Autore

Alfredo Morganti

Una città che parla, che succede. Su Romarcord di Francesco Cardelli, Ed. Quodlibet.

E se la città esistesse solo nella memoria? O nel passato? E se la città non avesse un’attualità? Se quella che vediamo davanti ai nostri occhi, ogni giorno, non fosse una città, ma qualcosa destinato a esserlo solo nei prossimi anni o decenni, in virtù della capacità della memoria di dare ordine e identità a un magma di cose senza nome collettivo? Domande legittime, soprattutto dopo aver letto il libro di Francesco Cardelli, Romarcord (Quodlibet, 2021). Cardelli ripercorre la sua biografia e la fa coincidere con quella della sua città, Roma. Compie il prodigio di sovrapporre storia personale e storia (anzi cronaca) urbana. Lo fa con stile asciutto, aggraziato, essenziale, privo di particolari ornamenti retorici, se non qua e là. Quasi un non stile. Privilegia, in certi passaggi, la forma dell’elenco di cose (cibi, sale cinematografiche, luoghi, mestieri, persone…), inanellate quasi senza una gerarchia, se non quella suggerita da una sorta di istantaneo percorso mentale. Roma, così, prende la forma di questi elenchi e si apre sequenzialmente dinanzi a noi, nome per nome, cosa per cosa, strada per strada, secondo un percorso apparentemente lineare, ma sempre incurvato, labirintico (“la nostra è una città che rifugge l’angolo retto […] Roma è un continuo labirinto di strade”). Cardelli, privilegiando il filo della memoria, procede passo passo, scarta a destra o a sinistra come un viandante, non indugia in una visione dall’alto, non indulge minimamente all’astrazione geometrica (“se si escludono le precise geometrie di Prati”). Il suo sguardo elenca le cose, le enumera, le mette in riga. Le cose si succedono l’un l’altra, anzi: le cose succedono, appaiono sulla scena, attendono il loro turno enumerativo, e hanno un tempo di vita, quello suggerito dalla memoria, appunto, il cui lavoro è mettere in fila e ordinare in termini esperienziali gli eventi trascorsi (personali, microbiografici), secondo una precisa fenomenologia (più che una logica) del vissuto.

In questa Roma composta di nomi (propri, comuni) che si succedono, di persone che riemergono ai ricordi e che vivono in simbiosi con la città e di numerosi e successivi micro eventi – in questa Roma non c’è spazio per certe azzardate astrazioni o per i piani, né grandi né piccoli. In questa Roma, le forme di vita traversano i luoghi, li caratterizzano, li inondano di un senso che forse essi non avrebbero affatto; e la città scambia la sua “pianta” bidimensionale, la sua pretesa di essere luogo geometrico, spazio urbano, superficie levigata, con le vite che la occupano e si impossessano pervasivamente di lei: tanto più se è una città piccola, chiusa, familiare, un mondo all’antica (così lo scrittore descrive la Roma della sua infanzia e gioventù). Una specie di orto chiuso, alla maniera di Montale, uno spazio della memoria traversato da un costante “brulichio” di anime e di cose (ancora un termine montaliano) che sono poi, di fatto, la vera città. È una città che non esiste al presente, ma solo nella memoria, sembra dirci Cardelli. Fuori del ricordo che mette ordine in questi termini rigorosamente sequenziali, è solo un grande e attuale trambusto, aggiungiamo noi, un magma apparentemente privo di un assetto – e che attende una ri-soluzione per gli anni futuri, quando si tramuterà in passato e potrà essere finalmente messo in forma, acquisendo così un senso.

La città è linguaggio. Lo si è detto innumerevoli volte. Wittgenstein, in un passaggio molto noto, la paragonò proprio a quest’ultimo. Il linguaggio è costituito di innumerevoli registri, usi, idiomi, inflessioni, sistemi lessicali e sintattici, che si accostano e interagiscono nello spazio e nel tempo; così come la città si compone di quartieri, che si assommano l’uno all’altro, spesso senza un piano preciso. Il linguaggio dà forma alla città, la adorna, la struttura, la fa parlare, la presenta come un “gomitolo” di detti e contraddetti (“Non ho voglia/ di tuffarmi/ in un gomitolo/ di strade”, scrisse Ungaretti). La città parla, dichiara, dice, proferisce, afferma e nega. “Era diffuso a Roma il detto: ‘Nun se frega ar santaro’”, racconta Cardelli. Sono proverbi, modi dire, luoghi comuni, locuzioni popolari, frasi celebri, perle di saggezza che della città sono una specie di intelaiatura linguistica, che la memoria tramanda quasi intatti di generazione in generazione. “Papale papale” si dice di chi parla chiaro, e poi “ogni morte di Papa”, “morto un Papa se ne fa un altro”, “starsene da Papa”: sono alcuni detti sul Pontefice, che Roma ripete instancabilmente da secoli. È anche su questi detti, su questa trama linguistica, che la città poggia e su cui si consolida per consegnarsi al ricordo. Brandelli di lingua, locuzioni, voci di popolo, saggezza minuta oralmente trasmessa, lessico urbano che pervade la città intesa come labirinto di anime e di parlanti, non come inerte e vuoto spazio urbano. Se la città si mostra satura di linguaggio, ciò vuol dire, naturalmente, che essa si compone ancor prima di parlanti, di persone, e che il linguaggio cui si accenna è quello per antonomasia, il linguaggio delle donne e degli uomini, piuttosto che, semplicemente, quello della scienza, della tecnica, dell’architettura o dell’urbanistica. È un errore cedere alla suggestione del silenzio, quando si sta parlando di una comunità di persone.

