Il diritto a una città giusta

Percorsi per uscire dalla crisi del valore

Roma sta soffrendo duramente le conseguenze della pandemia. La crisi colpisce in misura particolare alcuni dei settori che più caratterizzano la sua economia – turismo, industria dei servizi culturali e dello spettacolo, commercio, ristorazione, immobiliare – e le zone della città che ospitano normalmente migliaia di city user e turisti. Per non parlare degli effetti indiretti: contrazione dei consumi, disoccupazione, aumento delle disuguaglianze, distruzione di capitale umano. Una tempesta perfetta sulla quale occorre intervenire per tutelare l’economia urbana, anche da possibili infiltrazioni criminali. È però necessario andare oltre le congiunture per comprendere le ragioni strutturali di una crisi più che decennale – Roma non si è mai ripresa dalla recessione originatasi nel 2007/2008 – le cui radici sono ben precedenti.

Il dossier è parte di un lavoro collettivo dal titolo Manifesto per Roma, che viene interamente pubblicato in questo sito, nella sezione Proposte. Hanno contribuito: Filippo Celata (coordinatore), Rossana Galdini, Silvia Lucciarini, Andrea Simone.

Un ringraziamento particolare a Marco Causi per gli utilissimi contributi e commenti al dossier, il cui contenuto è in ogni caso interamente nella responsabilità degli autori.

1. L’analisi

1.1 La crisi del valore

La città soffre innanzitutto di una “crisi del valore”. Il numero di occupati non ha d’altronde mai smesso di crescere, tranne che nelle fasi più recessive, e il tasso di disoccupazione ha avuto andamenti simili al resto dell’Italia, sebbene poi a Roma dal 2017 sia tornato a crescere. Anche il numero di imprese è cresciuto, mentre in Italia è rimasto pressoché stabile. Il problema è che tale crescita di occupati e imprese si è associato negli ultimi anni ad una notevole riduzione del valore aggiunto prodotto che, in rapporto al numero di abitanti, ha avuto a Roma un crollo del 9% mentre in Italia si è ridotto di meno della metà (-4%) e a Milano è aumentato del 10% (Figura 1).

Figura 1. Valore aggiunto per abitante (base 2000 = 100), 2000-2017 (fonte: Istat)

 

Tale crollo può essere dovuto da un lato alla riduzione della produttività delle imprese nei loro rispettivi settori, e d’altro lato a un ri-orientamento verso settori a più bassa produttività. Ci sono indizi che mostrano che sono vere entrambe le cose. In termini di addetti, i tassi di crescita maggiori si osservano nei servizi alla persona, nel turismo e nei pubblici esercizi, a fronte della riduzione dei settori manifatturieri – in particolare apparecchiature per le telecomunicazioni, strumenti di misurazione, metalmeccanico – dei settori classificabili come ad alta intensità tecnologica, e delle industrie culturali – in particolare l’editoria. I servizi avanzati sono cresciuti, come è fisiologico per una grande metropoli, ma meno sia in quantità che in qualità rispetto sia a altre grandi metropoli dei paesi ad alto reddito (D’Albergo e Moini, 2015) che ai decenni precedenti. A fronte di un lieve aumento nelle costruzioni, il commercio e i servizi di informazione e comunicazione, tutti gli altri settori riducono la loro produttività. Roma aveva invece registrato negli anni 2000 dinamiche di produttività migliori rispetto alla media italiana e anche alle grandi città del Nord. Le conseguenze di questa crisi del valore sono diverse e gravi, non solo in termini di prospettive di crescita, ma di qualità dell’occupazione, livelli di reddito, opportunità di mobilità sociale, accentuazione del dualismo e delle disuguaglianze.

1.2 La catastrofe degli investimenti pubblici

Da cosa deriva tale “crisi del valore”? Una prima ipotesi riguarda la dinamica degli investimenti pubblici. Quella del Comune di Roma ha subito una riduzione catastrofica, molto maggiore che nel resto d’Italia (Causi, 2021): la contrazione è 3 volte maggiore alla media nazionale nel periodo 2009-2013 e 11 volte maggiore nel 2014-2019. La spesa in conto capitale per abitante nel 2018 è stata la metà di quella di Bologna, meno di un terzo di quella di Torino e circa un quarto rispetto a Milano, Firenze e Napoli. Non è sempre stato così. Il crollo è successivo al 2008, e ha invertito la dinamica positiva degli investimenti registrata nel periodo precedente, dovuta soprattutto alla cosiddetta “cura del ferro” (metropolitane) e a eventi straordinari quali il Giubileo. L’esito è il drammatico sottodimensionamento delle risorse destinate alla manutenzione e al miglioramento delle infrastrutture, delle reti e dei beni pubblici della città.

Fra il 2007 e il 2012, la spesa corrente del Campidoglio è cresciuta al contrario di quasi il 30% in termini assoluti; soprattutto la spesa destinata alle aziende partecipate che in quel periodo procedevano a generose (e non sempre sensate o addirittura, in qualche caso, legittime) campagne assunzionali, in clamorosa controtendenza con le restrizioni imposte in quegli anni dalla crisi. Questo profilo qualitativo del bilancio inaugurato dalla giunta di centrodestra nel 2008-2013 si è poi consolidato, ed è perfino lievemente peggiorato.

In termini di servizi pubblici, Roma, pur avendo negli ultimi venticinque anni recuperato una parte non piccola dello storico divario che soffre nei confronti delle aree urbane più avanzate del centro-nord, resta ancora lontana da standard ottimali, in particolare sull’asse fra centro e periferie (Lelo et al., 2019). Tali problemi sono aggravati dalla sterminata estensione del territorio comunale e dagli squilibri esistenti al suo interno, anche perché a quelli di tipo storico se ne sono aggiunti negli ultimi decenni altri. La popolazione per esempio si è ridotta nella città consolidata mentre è aumentata nelle aree adiacenti ed esterne al GRA e nel resto della città metropolitana in una misura che non ha eguali in nessun altro territorio italiano. Sono aumentati inoltre per intensità e per estensione i flussi di pendolarismo verso la città e le interconnessioni produttive sul territorio a scala provinciale e regionale.

In secondo luogo, Roma soffre di una notevole lentezza nell’utilizzo delle risorse esistenti, che si è ridotta ulteriormente nel corso del tempo (Fig. 3), complici le conseguenze dell’inchiesta “mafia capitale” e l’inesperienza e la prudenza della Giunta attuale: un approccio minimalista che preferisce evitare, insieme agli investimenti, i progetti più complessi e le procedure più difficili, quindi una larga parte delle azioni richieste per amministrare una grande città come Roma.

Le responsabilità non sono tuttavia da imputare solo al Comune: fra la metà del secondo decennio e la metà del primo si sono ridotti gli investimenti delle imprese pubbliche locali (-31%), delle amministrazioni centrali (-22%) e delle imprese pubbliche nazionali (-7%). Nell’ambito del ciclo dei rifiuti gli investimenti si sono sostanzialmente fermati. Nel settore del trasporto pubblico locale si sono ridotti di circa 50 milioni l’anno.

Fig. 2. Risorse impegnate e non spese per investimenti nel bilancio del Comune di Roma (milioni di euro)

1.3 La metropolizzazione mancata

Un secondo problema è che in questi anni a Roma la crescita si è concentrata, come accennato, su settori con scarse capacità propulsive. L’esempio più rilevante è il turismo e in secondo luogo i già citati pubblici esercizi. Un altro ambito di forti investimenti sono stati i grandi centri commerciali che, in un quadro di capacità di spesa privata decrescente, hanno messo in difficoltà il tessuto commerciale urbano e mostrano anch’essi segni di crisi, anche prima della pandemia. Più recentemente sono stati localizzati nell’area alcuni importanti centri logistici. L’area periurbana si è quindi popolata di ‘cattedrali nel deserto’ che generano occupazione scarsamente qualificata e flussi di persone e merci, ma non producono esternalità, sviluppo, centralità – a dispetto della retorica con la quale sono descritti.

Le dinamiche pur positive in termini di servizi avanzati sono come detto ben al di sotto delle potenzialità di una grande città. Roma, d’altronde, non è mai diventata una “città globale”; l’economia urbana mostra al contrario un’elevata “dipendenza dal locale” (D’Albergo e Moini, 2015). Altre metropoli sono cresciute sia dal punto di vista quantitativo, fisico, che qualitativo ed economico, come naturale conseguenza della centralità che le grandi città hanno in economie avanzate ad alto consumo di conoscenze e relazioni. Roma ha conosciuto quasi solo gli aspetti meramente quantitativi e anche negativi di tale processo: crescita ipertrofica, valorizzazione esclusivamente fondiaria, polarizzazione sociospaziale.

Tale circostanza è paradossale dal momento che Roma ospita da sempre – per natura e storia – diversi elementi transnazionali (Thomassen e Marinaro, 2014), ma raramente proietta le sue reti (economiche) nel mondo. La sua dimensione cosmopolita non si è mai trasferita alla sua economia, per lo meno dagli anni ‘60. Si pensi d’altronde che, cambiando scala, nonostante la popolazione romana sia composta quasi completamente da immigrati più o meno recenti (nell’800 Roma non aveva più di 200.000 abitanti), l’economia urbana raramente proietta la propria influenza al di là dei confini metropolitani. La città sfrutta quindi le economie di scala che sono consentite dalla dimensione metropolitana, ma non produce le economie esterne che sono tipiche della metropolizzazione: l’ispessimento delle sinergie interne ed esterne. Attrae quasi ‘naturalmente’ investimenti, risorse, persone istruite, sebbene meno di altre città europee, ma non riesce a tradurre questo nella creazione di opportunità diffuse, in un percorso di qualificazione della base produttiva, rimanendo intrappolata in una via “bassa” allo sviluppo, concentrata in settori a scarso capitale cognitivo e ridotto valore aggiunto.

Molti servizi avanzati sono anch’essi “dipendenti dal locale” da un lato, e d’altro lato dal settore pubblico –  risentendo quindi delle dinamiche negative degli investimenti pubblici a cui si è fatto riferimento. Le maggiori riduzioni di produttività si registrano negli ultimi anni proprio nelle attività finanziarie, assicurative, immobiliari e professionali/tecniche, tanto che nonostante gli occupati in questi settori crescano, il valore aggiunto da loro complessivamente prodotto si è ridotto. Cresce inoltre il numero di micro-imprese, imprese individuali e partite IVA, e si riduce il numero di società per azioni (Macchiati, 2019).  Allo stesso tempo sono quasi raddoppiate in 10 anni le esportazioni di servizi. Non mancano in tutti gli ambiti sopra descritti delle assolute eccellenze. L’immagine che se ne trae è quella dell’accentuazione di una struttura tipicamente dualistica di Roma, per la quale solo una parte della sua economia ha saputo reagire alla crisi riorganizzandosi, mentre la restante parte è rimasta intrappolata in una situazione di arretratezza e precarietà (Causi, 2018).

1.4 Le debolezze dell'industria

Problemi simili riguardano il comparto manifatturiero, che come noto a Roma è ridotto ma comunque consistente e non privo di eccellenze. L’industria tuttavia si contrae non solo in termini di addetti, ma anche di produttività. A Roma agiscono molte attività produttive ad alta intensità tecnologica in settori quali l’aerospazio, l’audiovisivo, l’ICT. Il peso di questa porzione dell’economia si sta tuttavia riducendo. Tale contrazione è precedente alla crisi del 2007/2008 ed è proseguita anche quando quasi tutti gli altri settori risultavano in crescita. Allargando lo sguardo emerge l’enorme polo chimico-farmaceutico (pontino) che, al netto di crisi aziendali e ristrutturazioni, continua ad occupare decine di migliaia di dipendenti, inclusi molti lavoratori qualificati, e a produrre quasi il 50% dell’export regionale. Il settore tuttavia non solo si contrae leggermente negli anni, ma si orienta verso attività meramente produttive, sempre più spesso in conto terzi, che hanno quindi spesso la propria ‘testa’ (funzioni direzionali, ricerca & sviluppo) altrove. Nel Lazio sono inoltre presenti diversi sistemi produttivi locali – carta (Frosinone), marmo (Tivoli), tessile (Valle del Liri), ceramica (Civita Castellana) – che però risentono delle pressioni competitive che inevitabilmente caratterizzano questi settori maturi.

