di Adolfo Spaziani
Il dossier “Energie e reti” rappresenta un contributo importante per avviare un’ampia riflessione su politiche ed attività relative ai servizi pubblici essenziali (perimetro servizi tecnologici a rete) destinati anche in futuro a condizionare qualità del vivere urbano e dello sviluppo economico e sociale. La presente nota vuole essere un contributo aggiuntivo per evidenziare alcune criticità ed individuare alcune policy nella speranza che si apra un nuovo ciclo politico ed amministrativo per la città.
Mi riferisco esclusivamente ai servizi tecnologici a rete, come energia, acqua e rifiuti. Sono servizi da utilizzare come leve importanti nella transizione ecologica per modificare anche comportamenti di tutti gli attori coinvolti. È una riflessione che andrebbe estesa anche alle reti di comunicazione che guidano tutta la transizione digitale.
Il dossier analizza quasi solo il ruolo delle partecipate comunali, sicuramente rilevanti ma sempre più interconnesse e condizionate da altri operatori nazionali e locali. Il perimetro delle esclusive municipali in questi settori è destinato a modificarsi profondamente, in particolare in quello energetico e in quello ambientale, a eccezione delle infrastrutture fisiche. Andrebbe pertanto considerato e valorizzato il ruolo di altri operatori che hanno la struttura direzionale e spesso i centri di ricerca a Roma. Un sistema di imprese che invoca un rapporto forte con le università pubbliche e private della capitale in grado di generare start-up nei diversi settori (non saprei se serve un altro politecnico con base a Roma o una maggiore valorizzazione delle facoltà di fisica, matematica ed economia che stanno dando un contributo rilevante a livello nazionale ed internazionale).
Di seguito la sintesi di alcune riflessioni e proposte.
1. Societarizzazione e liberalizzazione
Le politiche perseguite negli anni novanta per i servizi a rete hanno seguito un doppio indirizzo: quello della progressiva societarizzazione del sistema municipale e quello di una progressiva liberalizzazione, seppur condizionata. Tanto condizionata da mostrare un doppio difetto: non rispondere spesso alle politiche pubbliche e non cogliere le opportunità connesse alla liberalizzazione progressiva di alcuni servizi. In ogni caso, nel settore energetico l’effetto positivo del decreto Bersani (D.Lgs. 79/1999) ha consentito di avviare un ciclo di investimenti importante per supportare la crescita della domanda elettrica, rilevante sino alla crisi del 2008, e dar vita a società quotate (nel centro-nord) sui mercati regolamentati. È di fatto l’unico successo dopo anni di inutili discussioni sulla riorganizzazione e razionalizzazione delle società municipali.
Per il settore elettrico una strada fruttuosa per la Capitale, di cui oggi si vedono i risultati: finalmente una gestione unica delle reti a livello urbano (Roma era gestita al 50% da ACEA e al 50% da ENEL) con un miglioramento eccezionale della continuità (tempi di interruzione). Gli anni sessanta, con uno sviluppo edificatorio incontrollato, hanno prodotto un sistema di cabine secondarie nei sottoscala dei palazzi, pronte ad andare fuori servizio ad ogni evento meteorico. Una situazione non ancora del tutto sanata e che richiede, oggi, di affrontare un altro rilevante ciclo di investimenti connesso alla progressiva elettrificazione dei consumi, per tutelare l’ambiente e contribuire a mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. È urgente pertanto pianificare un piano straordinario che partendo dalla “capacitazione” dell’infrastruttura di distribuzione elettrica consenta ai cittadini di poter disporre di un’adeguata potenza elettrica per orientare i propri consumi, in una ottica di sostenibilità energetica, economica ed ambientale. Urgente in quanto difficilmente potranno ripetersi le condizioni attuali in ordine ai tassi dei finanziamenti per infrastrutture.
Infine, la liberalizzazione dei servizi energetici (commodity) purtroppo non ha dato i risultati attesi, tra paure ed errata allocazione dei costi a livello nazionale. Non è il costo delle reti di distribuzione a differenziarci dal resto del continente, ma la dipendenza da una struttura della generazione elettrica su cui vengono allocati i costi degli oneri di sistema, che diversamente andrebbero girati sul sistema fiscale anche per equità sociale. È auspicabile che l’attuale debolezza del sistema si trasformi in un’opportunità e le politiche incentivanti su fonti rinnovabili ed efficienza energetica siano in grado di fare la differenza. Roma ha scarsamente beneficiato del corposo sistema incentivante sulle rinnovabili (di importi simili in un decennio a quelli del Recovery Fund) ed è auspicabile che oggi sappia cogliere l’opportunità delle politiche incentivanti sull’efficienza energetica, attivando investimenti per la riqualificazione urbana (superbonus). Per la riqualificazione energetica del patrimonio immobiliare, ACEA può supportare l’Amministrazione nella definizione delle politiche ambientali e promuovere investimenti nelle aree critiche, ad esempio nelle periferie, dove più difficilmente altri operatori intendono attivarsi. Un’operazione che può essere sviluppata anche con altre istituzioni nazionali come l’ENEA e altri player come ENEL ed ENI.
