di Carmelo Caravella, Piero De Chiara, Giulio De Petra

Si fanno molti racconti seducenti sui grandi vantaggi del lavoro da casa. Scelta obbligata da quando è esplosa la pandemia. Scelta che prima della crisi sanitaria era limitata a pochi e veniva chiamato lavoro “agile”.
Narrazioni che non fanno i conti con la condizione delle molte e dei molti costrette e costretti a lavorare in case non adeguate, senza più separazione tra tempi di vita e tempi di lavoro.
Tuttavia l’accelerazione determinata dalla crisi sanitaria non è reversibile perché ha contribuito ad abbattere alcune barriere inerziali di comportamento che avevano finora frenato tendenze evidenti nella riorganizzazione digitale delle imprese. Il precedente modello era già in crisi stretto tra la spinta centrifuga verso il lavoro “a domanda” e quella centripeta che concentra controllo e potenza di calcolo al centro dell’impresa e, più su, in poche aziende globali.
A richiedere profondi cambiamenti saranno anche le forme e gli strumenti della negoziazione sindacale. Non basterà provare a contrattare, come pure sarà necessario fare, azienda per azienda, lavoratore per lavoratore, le modalità del lavoro da remoto. Serve la capacità di organizzare nuove relazioni che provino a unificare ciò che appare estremamente individualizzato, ma che ha alla sua base una nuova e inedita uniformità nella forma e nelle condizioni del lavoro. Già oggi infatti i dispositivi di controllo del lavoro da casa sono molto simili alle piattaforme che governano e gestiscono il lavoro individuale ‘non dipendente’.
Una proposta per ospitare sul territorio il lavoro da remoto
I rapporti di forza in questo negoziato potrebbero migliorare se il sindacato (vedremo poi con quali alleati) saprà inventare e introdurre una terza possibilità tra lavoro in azienda e lavoro a casa.
Per evitare il termine co-working, che storicamente ha riguardato prevalentemente i lavoratori autonomi di terza generazione, chiamiamole per ora “officine municipali” un aggettivo che comprende sia i quartieri delle grandi città che i piccoli comuni.
Una “officina municipale” è uno spazio di lavoro raggiungibile a piedi o in bicicletta, sicuro, ben attrezzato e ben connesso. Al suo interno potranno lavorare, su base volontaria, tutti coloro che siano costretti a lavorare da remoto, ma non vogliano o non possano utilizzare a tale scopo la propria casa. La sua organizzazione e i servizi comuni di cui sarà dotata l’officina municipale saranno l’esito di una negoziazione tra tre tipi diversi di interessi, quello delle imprese, quello delle comunità territoriali, quello dei lavoratori.
L’interesse per le imprese è relativo prevalentemente a ragioni di contenimento dei costi, legato anche al perdurare e al rinnovarsi dell’emergenza sanitaria. Riconvertire fabbriche e uffici dagli open space attuali ai nuovi standard previsti dalle autorità pubbliche e concordati con i sindacati è oneroso in termini di investimento. I costi operativi per ciascuna postazione di lavoro aumentano in media di circa il 30%. Ma quel che è ancora più rischioso sono i costi di investimento, i cui ammortamenti non sono prevedibili perché soggetti al variare della attuale crisi epidemiologica e di quelle future.
L’interesse per le comunità territoriali riguarda molteplici aspetti: Nell’ambito dei trasporti, perché aumentare la quota di spostamenti a piedi e in bicicletta da e verso il lavoro, alleggerisce il peso sul traffico (e sull’inquinamento ambientale) e consente di applicare meglio eventuali norme di distanziamento nel trasporto pubblico. Nell’ambito della salute, la progettazione, certificazione, pulizia e controllo di spazi di nuova concezione, può portare inoltre ad un più efficace rispetto delle regole attuali di distanziamento necessarie per le postazioni e le aree comuni. Molto di più rispetto a uffici aziendali nati con altre caratteristiche. Ma ciò che più ci interessa mettere in evidenza sono gli effetti collaterali, che possono avere grande valore economico e sociale: la rivitalizzazione dei quartieri, e la rivitalizzazione delle aree interne.