A fronte di queste difficoltà, high-tech e ‘innovazione’ sono state negli ultimi anni oggetto di un notevole investimento, innanzitutto simbolico. Sono stati creati due tecnopoli: quello di Castel romano, in posizione baricentrica tra Roma e il principale polo farmaceutico, e quello Tiburtino, per ravvivare i fasti di quella che un tempo veniva definita “Tiburtina Valley”. I tecnopoli si qualificano tuttavia più per l’offerta di spazi, infrastrutture e servizi che per la capacità di emulare la complessa rete di interdipendenze tra le imprese, e tra queste e il territorio, che caratterizza gli esempi a cui si ispirano. Sono nati inoltre almeno una decina di incubatori e acceleratori di start-up su iniziativa di imprese, università, amministrazioni, associazioni di categoria. Il rischio è che in assenza di un contesto produttivo e finanziario idoneo a sostenere l’innovazione lungo l’intero ciclo di vita del prodotto, le iniziative di successo che pure si incubano finiscano per trasferirsi altrove. Soprattutto a mancare è il sostegno dell’attore pubblico nel medio-lungo periodo, un elemento che come hanno dimostrato diverse esperienze in Europa e Usa è dirimente per garantire stabilità e sostegno per affrontare le incertezze organizzative e di mercato, inevitabili nelle nascenti economie di innovazione.

1.5 Il ruolo delle grandi aziende

È poi venuto meno il ruolo che le grandi aziende pubbliche o ex-pubbliche hanno avuto negli anni ’90 e 2000. Sostiene Walter Tocci (2015) che la crescita di quegli anni, soprattutto nel terziario avanzato, fosse sostenuta dalla ristrutturazione del settore pubblico allargato – dagli enti pubblici alle aziende (ex) pubbliche. Negli anni queste grandi imprese o hanno esaurito la tendenza alla diversificazione (ENI, Enel, FS), o hanno subito crisi e ridimensionamenti (Alitalia, Rai), o hanno ridotto il loro radicamento nell’area romana (Finmeccanica), oppure si sono trasferite altrove (Telecom e Capitalia), seguite da altre “fughe da Roma” di imprese private quali Sky, Mediaset, Opel, Esso, TotalErg, Ericsson, Philip Morris, ecc. Questa “fuga da Roma” sconta tre debolezze: una difficile logistica intra- ed extra-urbana, oggi particolarmente rilevante per il ruolo che rivestono gli spostamenti e l’efficienza logistica di mezzi e prodotti; la ridotta capacità attrattiva di Roma in quanto sede degli organi dello stato; e ultimo ma non ultimo un sistema di tassazione alle imprese tra i meno favorevoli a livello nazionale.

Nell’ambito del settore pubblico allargato, liberalizzazioni, privatizzazioni e esternalizzazioni hanno creato inizialmente ‘mercato’, ma anche (successivamente) clientele, e le loro capacità propulsive sono venute progressivamente meno. Nell’ambito dell’amministrazione e dei servizi pubblici locali, le esternalizzazioni hanno avuto negli anni ’90 e 2000 l’obiettivo esplicito di creare una sorta di “amministrazione parallela” che poi si è mostrata spesso tanto efficiente o efficace quanto quella in house che doveva sostituire (Tocci, 2015). Per non parlare dei ben noti problemi di efficacia e di gestione che caratterizzano le grandi municipalizzate – Atac, Ama, Acea – e la più grande impresa romana, il Comune, le cui difficoltà richiedono un imponente investimento politico e strategico, prima ancora che economico-finanziario.

1.6 Vivere (e morire) di rendita

I problemi che l’economia romana ha manifestato in questi anni non sono quindi soltanto dovuti alla congiuntura sfavorevole, ma al fatto che questa ha amplificato i limiti strutturali di una crescita precedentemente trainata in buona parte dalla dimensione metropolitana o dalla natura di capitale. Appare per questo appropriata la metafora di una “città coloniale” cresciuta eccessivamente, male, troppo in fretta, e in termini meramente quantitativi (Tocci, 2015). 

La “crisi del valore” ha origine ben prima degli ultimi anni. Buona parte dell’economia romana è infatti storicamente basata sulla rendita, e il suo sviluppo è stato trainato prevalentemente da fattori esogeni (Macchiati, 2019): la presenza degli organi centrali dello Stato, la crescita demografica e la domanda che ne consegue (edilizia, servizi), l’enorme attrattività turistica che deriva alla città dalla sua storia precedente. Walter Tocci parla in questo senso di una capitale in sé, che è tale in quanto tale, che è oggi invece obbligata a diventare una capitale per sé, ovvero valorizzare il suo potenziale endogeno (2015, 2020), che deve però ancora in qualche modo individuare e progettare.

Parte dell’economia e della società romana vive invece di rendita, sia direttamente che indirettamente, sia in termini letterali che metaforici. Non produce ricchezza ma la estrae senza che siano necessari eccessivi sforzi, tranne che per competere e posizionarsi sui principali snodi di tale meccanismo riproduttivo, per poi trasmettere tale vantaggio per via ereditaria – sia che si tratta di veri e propri asset materiali che di semplici posizioni dominanti. E la moneta cattiva scaccia quella buona. “Ciò che fa funzionare la rendita (quantità, clientele, assenza di controlli, approssimazione, importazione, consumo, assenza di rendiconto, speculazione) è esattamente ciò che tiene lontano il mercato regolato (qualità, merito, controlli e verifiche, specializzazione, esportazione, produzione, rendiconto dell’efficacia, investimenti)” (Benini e De Nardis, 2013, p. 26). Nei casi peggiori la logica della rendita produce un’economia predatoria, parassita, estrattiva, speculativa. Un’economia coloniale, appunto, che rischia perfino di distruggere la ricchezza sulla quale prospera.

1.7 Rendita fondiaria e rendita burocratica

La proprietà e lo sfruttamento del suolo sono da sempre la risorsa e il fattore di potere più importanti a Roma (d’Albergo e Moini, 2015), intorno al quale ruotano non solo i settori delle costruzioni e immobiliare, ma anche il commercio, i pubblici esercizi, il turismo. Questi elementi dell’economia urbana hanno un’importanza che va anche al di là del loro effettivo peso (nelle costruzioni lavora appena il 5% degli occupati), perché pervadono il discorso pubblico, le istituzioni intermedie, il dibattito politico, l’informazione; hanno in qualche modo carattere egemonico. È d’altronde naturale che chi ha un’elevata “dipendenza dal locale” investa sul locale più di chi invece può farne a meno.

Le dinamiche della rendita fondiaria non riguardano poi soltanto costruttori e grandi rentiers, ma anche le centinaia di migliaia di famiglie proprietarie della casa nella quale abitano, che equivalgono ormai a Roma all’80% e sono cresciute negli anni ’90 e 2000 di circa 10.000 unità l’anno. Il che ha effetti positivi in termini di sicurezza economica ma poi, da un lato, determina una notevole immobilizzazione del capitale che deprime altri consumi o investimenti, e d’altro lato fa sì che la ricchezza delle famiglie e di conseguenza la loro capacità di spesa – reale e percepita – risenta degli andamenti pro-ciclici dei valori immobiliari. Anche in questo caso gli effetti della pandemia non potranno che aggravare e allungare il ciclo negativo di questi anni, per via dell’ulteriore crollo delle compravendite e dei valori immobiliari per le abitazioni residenziali e, ancora di più, per gli spazi commerciali e gli uffici (per via dell’accresciuto ricorso al lavoro a distanza).

Notevoli posizioni di rendita si riscontrano anche in quella larghissima parte dell’economia che lavora nel settore pubblico o per il pubblico, e che quindi non è sottoposta pienamente a delle effettive logiche di mercato. Anche altre importanti componenti che pure agiscono sul mercato aperto, derivano la loro presenza a Roma da decisioni politiche o da un mero vantaggio di prossimità con quello che è il loro principale cliente o referente: lo Stato. Questo vale, come detto, sia per parte del tessuto di piccole e medie imprese di servizi più o meno avanzati, sia per la gran parte delle grandi imprese romane che o sono tutt’ora pubbliche o sono nate (e sono state localizzate a Roma) come imprese pubbliche, oppure operano nei settori delle grandi opere infrastrutturali a commessa pubblica (d’Albergo e Moini, 2015), oppure localizzano a Roma le proprie funzioni di rappresentanza e le relazioni istituzionali.

1.8 Rendita e classi sociali

Il peso della rendita e la struttura economica che Roma ha eredito dalla sua storia – in primo luogo lo scarso peso dell’industria – hanno inoltre impedito una vera e propria dialettica tra classi sociali. “Lo sviluppo delle forze produttive non è entrato in contrasto con i rapporti sociali di produzione che caratterizzavano prima lo stato pontificio, poi la città burocratica post unitaria, infine quella del secondo dopoguerra dominata dalla rendita edilizia” (Macchiati, 2019, p. 2). E se non è mai esistita a Roma una vera e propria classe operaia, non è mai esistita neanche una borghesia modernizzatrice e ‘produttiva’. 

La debolezza dell’industria ha anch’essa in parte radici ‘sociali’ ed è figlia degli anni del miracolo economico (Lucciarini, 2018). Le principali cause sono state l’indisponibilità della classe imprenditoriale a investire nella città, preferendo in alcuni casi spostarsi al Nord, coniugata al peso del comparto pubblico presso il quale molte figure che si erano distinte nel periodo precedente venivano chiamate a ricoprire cariche dirigenziali (Toscano, 2009). Quando poi gli ingenti trasferimenti della ricostruzione postbellica e dell’Ente Cassa del Mezzogiorno sono confluiti nelle aree meridionali del paese, nel Lazio ne hanno beneficiato le province del Sud. Questa occasione mancata per la creazione di un sistema economico solido ha lasciato la capitale depotenziata, consolidandone gli elementi di fragilità: un sistema del credito debole e legato a doppio filo con il sistema politico, una rete infrastrutturale difficile e inefficiente, la mancanza di una classe dirigente adeguata.

In seguito alle crisi degli anni ‘70 le città hanno dovuto convertire le proprie economie manifatturiere in terziare avanzate. Roma aveva allora la possibilità di dedicarsi alla costruzione di un sistema dei servizi qualificato, non dovendosi occupare dei costi sociali ed economici della deindustrializzazione (De Muro et al., 2011), ma è mancata un’idea di sviluppo basata su innovazione e qualità, il che ha segnato i successivi decenni: il mantenimento dell’edilizia come settore trainante, seppure ciclico, la crescita dei servizi alla persona, dell’accoglienza turistica generica, e la specializzazione in settori a bassa intensità di capitale e parcellizzati.

