Come si costruisce un ponte tra due culture? Con l’incontro. Ma nessun incontro è possibile se non ci capisce, se non si parla la stessa lingua. Il filo invisibile di “Kotha. Donne bangladesi nella Roma che cambia” di Katiuscia Carnà e Sara Rossetti (Ediesse, 216 pgg, 14 euro. Reportage fotografico di Alice Valente Visco ) è appunto la lingua, anzi le lingue. La lingua bangla che è il fondamento della lotta di indipendenza del Bangladesh dal Pakistan, la principale rivendicazione. E quella italiana, così difficile da imparare fin dall’alfabeto. Senza italiano non ci si incontra, ma per i bambini bengalesi pensare di perdere la lingua di origine, materna, è un delitto. Sì, ci sono le madrasa, le scuole coraniche nelle moschee o nei centri culturali. Ma se la scuola italiana costruisse ponti, uno di questi sarebbe un maggiore sostegno linguistico per l’inserimento iniziale di ragazzi stranieri ma anche l’insegnamento della lingua madre. Qualcuno lo fa: la scuola Pisacane a Torpignattara, ad esempio. Ma sono esempi pilota, scarsamente diffusi.
Roma e il suo hinterland ha la fortuna di avere una ricca offerta di scuole di italiano per stranieri, gratuite e gestite da volontari (http://www.scuolemigranti.org/). Ma per le donne spesso gli orari proposti non sono adatti alle donne, più libere a metà mattina che la sera o a inizio giornata. Così ci sono alcuni corsi dedicati alle donne, preziosi ma rari.
Uno sguardo dall’interno
Le due autrici raccontano le comunità femminili bangladesi dall’interno: dall’osservatorio privilegiato di madri e mogli di uomini del subcontinente Indiano e ancor prima di insegnanti di italiano a stranieri hanno intervistato – in bangla e in hindi – molte donne bangladesi di tutte le età riuscendo a restituirne lo spaccato di una realtà sfaccettata e multiforme, a volte contraddittoria. Una carrellata storica su Roma, dalle immigrazioni dopo l’unità di Italia ai giorni nostri, una breve storia del Bangladesh e le sue religioni; Carnà approfondisce il tema del pluralismo religioso, le festività e il rapporto delle donne bangladesi con il sacro. Rossetti indaga il rapporto con la lingua, anzi le lingue, grazie a molte interviste con testimoni privilegiati, docenti e discenti. Del resto Kotha, in bangla, vuol dire storia, racconto.
Particolarmente interessante il capitolo sulle ragazze, le donne di nuova generazione. Molto più legate a Roma e alla cultura italiana, senza più ormai i problemi di lingua, ma con una forte radice nella cultura e nell’identità di una nazione che, al più, hanno visitato per qualche mese.
Le ragazze e le loro radici
La condizione dell’immigrato è ibrida, un po’ la cultura d’origine, un po’ quella di accoglienza. E’ bello vedere che queste ragazze se ne fanno un vanto, un punto di forza, a volte addirittura l’occasione per uno sbocco lavorativo.
Se le giovani non sentono l’inquietudine di un’atmosfera razzista – che pure è ben presente in alcuni fatti di cronaca e nel modo con cui i media li rendono noti, oltre che nelle parole di leader politici italiani – le donne di prima generazione, venute negli anni ’70, all’inizio del fenomeno migratorio, esprimono sensazioni diverse. Sunita, mediatrice culturale, testimonia di un peggioramento anche nello spazio pubblico: “La reazione della gente è come di non sopportare più”, dice. Certo, sono peggiorate le condizioni di vita di tutti gli italiani e anche dei romani. La città è più sporca e disordinata, le occasioni ridotte. E’ cresciuta la rabbia, che non è un buon conduttore di empatia.
Donne bagladesi a Roma. La prima immigrazione era più laica, aperta. Le donne a volte vestivano gli abiti tradizionali (ma con il volto scoperto), a volte no, certo non le bambine e le giovanissime. Poi qualcosa è cambiato: forse per l’attivismo delle madrasa e della predicazione nelle moschee, l’hijab (il velo che nasconde i capelli, come quello delle suore) e il nikab (il velo che nasconde il corpo, la testa e il viso lasciando un’apertura per gli occhi) cominciano a farsi vedere più spesso. Un segno identitario forse per le donne adulte, ma non per le bambine. Che in Bangladesh come in molti altri paesi musulmani non si coprono testa e viso fino alla pubertà.
Il peso della comunità è forte, se Mariam si vela in Italia, ma quando va in Bangladesh o fuori Italia invece no. Nel suo caso non è la fede religiosa a persuaderla a questa scelta, ma il timore dei pettegolezzi nella comunità bengalese romana: come se lei, proveniente dalla capitale Dacca, si trovasse in un villaggio sperduto e arretrato del Bangladesh invece che in una capitale d’Europa.
Il ruolo delle famiglie
Quello che questo libro mette in luce è il ruolo della donna bengalese immigrata nella famiglia. Spesso il matrimonio è combinato, organizzato dalle famiglie in patria e poi celebrato durante una vacanza dello sposo emigrato. Un emigrato che lavora in Europa è una buona garanzia di prosperità, anche se spesso i giovani nascondono le difficoltà e le durezze della vita a Roma. Quando la sposa arriva, si ritrova per lo più a vivere in una casa condivisa, chiusa in una stanza con una tv satellitare. Il suo compito è fare figli e allevarli, occuparsi della casa. Nella maggioranza dei casi neppure la spesa e il mercato sono suo compito, né la gestione del denaro. Capita così che, sole e annoiate, per anni queste donne non imparino l’italiano, che si troveranno ad affrontare solo al momento dell’inserimento dei figli a scuola. Anche la gravidanza e il parto, e il rapporto con i medici e la salute, diventano pesanti ostacoli per chi non sa comunicare dolore o disagio. Figurarsi prepotenze o addirittura violenze.
Come non pensare che, in questa situazione, il ruolo delle comunità tradizionaliste sia molto forte? A far da ponte, da mediatrici tra le due culture, potrebbero essere proprio le nuove generazioni, le ragazze bangladesi che in Italia hanno sempre vissuto, “donne che non dimenticano la tradizione, ma che guardano verso il futuro”. Anche per questo, dicono le autrici, “lo ius soli sarebbe un primo importante passo”.