Il modello di città divisa tra un centro amministrativo, turistico e culturale, un’area industriale e i quartieri residenziali aveva dimostrato gravi problemi anche prima della crisi sanitaria. Numerose metropoli hanno avviato una ripianificazione per ribilanciare in tutti i quartieri le diverse attività. L’esempio forse più avanzato è il machizukuri di Tokyo che prevede in ciascun quartiere la presenza di una o più Daily Activity Area (DAA). Ma gli esempi sono molteplici, perché il problema è ormai diffuso e discusso in tutto il mondo.
Altrettanto significativa per le caratteristiche peculiari del nostro paese è la rivitalizzazione delle aree interne. Lo spopolamento delle aree interne è problema noto e connesso con la distribuzione delle occasioni di lavoro. Stefano Boeri e altri urbanisti hanno già sostenuto che la crisi sanitaria può essere una occasione per invertire la tendenza. C’è però il rischio che il ritorno ai borghi antichi, sia un privilegio per benestanti; soprattutto resta la difficoltà e il costo di garantire adeguate connessioni FTTH o FWA nelle aree interne, a cui l’allestimento delle officine municipali potrebbe dare un contributo positivo.
Inoltre la connessione domestica è fortemente asimmetrica verso il download prevalente nell’intrattenimento. La connessione stellare delle Officine Municipali consentirebbe invece prestazioni quasi simmetriche anche per l’upload necessario per molte prestazioni lavorative, specie nel prossimo futuro.
Ma è l’interesse dei lavoratori quello determinante per promuovere e caratterizzare la proposta delle “Officine Municipali”. Senza il coinvolgimento attivo delle organizzazioni dei lavoratori nella loro ideazione, progettazione, realizzazione e gestione le “Officine Municipali” si ridurrebbero a tradizionali centri di telelavoro o a spazi di coworking come già disponibili in alcune città italiane.
Gli interessi dei lavoratori riguardano I tempi di lavoro, che in questi mesi di lavoro da casa si sono estesi lungo tutto l’arco della giornata, invadendo e strutturando sulle necessità del lavoro i tempi di vita. Inoltre, soprattutto per le donne, questa integrazione di spazio di vita e spazio di lavoro ha significato la saturazione di ogni disponibilità di tempo e la somma di lavoro produttivo e lavoro di cura e di riproduzione sociale.
Nel secolo scorso tornare a casa dopo otto ore è stata la più grande conquista per gli uomini; uscire di casa per andare al lavoro, la più grande conquista delle donne.
Il tempo di lavoro, e di connessione, potrebbe essere più facilmente limitato al tempo trascorso nei locali della “officina municipale”.
Gli interessi di chi lavora riguardano anche la possibilità di ricomposizione sociale, perché lavorare in sicurezza accanto ad altri lavoratori impegnati nella stessa forma di lavoro consente di non sentirsi individui isolati nei confronti dell’azienda (e della piattaforma di controllo del lavoro), ma parte di una comunità che pratica la stessa esperienza di lavoro a distanza, con caratteristiche e bisogni analoghi.
Questa ricomposizione potrebbe favorire una ricomposizione più ampia, finora praticata con grande difficoltà dal sindacato, che è quella tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, qui accumunati da una stessa forma di prestazione lavorativa, capace di svelare sia la falsa autonomia del lavoro indipendente, sia la falsa sicurezza del lavoro dipendente.
È evidente che non può e non deve essere un progetto imposto dal solo interesse aziendale, con un solo soggetto proprietario e un unico modello. Nella fase iniziale sarà utile sperimentare diverse forme proprietarie (pubbliche, private, cooperative e private sociali), con diversi modelli di finanziamento (diversi mix di incentivi pubblici, quote pagate dalle imprese e dai lavoratori).
Sul lato imprenditoriale potranno essere interessate le imprese a forte cultura territoriale quali il sistema cooperativo o le Poste, che possono progettare modelli replicabili; ma anche la piccola imprenditoria locale dei co-working è in grado di studiare soluzioni che si adattano ai singoli territori.