1.9 Egemonia e crisi della rendita

Le logiche e i meccanismi di un’economia basata sulla rendita continuano oggi in qualche modo a auto-riprodursi, nonostante siano venuti a mancare, nel frattempo, i fondamenti della loro produzione. L’economia della rendita ha infatti, come detto, carattere egemonico. Il problema è quindi non tanto quello di una città che vive di rendita, ma il fatto che le “rendite romane”, come sono definite, sono per un motivo o per l’altro tutte in crisi, e con loro si è esaurito il fondamento sul quale si è basato il lungo ciclo 150ennale di Roma capitale (Tocci, 2015, 2020).

Il settore delle costruzioni e dell’immobiliare si è in qualche modo fermato. Il tasso di compravendita ha avuto il suo picco nel 2004 e si è poi dimezzato in 10 anni, per poi risalire ma rimanendo sempre sotto i valori pre-2012 (dati OMI). Si intravede già, come detto, un nuovo brusco calo conseguente alla pandemia. Piuttosto che sperare in una ripresa del mercato – che da più parti si reputa indispensabile – è semmai indispensabile un ri-orientamento del settore a favore della ristrutturazione dell’esistente piuttosto che delle nuove costruzioni, come in parte sta già inevitabilmente avvenendo. Una città nella quale la popolazione ha smesso di crescere non può d’altronde continuare a consumare suolo agricolo e verde, e addirittura a basare i propri destini su questo, scaricando i relativi costi sul territorio, anche grazie alle agevolazioni e agli enormi margini che le nuove edificazioni consentono – come per esempio l’esenzione dall’IMU per l’invenduto e gli oneri di urbanizzazione incredibilmente bassi.

In termini di “rendita burocratica” i problemi sono, anche qui, strutturali. La tendenza verso una riduzione del peso del settore pubblico non nasce infatti con la crisi. Per via del decentramento amministrativo, inoltre, una localizzazione in prossimità del governo centrale è meno rilevante che in passato. Il trend è difficilmente reversibile ed è semmai necessario come detto riorientare la spesa pubblica a favore degli investimenti.

L’economia romana ha continuato a godere di una sostanziale “rendita simbolica”, dal momento che il turismo è stato uno dei pochi settori in crescita. Negli ultimi 10 anni le presenze negli esercizi ricettivi registrati sono aumentate del 20% (Istat) e la città è stata letteralmente invasa da migliaia di affitti brevi non registrati (su Airbnb.com sono attualmente pubblicizzati a Roma circa 30.000 alloggi, tre volte il numero degli esercizi ricettivi registrati). La diversificazione della base ricettiva ha però ridotto la spesa media dei turisti, parallelamente alla riduzione del costo del viaggio (grazie alle linee low cost) e alla diffusione di esercizi commerciali e di ristorazione di bassa qualità. L’economia romana non può ovviamente fare a meno del turismo. Ma è necessario riflettere su quali sono i benefici e quali i costi di un settore che si basa su un mix micidiale di rendita simbolica e fondiaria – alla quale si aggiunge ora la rendita da intermediazione pura di cui godono le piattaforme di prenotazione – e che crea prevalentemente occupazione di bassa qualità, economia estrattiva e rilevanti impatti per la città in termini di iper-turistificazione, costo della vita, spopolamento del centro, vulnerabilità alle crisi (Celata e Romano, 2020).

La pandemia ha avuto un impatto pesantissimo che proseguirà per alcuni anni. Nelle fasi acute dell’emergenza il traffico passeggeri negli aeroporti e le prenotazioni di alloggi si sono ridotti di più del 95%. Scomparsi i turisti, migliaia di appartamenti sono per esempio tornati sul mercato degli affitti a più lungo termine. Ma si tratta di soluzioni temporanee, in attesa che tornino i turisti. Sarebbe invece utile ‘usare’ la pandemia per intervenire seriamente sul problema e far rivivere più in generale il centro, ovvero consentire da un lato agli abitanti di tornarci e d’altro lato dare nuova linfa alle sue relazioni funzionali e all’importantissima funzione simbolica che esso svolge nei confronti della città (Celata et al., 2020).

1.10 Le dimensioni socio-spaziali della crisi

Un’economia che favorisce l’accumulazione della ricchezza (privata) ma non produce valore (collettivo), non può che produrre disuguaglianze. Il Lazio è infatti sia una delle Regioni dove le disuguaglianze sono più accentuate, sia quella dove sono cresciute in assoluto di più nell’ultimo decennio (dati Istat). Il che è da un lato effetto della crisi – inclusa quella innestata dalla pandemia – ma d’altro lato ne diventa causa perché deprime i consumi.

Il meccanismo della rendita fondiaria iscrive poi tali disuguaglianze nello spazio. Il dispositivo più potente è la dinamica dei valori immobiliari. La competizione tra funzioni residenziali, commerciali, turistiche, terziarie, per una localizzazione in zone centrali e accessibili, ha determinato un aumento del differenziale di rendita immobiliare fra centro e periferie – sia nelle fasi di crescita che di crisi del settore immobiliare – e quindi una spinta verso lo spostamento delle residenze fuori dalle aree centrali, sebbene tale spinta si sia ridotta nell’ultimo decennio per via della riduzione dei valori immobiliari (Crisci, 2018).  La città ha inoltre mantenuto una struttura economica fortemente mono-centrica. La curva della rendita, in sintesi, è a Roma notevolmente e sempre più inclinata. L’insieme di questi processi demoliscono il tessuto sociale misto che pure molte zone di Roma (a cominciare dal centro) avevano, dislocando i redditi medio-bassi ai margini. La polarizzazione che ne deriva è anch’essa, da un lato, effetto della crisi, ma d’altro lato ne diventa causa perché amplifica la segregazione degli abitanti in trappole territoriali sempre più omogenee dal punto di vista socio-economico e con differenziali crescenti non solo in termini di ricchezza ma anche di opportunità relazionali, educative, ecc. (Lelo et al., 2019), aggravando la tradizionale frammentarietà del tessuto sociale e urbanistico della città. In questo quadro le disuguaglianze non possono che auto-alimentarsi. Non è una sorpresa che nel periodo 2013-2016 il reddito pro-capite dei due municipi più ‘ricchi’ (I e II) sia cresciuto a un tasso nove volte superiore a quello dei municipi più ‘poveri’ (IV, V, VI, XI).

Anche da questo punto di vista Roma è assimilabile a una città coloniale dove il benessere si concentra in alcune zone – dal centro storico alla prima corona – sempre più simili a ‘enclavi’ che beneficiano non solo della centralità ma di un’elevata qualità urbana (Tocci, 2019). Più in là, in gran parte della “periferia storica” delle consolari, fino a quello che è il vero, enorme problema di Roma – la “città del GRA” (Cellamare, 2016) – si disperde il disagio, che è appunto allo stesso tempo socioeconomico e urbanistico, rendendo complicato intervenire successivamente con politiche sociali e di rigenerazione.

A Roma quindi – più che in molte altre città – il concetto di “periferia” utilizzato sbrigativamente nel dibattito pubblico come qualcosa che è allo stesso tempo ‘lontano’ e problematico, si applica alla perfezione. Al netto delle enormi differenze che ovviamente riguardano le varie periferie, riemerge l’immagine del dualismo: due città sempre più distanti e separate (Lelo et al., 2019). E gli effetti delle recessioni – sia quella originatasi nel 2007/2008 che quella indotta dalla pandemia – sono molto maggiori, come sempre accade, per la parte più debole.

In questo quadro perfino il miglioramento dei trasporti pubblici, al quale dovrebbe contribuire il Recovery Plan, ha aspetti preoccupanti da questo punto di vista. Da un lato dotare le periferie di collegamenti migliori è un indispensabile elemento di giustizia spaziale, oltre che utile per scoraggiare l’uso mezzi di trasporto privati. D’altro lato rischia di favorire le aree più ricche, laddove è qui che finisce per concentrarsi buona parte degli interventi, i quali dovrebbero invece distribuirsi in maniera omogenea sulla città, o alimentando in ogni caso il meccanismo della rendita differenziale a vantaggio dei luoghi più centrali e accessibili. Bisogna inoltre impedire che tale miglioramento favorisca semplicemente ulteriore espansione urbana, l’estensione e l’intensificazione dei flussi di pendolarismo e quindi, di nuovo, la rendita nelle zone più centrali e la polarizzazione sociospaziale. A fare la differenza sarà l’interpretazione che verrà data al Recovery Plan: un’occasione per diminuire la distanza tra i servizi e le opportunità a cui hanno accesso gli abitanti, a seconda che vivano nelle aree centrali o in quelle periferiche? Oppure una visione mercatistica incentrata sul potenziamento delle aree centrali, produttrici di ricchezza (anche se in settori a basso valore aggiunto come turismo e piccolo commercio) e pertanto da privilegiare nella distribuzione delle risorse? Una visione quest’ultima che ha già mostrato la sua inefficacia perché i divari sono un ostacolo allo sviluppo, non solo un suo effetto collaterale: contribuiscono direttamente alla lenta decrescita ‘infelice’ che caratterizza la città.

1.11 Le trappole di un'economia debole

Un’economia sempre più specializzata in settori a basso valore aggiunto, poco regolati e sindacalizzati, porta poi a scaricare i propri problemi sul lavoro e a comprimere i salari per mantenere competitività (Causi 2018). Precarietà, sottoccupazione, povertà lavorativa, hanno assunto in questi anni a Roma (come altrove) carattere endemico. Una delle forme più recenti e estreme è la cosiddetta “economia dei lavoretti” e in generale le consegne a domicilio. Da questo punto di vista tuttavia il dualismo viene in parte meno perché anche le componenti più avanzate dell’economia urbana hanno potuto beneficiare di livelli retributivi più bassi e di condizioni lavorative peggiori rispetto alle economie con le quali competono, grazie a norme che non solo lo hanno consentito ma attivamente promosso, perfino in ambiti tradizionalmente ‘protetti’ come l’impiego pubblico.

Un’economia che non produce valore e che si basa in buona parte sull’estrazione della rendita, o le cui sorti sono spesso legate a doppio filo con quelle della politica e dell’amministrazione, si presta poi inevitabilmente a degenerazioni altrettanto endemiche di natura clientelare, collusiva, corruttiva e perfino criminale – come ha mostrato l’indagine di Mafia capitale. Tali degenerazioni sono anche la conseguenze dell’esistenza di un vasto segmento di imprese arretrate sul piano organizzativo e tecnologico nonché fragili sul piano patrimoniale e finanziario che restano in vita grazie a protezioni e rendite di posizione guadagnate nei confronti della committenza pubblica attraverso meccanismi di intermediazione che possono sconfinare, e purtroppo sono sconfinati, nell’illegalità (Causi, 2018).

Per Ernesto d’Albergo e Giulio Moini le relazioni fra politica ed economia a Roma hanno determinato un “regime dell’Urbe” che tende a riprodursi nel tempo nonostante i radicali cambiamenti nel quadro politico oltre che economico. Sembra anzi che tutto sia cambiato affinché tutto rimanesse così com’è.

Roma è diventata inoltre un’importante destinazione dei capitali provenienti da attività illecite e dalla criminalità organizzata (Martone, 2017), che si mostrano particolarmente ‘pazienti’ e in grado di sopportare e aggirare le difficoltà finanziarie e burocratiche che invece rallentano e spesso impediscono gli investimenti ‘migliori’. La pandemia è un’occasione ghiottissima sia per la finanza criminale, che per quella speculativa.