Un approfondimento a parte andrebbe fatto sul tema della mobilità elettrica accompagnata da una digitalizzazione di tutte le relative strutture. Così come andrebbe riaperto il dossier sulla gestione della rete di distribuzione gas nell’area metropolitana, anche se non più strategica come in passato.
2. Società in house e quotate
Lo scorso decennio, specie dopo la crisi economico-finanziaria del 2008, sono emerse due criticità. La prima è stata conseguente alla politica di austerità che comprimeva l’offerta di servizi pubblici, soprattutto il trasporto, esattamente al contrario di quanto era invece necessario per i cittadini. La seconda, tutta ideologica, assegnava alla proprietà pubblica, invocata sotto il manto del “Bene comune”, un ruolo taumaturgico, dimenticando che il primo bene comune è quello di non sprecare risorse. Nella gestione dei servizi pubblici, a eccezione di quello elettrico, ha ripreso spazio la gestione delle società in house, tanto da invocare persino il ritorno alle aziende speciali. A parziale giustificazione di questi orientamenti hanno concorso tempi, modalità e qualità del management chiamato a gestire i diversi processi di societarizzazione, e il ritardo nella definizione dei nuovi strumenti di pianificazione e regolazione indipendente. Si veda il ritardo con cui a livello nazionale è stata sviluppata la regolazione indipendente nel settore idrico e in quello dei rifiuti (settore in cui sono ancora in corso operazioni di smontaggio da parte di alcuni Comuni e operatori privati). Forte è rimasta la confusione tra competenza nell’esercizio della titolarità di una funzione pubblica e ruolo assegnato al concessionario-gestore. Ruolo, quest’ultimo, che in qualunque assetto proprietario (società in house, mista o quotata), deve essere chiamato esclusivamente a ottimizzare i fattori di produzione nell’interesse di tutti.
Appaiono pertanto fuori logica le ipotesi di promuovere ulteriori nuove società in house, in particolare nel settore idrico oggi gestito da ACEA. La scelta a favore di una società quotata, fatta a inizio 2000, ha potuto sfruttare tutte le possibili sinergie con il settore elettrico e con quello ambientale, sebbene non sia automaticamente replicabile in altri settori, specie se dipendenti dalla finanza derivata. Anche le critiche sulla governance di ACEA appaiono poco mirate: la leva di indirizzo e controllo è rimasta tutta nelle mani dell’azionista pubblico, spesso silente sulle strategie, salvo sollecitare politiche dei dividendi aggressive a danno di politiche di sviluppo nel segno della transizione ecologica, tanto da far invocare un intervento invasivo del regolatore. Invece un problema serio per ACEA, e in generale per tutte le imprese dei servizi pubblici locali, è l’eccessivo ricambio del management a seguito dei ricambi politici dell’azionista. Ricambio che non investe solo i vertici ma, spesso, tutta la prima linea, e che non aiuta a lavorare su strategie di lungo termine risultando anche economicamente poco giustificabile.
In ogni caso il modello della società quotata si è rilevato di gran lunga quello più efficace rispetto alla soluzione in house (vedi AMA e ATAC). Anzi, ci si dovrebbe chiedere perché il legislatore non l’abbia adeguatamente supportata. All’obiezione circa una scarsa trasparenza rispetto ai territori si può rispondere con uno “spacchettamento” (unbundling) organizzativo e societario del gruppo per dare alle comunità servite maggiore evidenza dei risultati conseguiti.
Un’ulteriore considerazione sul modello di gestione in house. Vista la debolezza dell’ente controllante a esercitare correttamente il duplice ruolo di azionista e cliente, appare opportuno, a mio avviso, recepire la possibilità prevista dalla disciplina comunitaria per consentire una partecipazione, anche in una società in house, di attori finanziari diversi (dagli istituti bancari ai fondi etici e previdenziali) con obiettivi di tutela a medio-lungo termine. È pur vero che questi soggetti non potrebbero esercitare poteri di veto, ma di sicuro funzionerebbero da sentinelle a favore di una gestione oculata e industriale, in particolare con la partecipazione dei fondi di previdenza complementare degli operatori del settore.
