista quegli aspetti che ci riportano a quanto Montanari diceva nella sua introduzione di evadere il presente e lasciarsi avvolgere dal passato.
Riferimenti bibliografici
1 S. Settis, Italia S.P.A.: l’assalto al patrimonio culturale,Torino, Einaudi, 2002.
2 Si veda Il volontariato nei beni culturali e altri articoli contenuti in Notiziario XXI. 80-82 (gennaio – dicembre 2006), a cura dell’Ufficio Studi del Ministero dei Beni Culturali.
3 L’analisi di Raimo parte dal testo di Sarah Gainsforth, Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale, Roma 2019.