2. Le proposte

L’immagine complessiva che emerge dall’analisi è quella di una città esaurita che ha perso non solo capacità propulsive ma la stessa possibilità di immaginare un futuro diverso, rimanendo vittima degli stereotipi di una città immobile, improduttiva, decadente. Come si dirà nei prossimi paragrafi, Roma ha mostrato in questi anni anche segni di straordinaria vitalità, oltre che una notevole resilienza. Alcune strategie di adattamento hanno in realtà accentuato problemi strutturali quali il dualismo, la micro-imprenditorialità, la crescita di settori a basso valore aggiunto, il peggioramento della qualità del lavoro, la dipendenza dalla rendita e dal patrimonio immobiliare (si pensi all’enorme diffusione degli affitti brevi). Ma in tutti i settori, anche nell’ambito del commercio, dei servizi, del turismo e dei pubblici esercizi, si è prodotta allo stesso tempo diversificazione, sperimentazione, novità. Sono cresciute come detto le esportazioni da parte delle componenti più dinamiche dell’economia locale. Il sistema della ricerca ha ridotto la propria “dipendenza dal locale” per aprirsi al confronto transnazionale. Si è prodotta moltissima innovazione sociale. C’è tutta una parte ‘viva’ della città che però appare polverizzata, poco visibile, sottorappresentata, non priva essa stessa di problematicità, e senza un’adeguata capacità di esprimere la propria voce nel discorso pubblico, che è invece egemonizzato da altri attori e da altre logiche. Che fare?

2.1 Il diritto a una città giusta

Le difficoltà di Roma e della sua economia hanno ispirato numerose analisi che in termini di identificazione dei problemi sono ampiamente condivisibili. Quello che colpisce è che quando si tratta di suggerire ricette si tende spesso a convergere su due direttrici principali: l’internazionalizzazione e l’innovazione. Le parole chiave sarebbero la competitività, l’attrattività nei confronti degli investimenti esterni, l’high-tech, l’industria creativa. Il problema non è tanto il senso letterale di ciascuno di questi concetti – chi non vorrebbe vivere in una città competitiva, attrattiva, innovativa – ma il fatto che complessivamente essi rimandano ad un’idea di economia urbana che ha mostrato negli anni gravi problematicità.

Si pone innanzitutto un problema di appropriatezza. Se Roma non è mai stata una città globale è difficile pensare che lo possa diventare per atto di volontà. Si suggerisce in altri termini una dinamica evolutiva che viene dedotta dall’esperienza di alcuni “casi di successo” per poi rintracciare all’interno dell’economia romana elementi che possano favorirne l’emulazione. Non stupisce quindi che a Roma tali discorsi – caratteristici per esempio del cosiddetto “modello Roma” (Amoroso et al., 2007) – abbiano prodotto benefici circoscritti nello spazio e nel tempo che vengono catturati all’interno dei meccanismi estrattivi e meramente fondiari descritti nei paragrafi precedenti, oppure rischiano di accentuare il dualismo. Perché anche nei contesti più fertili, il “paradigma della competitività” si rivolge in definitiva a quella piccola parte dell’economia che agisce in mercati aperti e globalizzati, che è innovativa, esportatrice, ‘fica’. L’iper-connessione globale, come messo in evidenzia da numerosi studi urbani critici, produce disconnessione locale e polarizzazione socio-spaziale, inclinando ulteriormente la curva della rendita, favorendo gentrification e esclusione. Il rischio è che si finiscano per alimentare le disuguaglianze, ignorando del tutto gli aspetti distributivi e relegando la questione tra gli ‘effetti collaterali’ che devono essere oggetto di altre politiche, a contenuto sociale, se non meramente assistenziale.

Come è possibile, allora, immaginare una politica economica urbana che sia allo stesso tempo appropriata, efficace e giusta?

È comprensibile che in una città che vive (e muore) di rendita, il ‘mercato’ sia invocato come soluzione. Bisogna tuttavia avere consapevolezza che il problema va ben oltre l’ambito economico perché pervade, come detto, la dimensione più ampiamente sociale e politica del sistema Roma ed è anche, se non innanzitutto, un problema di giustizia. A Roma c’è in primo luogo un problema di giustizia distributiva, ovvero di eguaglianza sostanziale, che richiede attenzione agli effetti distributivi, di qualità del lavoro e di equità socio-spaziale delle economie che si intendono promuovere (e non solo quindi del loro potenziale aggregato in termini di crescita, ‘ripresa’ o ‘competitività’). Ma la giustizia ha anche una dimensione procedurale che ha a che fare con l’equità, l’imparzialità, la trasparenza, la coerenza, e l’eticità dei meccanismi, delle decisioni e dei processi allocativi, pubblici e privati. Da questo secondo punto di vista è necessario problematizzare e ‘politicizzare’ le relazioni tra autorità politica, proprietà economica e società locale dalle quali discendono determinati esiti allocativi.

La questione non può essere affrontata solo in termini normativi – chi d’altronde non vorrebbe vivere in una città giusta – ma richiede da un lato l’individuazione di quelli che sono i possibili agenti del cambiamento, e d’altro lato dei loro ‘avversari’: abdicando a questo fondamentale compito, per ampliare il proprio consenso, la politica e in particolare il centro-sinistra ha prodotto a Roma esiti conservativi, se non consociativi. Il disagio sociale, in questo quadro, non può che tradursi in rabbia populista e anti-politica.

2.2 I soggetti del cambiamento

Governare il cambiamento significa innanzitutto chiedersi chi produce valore a Roma e per Roma. Ma prima ancora, cosa intendiamo per ‘valore’? L’idea del valore che abbiamo in mente è multi-dimensionale e collettiva: non si tratta solo di produrre reddito o ricchezza ma socialità, cultura, idee, novità, buona occupazione, comunità, umanità, vitalità, irriproducibilità, accoglienza, cura (Celata et al., 2020). Da questo punto di vista le componenti più avanzate e strutturate dell’economia romana possono trovare inaspettate affinità con l’universo del lavoro autonomo di qualità, con il tessuto della creatività, in tutti i sensi – ricerca, innovazione, diversificazione – ma anche con il privato sociale e l’innovazione sociale che si produce in forme più o meno auto-organizzate, fino all’ampio numero di persone che sia nel pubblico che nel privato lavorano al servizio dell’interesse generale.

Una sana contrapposizione tra visioni alternative della città è necessaria per promuovere il cambiamento e contrastare vecchi equilibri e egemonie. Tale contrapposizione può discendere da una sorta di coalizione dei ‘ceti produttivi’ (contro quelli estrattivi e clientelari) e dall’aggregazione dei loro interessi. Non si tratta di una distinzione né settoriale, né tantomeno di classe. In tutti i settori dell’economia romana infatti, come detto, ci sono luci e ombre, e il blocco sociale al quale facciamo riferimento è debole anche perché non è chiaramente identificabile come tale.

La parte ‘viva’ dell’economia urbana dovrebbe trovare innanzitutto al proprio interno la capacità collettiva di imporre una propria, nuova, egemonia. Deve rimanere autonoma rispetto alla politica, ma in qualche modo coalizzarsi per poter esprimere la propria voce. La politica – intesa anche in senso stretto – ha in ogni caso un ruolo fondamentale. Il denso tessuto associativo romano e i numerosi soggetti rappresentativi possono in questo aiutare, recuperando autonomia rispetto alla politica, o possono al contrario essere essi stessi un dispositivo di riproduzione delle rendite e dello status quo. L’individualismo e la carenza di senso civico che caratterizzano Roma non discendono dalla sostanza antropologica del romano, ma dalla percezione che l’azione collettiva sia inefficace, condannata a riprodurre lo status quo o distorta a favore di interessi particolari.

L’accentuato dualismo che caratterizza la città implica da un lato che le componenti più vulnerabili siano in qualche modo protette – dalle conseguenze della crisi, dal rischio di esclusione, dalla crescita delle disuguaglianze. C’è poi un’altra parte della città più viva e vitale, frammentata e sotto-rappresentata, che invece deve essere ‘liberata’ – dalle posizioni dominanti, dall’immobilismo decisionale e burocratico, da situazioni di sostanziale invisibilità. Questo stesso dualismo richiede tuttavia di agire su entrambi i fronti. E facendo attenzione. Perché se è anche comprensibile che in una città in “crisi del valore” si auspichi un ri-orientamento verso settori a più alto valore aggiunto, tale crisi è a Roma, come detto, generalizzata, riguarda sia le componenti meno avanzate che quelle più avanzate: strategie selettive che riguardino esclusivamente queste ultime rischiano, nella migliore delle ipotesi, di produrre ulteriore dualismo e polarizzazione.

2.3 Economia fondamentale e città pubblica

Alla luce di quanto detto, e in virtù delle caratteristiche strutturali di Roma, è utile il riferimento alla cosiddetta “economia fondamentale” (Collettivo per l’economia fondamentale, 2019) che propone di dare priorità ai settori fondamentali per i cittadini – servizi di base, welfare in senso lato – che sono poi particolarmente rilevanti per le componenti della società a più basso reddito. Si tratta di una proposta fortemente critica nei confronti del paradigma della competitività, il quale ha reso l’economia fondamentale paradossalmente (considerata la sua importanza sia economico-occupazionale che sociale) invisibile. Il paradigma della competitività sosterrebbe che è la parte più avanzata dell’economia a dover essere acclamata, sostenuta, valorizzata. Ma le dinamiche redistributive pesano più sui redditi da lavoro che su quelli di capitale aumentando le sperequazioni, con l’esito di comprimere i salari, diminuire i consumi e consolidare un meccanismo accumulativo della ricchezza che impoverisce la città nel suo complesso. È semmai sulla componente ‘fondamentale’ che si deve concentrare l’intervento pubblico.

La migliore forma di sostegno è curare il funzionamento di base della città (pubblica), ovvero le condizioni di vivibilità e di efficienza urbana (piuttosto che meramente economica), per ridurre quello “squilibrio tra opulenza privata e miseria pubblica” (Ibidem, p. 4) che a Roma è particolarmente evidente. Perché sia che si agisca nella parte più avanzata dell’economia, che in quella più marginale, si ha sempre a che fare con la città: mobilità, servizi pubblici, qualità urbana. Questi ambiti, così come istruzione, sanità, assistenza, ma anche cibo, casa, reti digitali e tutta la “infrastruttura di base universale” che la costituzione riconosce come diritto, andrebbero sottratti ad una logica meramente economico-finanziaria per ricondurli alla loro missione sociale di produrre valore a lungo termine e benefici per la collettività.

2.4 Condizioni e missioni sociali (per il Recovery Plan)

Uno degli strumenti proposti dal Collettivo per l’economia fondamentale è l’introduzione nei settori ‘fondamentali’ di una “licenza sociale” che definisca degli obblighi ‘sociali’ e che si applichi non solo alle aziende pubbliche ma a tutte le imprese che agiscono in regime di concessione pubblica o che sono destinatarie di esternalizzazioni di servizi pubblici. Il Forum Disuguaglianze e Diversità ha proposto per suo conto la definizione di missioni strategiche di medio-lungo periodo per le aziende pubbliche. A queste proposte fa eco l’ampio dibattito sulla necessità di imporre condizioni alle imprese che ricevono qualsiasi tipo di sostegno pubblico, portato avanti per esempio da Mariana Mazzucato e particolarmente rilevante in un quadro come quello attuale nel quale lo Stato interviene massicciamente nell’economia. Ne risulta complessivamente l’idea di un soggetto pubblico che anche quando non agisce direttamente nell’economia ha comunque la volontà, le competenze, la visione, la credibilità e gli strumenti necessari per orientare, sebbene in maniera indiretta, dialogica e perfino volontaria, l’azione del privato verso obiettivi strategici di interesse pubblico relativi in primo luogo alla giustizia sociale. Lo stesso approccio si può sperimentare a scala locale e in particolare a Roma dove il complesso delle aziende pubbliche o che agiscono nel o per conto del pubblico o sono destinatarie di sostegno pubblico rappresenta una porzione rilevantissima dell’economia.