In una brillante interpretazione di un verso di Pasolini (“Non si piange su una città coloniale”), proprio in apertura del suo bel libro Roma come se (Donzelli, 2020), Walter Tocci lo interpreta in modo molto suggestivo, e spiega che “il non detto [del verso pasoliniano] è Roma, come se per il poeta parlarne esplicitamente comportasse un irrigidimento della meditazione” (c.n.). Roma non è “detta”, quindi, Roma viene taciuta, messa tra parentesi, confinata nel silenzio per non irrigidire la meditazione; la riflessione ha bisogno di stendere un velo ovattato sulla caciara della città, nemmeno nominandola. Ha bisogno di ignorare e azzerare, esagero io, la lingua che pure la traversa, quel “brulichio” di conversazioni, di detti e contraddetti, quella ridda di cose, voci parole e persone, che ne costituiscono invece, a leggere Cardelli, l’anima esplicativa di senso, il vivente oltre lo spazio formale. Si tratterebbe di tacere Roma, dunque, per non disturbare la meditazione, la riflessione, la teoria, la scienza della città; per non irrigidire, per non turbare la sapienza all’opera – quando invece l’Urbe è un gomitolo labirintico di parole e di strade, se facciamo eccezione del Rione Prati e di pochi altri quartieri progettati con il “righello”, come annota con efficacia Cardelli. È la volontà di silenzio, semmai, in questa fattispecie, a irrigidire il pensiero – è il non-detto che muta questa silenziosa riflessione in una teoria (e quindi in una tecnica) pronta a riallineare astrattamente e a schematizzare il labirinto di linguaggio e di strade. Una teoria, che appare infastidita, disturbata, dal “brulichio” delle persone, dal caos attuale, e che vorrebbe tirare per il futuro una riga diritta su un foglio bianco, vuoto, quale soluzione radicale, estrema, demolitoria, al dilemma dello sviluppo urbano.

Cito Bruno Zevi e la sua “controstoria dell’architettura” perché ci aiuta a capire. Scrive Zevi: “La nostra lingua architettonica […] è ipotecata da una ricerca ossessiva attinente alla simmetria, al ritmo, alla prospettiva, all’euritmia, ai rapporti tra pieni e vuoti, soprattutto alla proporzione”. “Non gli eventi mutevoli della vita, ma le alchimie del ‘numero d’oro’ governano l’insegnamento dell’architettura. […] Questi precetti concernono l’involucro edilizio, le facciate, la scatola, non gli ambienti interni e il loro uso. Trionfa la bidimensionalità […] sulla tridimensionalità […], la spazialità statica e inerte su quella coinvolta nella fruizione dei percorsi […] il disegno dei prospetti [sulla] conformazione originale delle cavità”. Ciò in nome del “forsennato ideale di produrre oggetti puri, immuni da contatti con l’esterno”. “Patiti di formalismo [gli italiani] si preoccupano più dei prospetti che degli invasi in cui si vive”. Lunga, ma stimolante citazione, per cogliere il valore della visuale da cui Cardelli racconta (e interpreta di fatto) la città. Non una narrazione formale, astratta, non un linguaggio che “svuota” la città dai suoi abitanti, e che li rende appena comprimari di uno spazio che li accoglie da ospiti indesiderati – non un’attenzione alla facciata ignorando la cavità urbana, quella che accoglie il popolo, la comunità dei viventi, le loro parole, le loro cose, i loro detti, la loro etica quotidiana! – ma la (contro) cronaca di nomi e cose, spesso enumerati in modo minuzioso, stringente, in elenchi ed eventi di vissuto senza una regola, comunque efficacissimi.

Cardelli, forse inconsapevolmente, non so, racconta una città a partire proprio dalle sua cavità, ben oltre (anzi ben dentro) l’involucro, le facciate, le planimetrie, gli spazi vuoti, le geometrie, la scienza urbana, la tecnica di ridisegno degli ambiti con cui si pretende di governare asetticamente lo spazio. È come se l’autore ribaltasse il guanto e ci mostrasse quello che contiene scatola: il caos urbano, i detti e i contraddetti, le cose, i sentimenti, la vita e la morte, in breve la ridda di umanità che abita la città – anzi, che è la città. L’odierno centro storico disabitato, il centro storico mero “fondale”, che ospita solo servizi, rappresentanze, ambasciate, è esattamente l’opposto del centro storico brulicante di vita che appare in Romarcord. Cardelli, e di questo gliene siamo grati, compie un piccolo prodigio: ci racconta con efficacia e ci fa conoscere una città narrando le sue “apparenze”, non mima le movenze delle scienze urbane – ci narra la vita, i detti, le cose minute, invisibili, la rete di relazioni umane, il transito delle persone e il formicolio di esistenze e di voci senza cui la città sarebbe mera rappresentazione formale, tratto di matita su un foglio lucido, volumetria schiacciata, orizzonte silenzioso di vita del tutto svuotato di esistenze.