Infine sul lato istituzionale le aree metropolitane, quelle del mezzogiorno e le aree interne dovrebbero essere le più sensibili a cambiare un modello di concentrazione del lavoro tendenzialmente insostenibile, anche prima della crisi sanitaria.
Sperimentare le Officine municipali a Roma e nel Lazio
Questa proposta, promossa dal Centro per la Riforma dello Stato e dal Forum Disuguaglianze e Diversità, ha suscitato interesse in diverse contesti territoriali, ciascuno dei quali l’ha rielaborata in base alle proprie caratteristiche e condizioni di partenza.
A Napoli è stato integrata con una proposta rivolta agli studenti che rischiano la dispersione perché impossibilitati a svolgere da casa la didattica a distanza. A Torino ha incrociato l’esperienza delle case di quartiere, che già sono luogo di incontro e cultura territoriale. A Milano ha interessato un tessuto associativo che ha già sviluppato forme negoziali con l’amministrazione. In Puglia va adattato all’abnorme pendolarismo da comuni di dimensioni medio-grandi verso i capoluoghi di provincia.
Ma Roma e il Lazio sono fenomeni unici, dove la modifica della densità del lavoro appare ancora più difficile e urgente.
Un primo passo importante è stato fatto dalla Regione Lazio che a fine dicembre ha inserito le “Officine territoriali” all’interno delle Linee di indirizzo per i Fondi europei 2021-2027, prevedendo anche la messa a disposizione di spazi e immobili di sua proprietà.
Per trasformare questa disponibilità istituzionale in sperimentazioni operative, si può partire con una mappatura del luogo di residenza dei dipendenti pubblici (a partire da quelli regionali) per identificare alcune aree di concentrazione, almeno una delle quali in un medio comune del Lazio, una fuori GRA, una in un quartiere romano semiperiferico. Una volta verificato l’interesse volontario dei dipendenti a utilizzare la nuova struttura vicina alla loro residenza occorre identificare eventuali immobili disponibili e fare un bando pubblico per la gestione, la quale deve prevedere le condizioni di utilizzo anche da parte di dipendenti di imprese private, di lavoratori autonomi e per eventuali altri utilizzi culturali e associativi. Grazie a un forte nucleo di dipendenti pubblici, si potrebbero determinare condizioni di utilizzo dei nuovi spazi attrezzati molto interessanti anche per i lavoratori autonomi e per quelli dipendenti di imprese private.
Particolarmente interessante è infine la convergenza tra le officine municipali ed altre esperienze di riutilizzo sociale, produttivo e culturale di spazi pubblici che a Roma sono già attive in alcuni municipi, e l’intersezione con le reti di mutualismo che in questi mesi di crescente sofferenza sociale hanno sviluppato e consolidato nuovi ed efficaci modelli di cooperazione e di servizio.
Questa è una proposta molto importante, per la mobilità sostenibile e per i tempi di vita. Credo che sarebbe ancora più umanamente attraente se queste officine non fossero limitate alla sola attività lavorativa, ma utilizzate anche come spazi di socializzazione per associazioni, sindacati, movimenti e partiti politici. Un tempo c’erano le case del popolo, o edifici adibiti agli associazionismi ( di cui restano pochi e scarsi resti quasi preistorici). Ora le officine potrebbero ricostruire un tessuto associativo perso con la frantumazione del lavoro mettendo insieme realtà diverse e favorendo nuove forme di partecipazione; una tale estensione toglierebbe alla nuova forma di lavoro lo spettro di una vita in un ambiente asettico e freddo costituito di individui su computers che parlano in remoto ma non con il vicino. Sarebbe un aiuto alla democrazia. Si potrebbe pensare ad una città suddivisa in municipi divisi in quartieri aventi ciascuno un centro ( o più centri se il quartiere è grande) con una piazza di incontro e una officina municipale. Sparsi per il quartiere, sarebbero asili nido, scuole, centri anziani, servizi sanitari ecc.