Quale occasione migliore del Recovery Plan? Il Piano di Ripresa e Resilienza persegue alcuni obiettivi ambientali (imposti dalla crisi climatica) e sociosanitari (imposti dalla pandemia), ma per il resto non si discosta dal suddetto “paradigma della competitività”: transizione digitale, innovazione e ricerca al servizio delle imprese, “modernizzazione” (cit.). La prima bozza italiana predisposta dal governo Conte include anche una certa attenzione alle “infrastrutture sociali” e alla “equità e inclusione sociale e territoriale”. Le voci di spesa di gran lunga più cospicue sono tuttavia la riqualificazione energetica degli edifici (Ecobonus), le infrastrutture ferroviarie e stradali, e il sostegno alle imprese. Crediamo che a Roma “inclusione e equità” debbano avere un ruolo prioritario, favorendo l’istruzione, la partecipazione al mercato del lavoro e la tenuta della domanda interna di consumo e servizi, perché si tratta del presupposto per un qualsiasi rilancio economico. La proposta è inoltre che nella valutazione degli investimenti da finanziare, nella loro gestione e realizzazione sia imposta un’attenzione prioritaria non soltanto all’impatto aggregato in termini di ripresa e crescita, ma agli effetti da un lato sociali e d’altro lato territoriali degli interventi, ovvero la condizione che essi riducano o quanto meno non aumentino le disuguaglianze esistenti. Il rischio che altrimenti accada il contrario è alto.

Tali interventi saranno poi in parte specifici per Roma, ovvero medio-grandi investimenti nei quali le istituzioni locali potranno avere un ruolo attivo, ma in gran parte avranno carattere settoriale e deriveranno dalla gestione a scala nazionale dei diversi canali di finanziamento. In entrambi i casi c’è bisogno di un coordinamento su base territoriale per massimizzarne i benefici in un’ottica che deve essere inevitabilmente integrata, e rendere i singoli interventi strumentali al perseguimento di obiettivi più generali, sia a scala della città nel suo complesso che delle diverse sue parti o quartieri, chiunque sia il soggetto a cui spetta la gestione dei finanziamenti, e su un arco temporale che va oltre quello di attuazione del Piano.

Si pensi, ad esempio, all’Ecobonus per la riqualificazione degli edifici. Il rischio è che gli interventi si concentrino nei luoghi di maggior pregio: l’utilizzo del bonus nei luoghi del disagio dovrebbe allora essere oggetto di una politica attiva di promozione e assistenza tecnica. L’effetto è in ogni caso l’aumento del valore degli immobili: stime effettuate dal Corriere della Sera mostrano una correlazione quasi perfetta tra valore attuale degli immobili e rivalutazione in seguito a riqualificazione; più è alto il valore dell’edificio, maggiori sono i benefici. Il che è naturale. I quartieri che ne beneficiano di più, per intenderci, sono Parioli, Prati e Trastevere. L’effetto, in ogni caso, e anzi perfino in misura maggiore nelle zone più popolari, sarà aumentare il cosiddetto rent-gap, ovvero la differenza tra la redditività attuale degli immobili e la loro redditività potenziale, che è il fenomeno dal quale origina la gentrification. E visto che l’Europa la gran parte di questi soldi non ce li regala, pagheremo sulla base di un sistema fiscale timidamente progressivo e che non include una seria tassazione di rendita, patrimoni e immobili, interventi i cui benefici hanno invece, in termini sociali, una natura regressiva, e dal punto di vista urbano effetti potenzialmente pericolosi che solo un’attenta politica a scala di quartiere può tentare di limitare. Nessuno nega l’urgenza di rendere i nostri edifici meno energivori, riqualificare le città e renderle più sostenibili. Il problema è chi paga i costi della transizione e chi ne percepisce i relativi benefici.

2.5 Struttura della spesa e investimenti pubblici

In merito al ruolo della spesa pubblica locale è necessario innanzitutto sfatare la convinzione che il Campidoglio sia in difficoltà perché manchino nelle sue casse le risorse necessarie all’esercizio delle funzioni che Roma svolge in qualità di capitale della Repubblica: queste risorse nella parte corrente del bilancio ci sono, e non sono neppure poche (544 milioni, l’11% del totale delle entrate comunali). Si tratta dei contributi speciali assegnati alla capitale, circostanza che provoca legittime invidie e contrarietà e che impedisce di chiedere ulteriori apporti di finanza speciale, almeno fin quando si parli di risorse correnti. Ne deriva il fatto che i trasferimenti correnti che arrivano a Roma dallo Stato centrale non hanno eguali nel resto del paese. Le entrate tributarie, d’altro lato, sono più o meno al livello di Milano (Tabella 1).

Tab. 1. Entrate correnti nei Comuni di Roma e Milano (Euro per abitante)

Notevolmente inferiori sono invece le entrate extratributarie, quasi il triplo a Milano, soprattutto per i proventi dell’erogazioni dei servizi (un quinto di quelli di Milano, grazie a un sistema tariffario più favorevole), della gestione dei beni e delle sanzioni amministrative (circa la metà). Ma la differenza che ne risulta sul fronte delle entrate correnti impallidisce quando si passa alle entrate per investimenti: le entrate in conto capitale sono state a Roma nel 2018-2019 meno della metà di quelle di Milano.

Chiunque governerà Roma troverà tuttavia, per quanto detto, una consistente quantità di fondi impegnati per investimenti ma ancora non spesi; più o meno 800 milioni di euro (Figura 2). Potrà inoltre utilizzare il cosiddetto margine operativo netto, ovvero la differenza fra entrate e spese, in vari modi: per migliorare la fornitura di servizi, ridurre le imposte, o aumentare gli investimenti, che deve essere la priorità. Su quest’ultimo fronte bisogna recuperare un ritardo di più o meno dieci anni.

La nuova giunta dovrà però lavorare duramente per rimettere in funzione la macchina comunale: restituire motivazioni all’apparato, innovare quanto basta, superare le paure che la frenano, fornire i giusti incentivi e le necessarie tutele affinché si possano mettere in atto procedure amministrative qualificanti, innovative e per questo anche complesse. Autorevolezza, reputazione, capacità di interlocuzione con i diversi poteri che intervengono sulla realizzazione delle azioni amministrative sono altri ingredienti necessari. Le risorse devono provenire da tutti i livelli amministrativi; la loro destinazione deve però basarsi su priorità e strategie definite a livello locale tramite un accordo verticale e orizzontale per Roma (Causi, 2020).

Si tratta, ripetiamo, di recuperare capacità ordinarie di investimento e di intervento. Troppe opportunità sono state perdute a causa dell’instabilità e/o dell’immobilismo. Va spezzato il circolo vizioso che, nell’attesa messianica di leggi speciali per Roma, rallenta la capacità di lavorare sulle opportunità che possono essere percorse con gli strumenti esistenti. Negli anni passati si sono invece continuate a invocare soluzioni straordinarie: le Olimpiadi sono un ottimo esempio, sostenute con la motivazione che avrebbero portato risorse per le infrastrutture necessarie alla città. Se però una città ha bisogno di completare le sue infrastrutture perché mai dovrebbe farlo passando per la via traversa delle Olimpiadi e non invece con l’ordinaria programmazione della spesa per investimenti pubblici, come fanno altre città? Peraltro, numerosi studi hanno dimostrato che le ultime Olimpiadi che hanno raggiunto un rapporto positivo fra benefici e costi sono quelle di Barcellona nel 1990; tutte quelle successive hanno invece prodotto costi finanziari ed economici superiori, anche in modo rilevante, al confronto con i benefici per la comunità ospitante.

Per recuperare il ritardo dell’ultimo decennio è necessario attrarre risorse aggiuntive, pubbliche e private, a cominciare dal Recovery Plan. Il rischio da scongiurare, tuttavia, è che anche il Recovery Plan abbia il carattere di un ‘grande evento’, di natura straordinaria, episodica e perfino traumatica, se non viene inserito in un quadro di priorità e azioni a medio-lungo termine. Ed è ovviamente anche il caso del prossimo Giubileo.

Si consideri poi che il bilancio del Campidoglio, esteso fino a consolidare quelli delle sue imprese partecipate, non pesa molto più del 6% sul valore aggiunto totale della città. Non è quindi il suo ammontare aggregato a poter esercitare effetti significativi, quanto i suoi caratteri specifici e qualitativi legati soprattutto alle spese per investimento, oltre che al costo e alle condizioni di accessibilità dei servizi pubblici fondamentali. L’istituzione civica può poi giocare un ruolo che va al di là dei numeri e che si basa su reputazione, credibilità, visione, progettualità, capacità di partenariato con le altre istituzioni pubbliche e con i soggetti privati, coesione della comunità intorno a coraggiosi, trasparenti e condivisi obiettivi di interesse collettivo. Si potrebbe dire che può esercitare egemonia sul piano culturale e su quello politico, e che questa capacità non dipende dalla dimensione del bilancio. L’esame del bilancio (Causi, 2021) mostra però la debolezza o l’assenza degli elementi che segnalano la capacità dell’amministrazione di dirigere e orientare il clima generale e le aspettative, e con esse le decisioni, dei soggetti economici della città.

A Roma fanno difetto, in sintesi, investimenti pubblici e una governance pubblica adeguata sia dentro gli attuali confini comunali che ancora di più se si tiene conto della dimensione metropolitana. Non rientra negli obiettivi di questo lavoro discutere le possibili riforme ordinamentali per innovare e migliorare l’insoddisfacente governance pubblica locale dell’area romana, dal Comune alla città metropolitana (si veda anche Tocci 2020, e il dossier di Roma Ricerca Roma sul governo), ma è chiaro che le sorti della finanza capitolina da un lato, e quelle della sua struttura amministrativa dall’altro, dipendono anche da questo.

2.6 Governare le esternalizzazioni

Una lunga esperienza consolidata nel sistema produttivo romano, ma con ampi spazi di valorizzazione e oggi in fase di ristrutturazione, è quella del procurement sociale. Ovvero quando lo Stato diventa compratore (Fiorentino 2007) di servizi sociali, sanitari, educativi erogati dal terzo settore.  Molti di questi istituti concorrono alle procedure di appalto che il comune o i municipi indicono nei diversi comparti delle politiche sociali. Si pensi ad esempio alla refezione scolastica, che gestisce a Roma quotidianamente circa 145mila pasti. Il ‘comparto sociale’ variamente inteso ha un numero di occupati e un volume di spesa che in Italia è poco sotto il 20% del Pil nazionale e a Roma è ancora maggiore. Una nuova impresa su tre a Roma è un soggetto di terzo settore. Una grandissima occasione da valorizzare, evitando le tendenze alla compressione dei salari e allo scarso riconoscimento, materiale e simbolico, delle professionalità che vi lavorano.

Il sistema di welfare mix è ora in un momento di ripensamento per le successive riforme del terzo settore da un lato e del codice degli appalti dall’altro, con l’introduzione di procedure di gara per alcuni servizi sociali, socio-educativi e socio-sanitari che in passato rientravano in regimi ‘speciali’ dove prevalevano diverse procedure di assegnazione. L’adeguamento alla nuova normativa europea (Lucciarini, 2018) ha segnato la fine dei regimi speciali e inserito questi servizi nella procedura ordinaria degli appalti, pensati per promuovere la competizione tra i soggetti, con importanti conseguenze per le cooperative e gli operatori sociali (Caselli et al., 2021).

Si tratta di un pezzo importante dell’economia romana da ripensare per produrre valore economico e sociale, e migliorare i servizi. L’obiettivo è creare un sistema virtuoso di regole che promuovano politiche che possano coniugare sviluppo e inclusione. Un sistema che sia un investimento e non un discarico della funzione pubblica verso soggetti privati, con il solo obiettivo di contenere la spesa. Per questo bisogna andare oltre, come in alcuni ambiti sta già avvenendo, la logica del massimo ribasso, a discapito della qualità e della valorizzazione del lavoro. Nei sistemi di valutazione debbono essere inseriti anche aspetti relativi alla qualità, alla professionalità del personale impiegato, e che premiano i soggetti che fanno uso di risorse sostenibili (si pensi ad esempio alla clausola del 5% sull’uso dei mezzi ibridi per il trasporto della refezione scolastica). Come già avviene in altri paesi europei, la diffusione di bandi con alcuni vincoli sulle risorse e sui mezzi impiegati sostengono un’economia di qualità e promuovono la cultura e la pratica del basso impatto ambientale. Una modalità che permette di includere, sostenendole, anche altre economie del territorio (anche qui, si pensi ad esempio alla filiera a km zero inserita come clausola del bando per refezioni ospedaliere o scolastiche). I contenuti e i parametri degli appalti non debbono costituire solo un vincolo ma un’opportunità per il sostegno di filiere di qualità sul territorio, per la sostenibilità, e per la tutela dei redditi degli operatori, troppo spesso compressi con conseguenze negative sul servizio erogato.

2.7 Creare valore con il patrimonio immobiliare pubblico

Roma dispone di un patrimonio pubblico immenso. Il 16% di questo patrimonio risulta, sulla base delle stesse dichiarazioni dei soggetti gestori al MEF, inutilizzato. Si è imposta poi un’interpretazione del patrimonio che in nome dell’ambiguo concetto di ‘valorizzazione’ persegue esclusivamente l’obiettivo di fare cassa. La destinazione prevista per questi immobili è quindi quasi solo la dismissione, e in misura minore la concessione a privati a titolo oneroso. Gare e aste vanno peraltro spesso deserte, anche perché il mercato immobiliare è in crisi. Il tema sarà oggetto di uno specifico approfondimento da parte di Roma Ricerca Roma (dossier patrimonio). Qui preme ribadire le potenzialità di tale patrimonio per perseguire un riorientamento dell’economia urbana a favore della produzione di valore collettivo, mettendolo a disposizione della cittadinanza attiva, delle sperimentazioni economiche, sociali e culturali, dei servizi pregiati educativi, creativi, di ricerca (Tocci, 2020), o anche per la rilocalizzazione di alcuni uffici pubblici, come proposto da Giovanni Caudo. 

È necessario per questo rendere in tutti i modi più conveniente il riuso, semplificando innanzitutto le relative norme. E bisogna sostituire una logica finanziaria-normativa con un approccio strategico-progettuale sperimentando, anche qui, procedure innovative di progettazione e di affidamento tramite bando. È sufficiente un unico intervento significativo per cambiare il volto a un intera zona. Per questo le amministrazioni devono però dotarsi di competenze, sensibilità e figure professionali che non hanno, e valorizzare quelle che hanno in linea con quanto detto nei paragrafi precedenti.

Si devono poi, da un lato, utilizzare più estesamente opzioni organiche di riutilizzo, e d’altro lato coinvolgere le comunità, non nell’ottica cosmetica della ‘consultazione’, ma di una vera e propria co-progettazione, co-gestione e delega. Un tentativo in tal senso sono i “patti di collaborazione” che consentono al Comune di concordare con i cittadini interventi di cura, rigenerazione e gestione condivisa dei beni comuni; o gli usi temporanei (Galdini, 2020): la concessione a collettivi e associazioni per finalità di interesse pubblico di spazi altrimenti inutilizzati e ‘vuoti’; opzione sperimentata anche a Roma, con esiti alterni. L’esperimento del modello ‘reinventing cities’ con il bando ReinvenTIAMO Roma è stato un altro esempio interessante, sebbene isolato. Ma è necessaria prima di tutto una ri-significazione complessiva di cosa si intenda per ‘valorizzazione’ e ‘interesse pubblico’.

Si pensi alle esperienze dei numerosi immobili occupati per finalità non residenziali e successivamente sgomberati per rimanere quasi sempre ancora oggi vuoti (in primis il Teatro Valle), o i numerosi spazi sociali e culturali inizialmente occupati e poi regolarmente concessi ai quali sono stati imposti affitti insostenibili o lo sfratto. L’occupazione non può essere pensata come forma ordinaria di riutilizzo, ma è innegabile che essa riesca ad attivare energie creative e produrre valore molto meglio di interventi pubblici spesso sterili e astrusi.

2.8 L'innovazione sociale

La crisi, il declino, il progressivo ‘ritiro’ del pubblico, hanno indotto – soprattutto nelle periferie – una straordinaria proliferazione di iniziative di auto-organizzazione, risposte ‘di comunità’, forme più o meno nuove di mutualismo, economia sociale o solidale e le più svariate forme di cittadinanza attiva, che si pongono in continuità con le pratiche di auto-gestione che hanno caratterizzato la scena romana negli anni ’80 e ’90, rimodellandone contenuti e finalità. Rispetto al soggetto pubblico, tali iniziative riescono in primo luogo a intercettare più facilmente le nuove marginalità urbane e le nuove forme di esclusione. In secondo luogo rispondono a una sostanziale crisi della rappresentanza che ha deteriorato le tradizionali forme di aggregazione civica e di mediazione politica e sociale (associazioni, movimenti, organizzazioni studentesche, ecc.). Sono esperienze di rimaterializzazione dell’azione collettiva e di riterritorializzazione, ovvero di (ri)costruzione comunitaria con una forte connotazione locale, in cui le persone riscoprono legami di prossimità e di mutuo soccorso a livello di vicinato o di quartiere, e nelle quali si articola un discorso diverso della città (Cellamare, 2019).

Molte di queste iniziative hanno spesso contenuti, finalità o per lo meno una loro sostenibilità economica. Sono innanzitutto forme di “azione sociale diretta” (Bosi e Zamponi, 2019) in grado di fornire una risposta tangibile a un bisogno immediato (banchi alimentari, ambulatori sociali, doposcuola o palestre popolari, ecc.). Ma attivano anche nuove forme di creazione del valore che sfidano o superano la logica di mercato.  Attraverso l’azione solidale e mutualistica, la condivisione di risorse e competenze, si realizza una “centrale informale di scambio” tra le disponibilità e i bisogni espressi dalla comunità, anche grazie a un attento lavoro di monitoraggio del territorio. Il rapporto con il mercato è in alcuni casi assente o sporadico (consorzi di autoconsumo, orti condivisi, forme di scambio non monetario), in altri tangenziale e limitato al lato della domanda. Ma si riscontrano, benché di rado, anche iniziative dal lato dell’offerta quali il sostegno all’auto-imprenditorialità come forma di realizzazione personale e di emancipazione, o la costituzione di vere e proprie imprese sociali che operano a pieno titolo nel mercato adottando tuttavia un approccio perequativo e cooperativistico.

Il rapporto con la politica e l’amministrazione è quasi sempre problematico, con equilibri eterogenei e spesso ibridi tra conflitto e collaborazione, antagonismo e sussidiarietà. L’iniziativa sociale rischia in questo modo di svolgere un ruolo non già complementare ma sostitutivo del pubblico e, da sola, è incapace di promuovere un cambiamento. Queste iniziative non hanno necessariamente bisogno del sostegno diretto del pubblico, al di là per esempio della disponibilità di spazi. Hanno bisogno innanzitutto di un riconoscimento del loro fondamentale ruolo e di partecipare più attivamente alla governance della città.

2.9 Il settore creativo e l'economia collaborativa

Roma ospita come noto pezzi importanti del sistema italiano dell’editoria, dell’informazione e della radio-televisione, ma anche in questo ambito non si sono prodotte negli ultimi anni novità di rilevo. Il sistema creativo e culturale, una delle punte di diamante romane se si pensa all’industria cinematografica, è diventato più fragile per via della difficoltà di stare al passo con le trasformazioni del settore. Il sistema del lavoro creativo “di prima generazione”, affermatosi negli anni ‘70 e caratterizzato da un nucleo di lavoratori standard inseriti in aziende medio-grandi, spesso sostenute dallo stato, e un universo periferico di lavoro informale o sommerso, è entrato in crisi – ma non scomparso – sul finire degli anni ‘90. A questo si è affiancato un sistema di “seconda generazione” che registra un sensibile calo del numero dei lavoratori centrali, a causa della contrazione dell’organico stabile delle grandi aziende, e una riduzione dell’informalità per quelli periferici che entrano nel mercato regolare per lo più sotto forma di indipendenti e freelance. La digitalizzazione, inoltre, determina sia l’aumento della domanda di contenuti culturali da diffondere sulle nuove piattaforme, sia la riduzione del costo dell’equipaggiamento di base. La balcanizzazione del lavoro creativo che ne deriva, caratterizzato da bacini di lavoro indipendente e basato su commesse e progetti, determina un carico di lavoro squilibrato e discontinuo, a volte perfino non pagato, oltre all’esigenza di una continua operazione di networking per trovare clienti. Ne risulta l’atomizzazione del lavoro creativo e la difficoltà di creare ‘collettivo’ e, quindi, esprimere la propria ‘voce’, anche attraverso gli attori dell’intermediazione; una debolezza organizzativa e politica che mantiene bassi i salari e precari i lavori, finendo per riprodurre condizioni di basso valore aggiunto (De Vita e Lucciarini, 2019).

Queste trasformazioni hanno promosso anche innovazione. La digitalizzazione ha ampliato numero e varietà delle professioni creative. Sono poi nate numerose nicchie di “economia collaborativa” quali i coworking, i fablab, i makerspace: veri e propri uffici e laboratori condivisi dove i lavoratori freelance si organizzano autonomamente ma all’interno di un contesto collaborativo, rimodulando allo stesso tempo il rapporto tra lavoro e tempi di vita[1].  Il fenomeno assume particolare rilevanza in un quadro di aumento del ricorso al lavoro a distanza, che è una degli effetti probabilmente più importanti e duraturi della pandemia[2]. Si tratta di luoghi di innovazione creativa e organizzativa – nei contenuti, nelle professioni, nelle reti e nelle logiche – nei quali si genera un’innovazione aperta, connessa, auto-organizzata. Sono anche potenziali veicoli di rigenerazione urbana, localizzandosi spesso in “spazi dimenticati” quali gli edifici industriali dismessi e le aree abbandonate (Galdini, 2020). I benefici sono congiuntamente di tipo sociale, economico e spaziale. Perché sono anche luoghi che generano appartenenza, cooperazione, fiducia e massa critica per lavoratori che non appartengono ad associazioni professionali e non hanno una rete aziendale, in un contesto che produce invece sradicamento, vulnerabilità, individualismo, incertezza, e che la pandemia ha notevolmente aggravato.

Il rischio è tuttavia che questi nuovi ecosistemi della creatività rappresentino soluzioni temporanee, alimentando la tendenza alla diffusione di attività poco redditizie, o si configurino non come spazi di condivisione e creazione di comunità, ma come espressioni di una élite creativa qualificata, contribuendo ad alimentare la gentrification e il dualismo (Mariotti, 2019). 

Queste esperienze sono più efficaci e sostenibili se sono ben collegate con soggetti pubblici e privati (Lucciarini, 2018). Si tratta infatti di attività spesso poco redditizie e di dimensioni limitate, che richiedono qualche forma di sponsorizzazione, a cominciare dalla disponibilità di spazi. Gli attori pubblici possono poi svolgere un ruolo chiave nel favorire reti e dialoghi tra diversi interlocutori.

[1] Il coworking Alveare, per esempio, a Centocelle, è nato dalla necessità di offrire uno spazio di lavoro a lavoratori indipendenti con bambini piccoli, ed ha prodotto risultati positivi trasformando uno spazio pubblico abbandonato in un luogo di socializzazione e interazione con il quartiere. Nonostante ciò, nel 2019 ha chiuso i battenti per la richiesta degli spazi da parte del V Municipio.

[2] La diffusione del lavoro agile può avere esiti positivi sia per la città che per i lavoratori, ma non è priva di problematicità. Un’opzione ‘intermedia’ è, secondo alcuni, un tessuto diffuso di strutture di coworking o “near-working” che consenta contesti lavorativi migliori rispetto alla propria abitazione e anche le forme di socialità morbida e collaborazione che sono tipici di questi spazi.

2.10 Un sistema aperto e collaborativo di innovazione

Emerge con forza dal dibattito degli ultimi anni (si vedano ad esempio le “città creative” di Richard Florida), la necessità che la città risulti attrattiva non tanto per le imprese o gli investimenti – che sono tradizionalmente l’oggetto delle politiche economiche urbane – quanto per le persone, ‘creative’, di talento o istruite, che poi fanno impresa, creano valore, occupazione e lo redistribuiscono a favore della città. Tale idea ha anche molte problematicità perché rischia di accentuare il dualismo e gli squilibri sia tra città che all’interno della città, come ha dovuto ammettere recentemente lo stesso Florida. Fatto sta che l’attrattività di una città nei confronti dell’esterno è difficilmente distinguibile dalla sua attrattività per chi già ci vive, che è una questione di vivibilità, di prospettive e opportunità, ma anche di costo della vita, condizioni occupazionali, disponibilità di servizi e di spazi, ovvero gli stessi problemi ‘fondamentali’ di cui si è discusso nei paragrafi precedenti.

L’innovazione non si produce solo nelle grandi imprese ad alta intensità tecnologica o nelle grandi strutture e infrastrutture di ricerca, ma è spesso l’esito – in particolare nelle grandi città – di un articolato e diffuso ecosistema sociale fatto di relazioni, per buona parte informali, incontri spesso casuali, diversità, ibridazioni. Se poi i benefici dell’innovazione che si produce nelle grandi organizzazioni, in particolari private, sono molto spesso ‘catturati’ all’interno delle stesse organizzazioni che li producono, le forme di innovazione e di creatività diffusa si sostanziano in esiti più aperti e collaborativi di “produzione sociale” della conoscenza. Le componenti più strutturate e più avanzate del terziario e del manifatturiero romano, il frammentato tessuto delle piccole e medie imprese innovative, e le esperienze diffuse descritte nel paragrafo precedente, devono essere oggetto di una strategia comune, anche per favorire la collaborazione. Le politiche locali e regionali sono fondamentali per promuovere tale dialogo e per valorizzare e diffondere le esperienze migliori.

Il soggetto pubblico ha poi un ruolo fondamentale nel sostegno al processo innovativo, in particolare nella ricerca di base, che è propedeutica all’avanzamento delle conoscenze e allo sviluppo tecnologico. Le sinergie tra soggetto pubblico, università e sistema produttivo sono strategiche per tradurre tale sforzo innovativo in spin-off e iniziative imprenditoriali, e per sostenerle oltre la fase di start-up, che è una delle maggiori criticità dell’economia romana. Uno degli obiettivi prioritari dovrebbe poi essere quello di una “specializzazione intelligente” che ‘avvicini’ la ricerca e l’innovazione che si produce nell’ampio sistema pubblico e privato della ricerca a quella che viene utilizzata nelle imprese romane, nel senso di rendere i due ambiti maggiormente coerenti e le loro relazioni (di conseguenza) più intense.

2.11 Specializzazione o diversificazione?

Non è possibile in queste pagine entrare nel merito di ciascuno dei settori che caratterizzano l’economia romana, delle loro problematiche e potenzialità, al di là di alcuni accenni. In termini di strategia complessiva, l’opzione è in primo luogo evitare di inseguire modelli estranei alla struttura economica locale per curarsi innanzitutto di quello che Roma è – del suo potenziale endogeno – piuttosto che di quello che dovrebbe essere, ovvero dei settori che la caratterizzano maggiormente in termini quantitativi ma soprattutto qualitativi. È indispensabile però, allo stesso tempo, promuovere una graduale e progressiva diversificazione. Le città devono infatti continuamente rinnovare il proprio portfolio di attività economiche per scongiurare il rischio di obsolescenza, rispondere alla feroce concorrenza o a crisi settoriali o globali. La letteratura su economia urbana, specializzazione e la cosiddetta “related variety”, mostra come il processo di diversificazione non possa che essere ‘inerziale’, ovvero a partire dalle specializzazioni presenti, e ‘correlato’, ovvero in nuovi settori affini a quelli esistenti. Non sempre avviene ‘naturalmente’, e l’economia romana non è certo particolarmente dinamica. Il processo di ristrutturazione post-industriale ha finito, come detto, per affievolirsi e premiare settori a basso valore aggiunto e generici. La base economica, al di là di alcune eccellenze, non è stata in grado di costruire reti e partenariati intra- e extra-regionali, essenziali per evitare i lock-in cognitivi che frenano l’adattamento. È molto difficile ma è altrettanto necessario, in questo quadro, governare e promuovere le sinergie interne ed esterne, i canali di incontro formali e informali tra imprenditori, centri di ricerca e terziario specializzato, a tutti i livelli, anche rinnovando nelle funzioni e nelle pratiche quelli già esistenti (cluster, organizzazioni di categoria, camere di commercio).

Le politiche industriali devono inoltre superare la logica distributiva di sussidi alle imprese senza un vero progetto, e vincolarli, per esempio, all’adozione di key enabling technologies, come nel Lazio si è sperimentato nel settore dell’agri-food e dell’audiovisivo. Le politiche pubbliche – incluso il Recovery Plan – tendono poi a premiare le aziende più mature e più grandi, e quindi a rafforzare le specializzazioni esistenti. Di contro, interventi di sostegno diretti a centri di ricerca universitari ed enti no profit, se coordinati con il sistema produttivo, tendono a favorire in maniera più incisiva la diversificazione e le innovazioni radicali (Mazzucato, 2013).

2.12 Governare il turismo

Di quello che, a nostro avviso, è il problema più urgente in tema di governo del turismo, ovvero la diffusione e l’assenza di una regolamentazione specifica per gli affitti brevi e le piattaforme digitali di intermediazione, si è già parlato nel dossier di Roma Ricerca Roma sull’abitare. E non a caso, perché la turistificazione è a nostro avviso innanzitutto un problema di compatibilità tra diverse forme dell’abitare più o meno temporaneo della città.  È sconfortante, per questo, constatare che a fronte delle profonde trasformazioni indotte dal turismo, le politiche turistiche si esauriscano quasi esclusivamente in mere operazioni di promozione e marketing, spesso goffe e inefficaci. L’obiettivo di attrarre più visitatori possibili prevale sistematicamente su qualsiasi altra considerazione relativa ai notevoli impatti che, oltre agli innegabili benefici, esso comporta per la città e per le zone maggiormente interessate. Il problema è che tali benefici sono concentrati mentre i suoi costi sono diffusi (congestione, aumento del costo della vita e dei servizi, trasformazioni urbane, esternalità), e solo in minima parte compensati dalle maggiori entrate fiscali, incluso il contributo di soggiorno, la cui finalità e destinazione vanno ripensate, nel senso innanzitutto di compensare i costi diretti (rifiuti, servizi, ecc.) e indiretti (costo della vita, emergenza abitativa, ecc.) che il turismo implica per la città.

Le politiche di promozione devono poi smettere di promuovere l’immagine di Roma nel suo complesso, utilizzando i suoi asset più noti, e agire energicamente sia per promuovere luoghi di fruizione turistica secondari sia per attrarre segmenti di domanda che per loro natura consentono un maggiore equilibrio e benefici diffusi in termini sia sociali che spaziali. In questa direzione si muove, in parte, il programma di investimenti “Caput Mundi” a cui accenna la bozza di Recovery Plan, in vista del prossimo Giubileo.

A Roma si parla, d’altro lato, spesso, di un turismo “ricco” – di lusso, congressuale, ecc. – che dovrebbe sostituire segmenti più poveri, su basi spudoratamente classiste. La qualità del turismo non si misura da quanta ricchezza porta, ma da come tale ricchezza si distribuisce lungo la catena del valore, quanta ne rimane sul territorio, dove, chi se ne appropria, come i diversi turismi si integrano nella vita economica e sociale della città. A chi giova, per esempio, un turismo ricco che si svolga all’interno di ‘enclavi’ all’interno delle quali i clienti soddisfano la gran parte dei propri bisogni? Principalmente ai grandi gruppi, spesso di proprietà non locale, che dominano questi segmenti del mercato. La logica della crescita a tutti i costi e quella opposta della demonizzazione del turismo possono trovare una sintesi sulla base di una discussione seria di quanto e quale valore i diversi turismi producono per la città, come è avvenuto in molte altre città del mondo e perfino, recentemente, in Italia, a Bologna, Firenze, Venezia.

2.13 Governare il commercio

Il tessuto commerciale romano ha subito un processo di impoverimento sia quantitativo – molte attività commerciali sono in crisi e molti spazi commerciali sono vuoti – che qualitativo: è il caso del commercio di bassa qualità destinato ai turisti, della scomparsa delle botteghe storiche, dell’artigianato, delle librerie, ecc. Come detto l’area metropolitana si è inoltre popolata di un numero spropositato di grandi centri commerciali che tolgono clienti alle strutture più piccole e sono spesso anch’essi in crisi. Gli effetti della pandemia sono devastanti. Sono necessari per questo interventi di sostegno che dovrebbero perseguire, si auspica, non solo l’obiettivo della sopravvivenza ma anche quello della riqualificazione dell’offerta.

Nulla dà forma e anima alla città, non solo dal punto di vista economico, più del suo tessuto commerciale. Sconfortante è l’idea di città che sottende invece alla diffusione di grandi ‘cattedrali’ commerciali nel ‘deserto’ periurbano: privatizzazione e recinzione dello spazio pubblico, iper-dipendenza dalla mobilità privata, dominio delle grandi catene e dei grandi marchi (che poi caratterizza anche le zone commerciali nella città consolidata). L’occasione sarebbe propizia per, da un lato, riorientare l’azione pubblica a favore del commercio di qualità e di vicinato, e d’altro lato per recuperare spazi di governo che vadano al di là dei grandi eventi localizzativi. Le successive liberalizzazioni hanno legittimamente smantellato il precedente regime vincolistico – autorizzazioni, licenze, limitazioni merceologiche, verifiche di adeguatezza, distanze minime tra esercizi simili – ma hanno lasciato le amministrazioni inermi. La libertà di iniziativa ha finito per prevalere su qualsiasi altro principio tranne che quello della tutela, la quale consente qualche margine di intervento solo nelle aree di maggior pregio storico-architettonico. La legge 222 del 2016 ha tuttavia reintrodotto degli strumenti di governo, che concorrono nel delineare un nuovo ruolo per l’amministrazione che non sia meramente autorizzativo ma di pianificazione e di orientamento; ruolo però che è stato molto raramente intrapreso.

 

2.14 Regolare e tassare la rendita

La questione fiscale in ambito urbano è complessa e problematica. Il Lazio è la Regione con le addizionali Irpef più alte (circa il 50% in più della media italiana) e che hanno registrato i maggiori aumenti negli ultimi anni. È inoltre una delle prime Regioni per livelli di imposizione sulle imprese, il che come detto è uno dei motivi della “fuga da Roma” di molte aziende. D’altro lato in Italia come noto la tassazione degli immobili non si applica alla prima casa e quella sui patrimoni o sulla rendita è estremamente blanda. Si tratta di questioni fiscali di competenza prevalentemente statale, sulle quali però Roma dovrebbe esprimere la propria voce.

Alcuni economisti urbani hanno proposto un’imposta fondiaria sul valore del suolo che sostituirebbe quella sugli immobili, si rivaluterebbe automaticamente all’aumentare di tale valore, e favorirebbe città più compatte, con benefici in termini di riduzione del traffico e dello sprawl, densificazione delle zone di maggior valore e quindi agglomerazione urbana, che per questi studiosi è un imprescindibile dispositivo di produzione di ricchezza. Un’opzione collegata è appunto la densificazione: una sorta di approccio di mercato all’emergenza abitativa – aumentando l’offerta, si ridurrebbero i prezzi delle abitazioni. La densificazione, in particolare intorno ai nodi esistenti del trasporto pubblico, è un’opzione valida per una città frammentata come Roma (Crisci, 2018), che anche il Comune ha dichiarato di voler perseguire. Laddove tuttavia tale densificazione non sia mirata, appropriata e basata sul migliore utilizzo del patrimonio immobiliare esistente, rischia di indurre devastanti trasformazioni urbane e limitarsi alle aree di maggior valore, promuovendo quindi ulteriore concentrazione della ricchezza e gentrification. La conversione in abitazioni di uffici eventualmente liberati dall’accresciuto ricorso al lavoro a distanza potrebbe essere d’aiuto in questo senso, ma si tratta di immobili prevalentemente in zone accessibili e di pregio, il cui costo non potrà quindi che essere elevato. È anche qui necessaria un’attenta e intelligente azione pubblica.

Dal punto di vista fiscale, come proposto altrove (Celata et al., 2020), a Roma sarebbe quanto mai appropriata una sostanziale tassazione progressiva sugli alloggi vuoti, che è stata sperimentata in Francia, dove può arrivare fino al 15% del valore locativo potenziale. In Italia se ne è iniziato a discutere in termini di rimodulazione dell’IMU nell’ambito di una recente proposta di legge sulla rigenerazione urbana; ma è una proposta timidissima. Sarebbe opportuno tassare pesantemente le unità immobiliari sottratte alla residenzialità, che sono destinate agli affitti brevi, o che sono tenute vuote perché oggetto di speculazioni o immobilizzazioni di capitali, o perché i proprietari non hanno bisogno e preferiscono non locare per non incorrere nei rischi di morosità o di altro tipo connessi all’affitto a lungo termine. Si amplierebbe in particolare il mercato degli affitti che ormai come detto riguarda una quota del tutto minoritaria dello stock immobiliare, e che nelle aree centrali è quasi del tutto erosa dall’enorme diffusione degli affitti brevi.

È necessario più in generale governare e regolare la rendita, ovvero gli incrementi dei valori immobiliari e fondiari che derivano dallo sviluppo della città e da investimenti pubblici (quali quelli sulle reti di trasporto pubblico) e di cui i proprietari si appropriano senza merito. In questi casi è necessario innanzitutto intervenire ex-ante. In molte città, laddove possibile – per esempio nel caso di nuove urbanizzazioni – si procede preventivamente all’acquisizione pubblica dei suoli interessati, proprio per evitare che gli aumenti di rendita siano poi appropriati dai privati. Nelle zone già urbanizzate è necessario evitare che tali incrementi comportino fenomeni di gentrification e l’espulsione degli abitanti a più basso reddito, prevedendo specifiche politiche abitative e servizi che trattengono nell’area queste fasce di popolazione. Tali interventi possono essere finanziati prevedendo, ex-post, che almeno parte di tali incrementi di rendita siano oggetto di tassazione; una sorta di nuovo contributo di miglioria (Tocci, 2020). È necessario poi da un lato aggiornare i valori catastali che oggi continuano a favorire i quartieri più centrali e, per le nuove costruzioni, aumentare sensibilmente gli oneri di concessione dovuti dai proprietari al Comune, che attualmente rendono Roma e l’Italia una sorta di “paradiso fiscale della rendita” e forniscono incentivi perversi (Ibidem).

Infine, il discorso sulla cosiddetta web tax ha anche una dimensione locale ed è in corso altrove un interessante dibattito sulla necessità di riequilibrare quanto le piattaforme digitali – soprattutto l’e-commerce, ma anche i delivery o le già citate piattaforme turistiche – prendono e danno alle città. Il settore delle piattaforme digitali e quello più specifico delle consegne è poi oggetto a diverse scale – da quella europea e quella locale – di dibattiti, vertenze e innovazioni normative e regolamentative; l’obiettivo al quale anche Roma deve concorrere è andare oltre la “legge della giungla” che ha consentito a queste piattaforme di prosperare grazie a un modello monopolistico, feudalistico ed estrattivo.

2.15 Sostenere il reddito o rigenerare le periferie?

Le opzioni fiscali discusse nel paragrafo precedente consentirebbero entrate che dovrebbero essere destinate al contrasto delle condizioni di marginalità urbana e sociale, per compensare i vantaggi di agglomerazione di cui godono le aree di maggior valore. Per i quartieri dove si concentra il disagio sono necessari interventi, da un lato, di sostegno al reddito e, d’altro lato, di rigenerazione urbana. Ma quale delle due opzioni è preferibile?

È in corso in questi anni un acceso dibattito tra i sostenitori un approccio “basato sulle persone” ovvero di sostegno al reddito, e un “approccio basato sui luoghi” che punta al miglioramento delle condizioni di contesto attraverso la riqualificazione, investimenti produttivi, il miglioramento dei servizi. Entrambi gli approcci hanno le proprie problematicità. L’approccio basato sulle persone rischia di tradursi in mera assistenza e, inoltre, di non riuscire a stare al passo con i nuovi bisogni e le nuove marginalità che si sviluppano nella città contemporanea. L’approccio basato sui luoghi incorre invece in quello che possiamo definire il paradosso della rigenerazione: qualora abbia successo rischia semplicemente di spostare la marginalità altrove. Una critica ancora più radicale è che in tutti questi casi non si fa altro che intervenire sui sintomi del problema e non si affrontano le cause strutturali delle disuguaglianze.

In queste pagine ci limitiamo a delineare i contorni del problema, anche perché il dibattito è quanto mai aperto. In linea con l’evoluzione del dibattito, suggeriamo un appropriato mix e soprattutto un attento coordinamento dei due approcci. Non è possibile, infatti, curarsi delle persone e ignorare i luoghi, dal momento che “la geografia è destino”: le opportunità sociali ed economiche non dipendono solo dalle condizioni familiari di partenza ma anche dal luogo nel quale si vive. Non è possibile, d’altro lato, ed è pericoloso rigenerare i luoghi senza curarsi di chi ci abita. Una politica per le periferie, non può in altre parole limitarsi a una politica nelle periferie, come spesso invece si sostiene nel dibattito sul tema (“ripartiamo dalle periferie”). Il contrasto alle disuguaglianze richiede interventi su tutte le dimensioni del problema e non solo a scala locale, quali quelli suggeriti dal Forum Disuguaglianze e Diversità. A Roma si investe comunque troppo poco in rigenerazione e il Recovery Plan può rappresentare un’opportunità; a cominciare dal già citato Ecobonus, se la riqualificazione degli edifici è mirata ai luoghi nei quali è più necessaria e inserita in programmi più ampi che riguardino interi quartieri o pezzi di quartieri nelle loro componenti fisiche e sociali.

È necessario ai fini di tutto questo rimettere la questione abitativa al centro dell’agenda politica, come discusso nel dossier abitare, agendo non solo sul piano sociale (edilizia popolare, agevolazioni sugli affitti) ma anche su quello spaziale per promuovere tessuti residenziali misti sia al centro che nelle periferie, con esiti positivi in termini di mobilità sociale e di efficienza economica complessiva.

Accanto alla crisi abitativa, l’obiettivo prioritario deve essere il sistema scolastico e di formazione, che è uno dei dispositivi più potenti di (ri)produzione o, al contrario, di contrasto delle disuguaglianze. Le politiche di razionalizzazione della spesa pubblica, il decentramento, l’autonomia scolastica così come la crescente competizione tra scuole e i sistemi di valutazione delle loro performance, per non parlare delle sovvenzioni alle scuole private, hanno contribuito ad ampliare il divario tra istituti scolastici, penalizzando in particolare quelli in aree più disagiate (Celata e Lucciarini, 2016). Il risultato è un circolo vizioso di peggiori opportunità formative e relazionali e quindi lavorative e economiche, che non solo riproduce le disuguaglianze ma attivamente determina una crescente polarizzazione delle opportunità. Il sistema educativo romano – dalle scuole all’università – non ha bisogno di poche eccellenze ma di qualità diffusa. Il diritto a una formazione di qualità è un principio costituzionale che deve essere garantito a tutti, a prescindere delle condizioni di partenza, per il quale le risorse disponibili sono drammaticamente insufficienti. Va data priorità e vanno attentamente coordinati in quest’ottica, oltre che mirati alle aree della città più problematiche, i diversi interventi che il Recovery Plan prevede in ambito educativo e scolastico: digitalizzazione, miglioramento degli edifici, contrasto all’abbandono, inclusione, scuole aperte.

Conclusioni

Il cambiamento delineato in queste pagine va al di là delle proposte che abbiamo avanzato, e perfino al di là del caso specifico di Roma. Negli ultimi decenni le città sono state private non solo di risorse ma di visioni e leve che vadano al di là di quelle meramente mercatiste e economico-finanziarie. Il mantra per il quale “non ci sono risorse” e “non ci sono strumenti” è diventato più che una constatazione dello stato di fatto una sorta di profezia auto-avverante che ha attivamente ridotto le capacità di governo, sullo sfondo dell’idea per la quale “non ci sono alternative”. Le alternative esistono. Gli strumenti anche. E perfino le risorse, come si è detto: sia quelle ordinarie, sia quelle straordinarie, a cominciare dal Recovery Plan. Roma mostra però anche un preoccupante e rilevantissimo problema di incapacità di spesa. Tale incapacità di spesa, a sua volta, non attiene soltanto alle difficoltà procedurali che determinate politiche pubbliche implicano, o all’immobilismo che è seguito all’inchiesta Mafia Capitale, ma a una sostanziale carenza di progettualità che a Roma è particolarmente evidente, sullo sfondo di una crisi di significato che è allo stesso tempo causa e effetto della crisi del valore. Per questo cambiare paradigma è più importante dell’individuazione di specifiche proposte o priorità di intervento: è il pre-requisito per l’efficacia di qualsiasi proposta o intervento.

Le città sono divenute centrali in un’economia sempre più orientata all’informazione e alla conoscenza non solo perché contengono funzioni e accumulano ricchezza, ma in quanto dispositivi che favoriscono la socialità, le contaminazioni, le diversità. Se interpretata da un punto di vista economicistico, la stessa economia che ha reso ricche le nostre città – in tutti i sensi – crolla. È necessaria una ri-significazione complessiva di cosa vuol dire perseguire l’interesse pubblico in questo ambito (come in altri), e su queste basi dare un nuovo senso al ruolo dell’azione collettiva.

L’incapacità di Roma di allinearsi alle dinamiche tipiche di altre grandi città può essere in questo senso non già un elemento di debolezza, ma un’opportunità che concorre, unitamente alla gravità della situazione, alla necessità di sperimentare proprio qui un’idea alternativa e radicale di economia urbana.

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