Andrebbe inoltre promossa a livello nazionale una revisione dei vincoli gestionali, introdotti (ultimo esempio il decreto Madia sulle società a controllo pubblico) per condizionare le cattive amministrazioni, ma che di fatto producono un livellamento al ribasso dell’efficienza. Una cattiva gestione, sia pubblica che privata, va superata se non risponde alla missione principale, che è quella di garantire servizi universali a costi ragionevoli. Una compressione delle libertà di impresa, diversamente, è solo fonte di inefficienze e furbizie, come quella di non approvare i bilanci per non dover trarne tutte le conseguenze (un vizio non solo romano). Ma i conti prima o poi si presentano, e andrebbe evitato di presentarli sempre alle future generazioni.
3. Ambiti territoriali e pianificazione
In ogni dibattito che si rispetti si parla di emergenza climatica e conseguentemente della necessità di politiche per una transizione energetica e di sviluppo che salvaguardino le risorse naturali. Peccato che spesso ci si dimentichi di trarne le conclusioni operative. La prima conseguenza di una politica coerente necessita di una visione che si estenda in ambiti territoriali molto più ampi di quelli municipali. Una visione in netto conflitto con quella angusta che spesso prevale nelle politiche di pianificazione delle infrastrutture dei servizi pubblici. Nei servizi a rete non vi è solo un problema di economie di scala, ma di interferenze non gestibili frazionando territori e competenze. L’emergenza climatica e la tutela della risorsa idrica richiedono una visione territoriale spesso diversa da quella amministrativa.
Eppure, dopo oltre 25 anni dalla legge Galli per il settore idrico che promuoveva le gestioni d’ambito, dopo molti anni da quando a livello europeo si è prescritta una pianificazione a livello di distretto idrografico, prevalgono ancora spinte in direzione opposta. Analoga criticità si rileva nel settore dei rifiuti dove le gestioni d’ambito sono ancora minori, e l’unica pianificazione riscontrabile nel centro-sud è il no alla costruzione di impianti per la chiusura del ciclo, a vantaggio delle discariche e del traffico illegale dei rifiuti. Solo recentemente anche dal mondo sindacale la termovalorizzazione ha riavuto diritto di cittadinanza. Nemmeno l’introduzione di una innovativa regolazione a doppio livello – con un’autorità indipendente centrale sui parametri economici e di qualità (ARERA) accanto a Enti d’ambito territoriali aggregatori della domanda – ha prodotto i risultati attesi. La regolazione ad oggi funziona dove il servizio ha già caratteristiche industriali, spesso inapplicata nel resto d’Italia, dove si preferisce la gestione in house o in appalto con costi elevati. Una situazione insostenibile.
Nel Lazio solo di recente sembra avanzare una pianificazione di livello regionale, anche per il difficile rapporto con il Comune di Roma. Costituire un ambito unico regionale per la pianificazione dei servizi idrici e uno per i servizi ambientali appare la misura più immediata da implementare (es. modello emiliano). Un ambito dotato di adeguate competenze tecniche ed economiche che, in rapporto stretto con l’Autorità di regolazione nazionale (ARERA), sappia garantire il servizio universale su tutto il territorio e affidi i servizi, possibilmente in concessione, a soggetti industriali solidi. Non vuol dire automaticamente un gestore unico, ma serve in ogni caso un gestore con caratteristiche industriali e adeguatamente patrimonializzato. Solo così sarà possibile stabilire obiettivi ambiziosi che riguardino non solo il ciclo idrico integrato, ma anche il risanamento dei corsi d’acqua, coprendo la depurazione al 100%.
4. Il settore idrico
ACEA rappresenta un operatore rilevante nel settore idrico. Ma proprio in relazione ai fattori esogeni destinati ad incidere su questa attività ci si dovrebbe porre la domanda su missione e sviluppo futuro. La storia degli acquedotti ha accompagnato la storia di questa città, ma per tutto quanto già evidenziato è giunto il momento di qualificare definitivamente la missione, non solo in ambito regionale, ma almeno per il centro-sud. Non è più tempo di guerre tra il Reatino e la Capitale per l’utilizzo della risorsa idrica; è il momento di mettere a disposizione delle aree più arretrate un patrimonio di competenze importanti e di rinnovata sensibilità territoriale. La società quotata non può essere un bancomat per alleviare le difficoltà finanziarie del campidoglio, né spetta ad essa esercitare le funzioni pubbliche proprie degli enti territoriali. Si tratta di una scelta che l’azionista pubblico può fare oggi senza vincoli. Non esiste a livello di holding un patto di sindacato che lo impedisca e l’azionista di maggioranza attuale farebbe bene a non addossare ad altri la mancanza di un qualsiasi ruolo decisionale.
Negli ultimi anni, dopo l’introduzione di una regolazione indipendente, i tassi di incremento degli investimenti pro-capite è cresciuto a livelli prossimi a quelli europei (90 euro per abitante/anno); consistente appare anche il contributo a favore delle fasce deboli (17 milioni di euro per il periodo 2020-23). Il problema resta come far arrivare in tempi certi (in automatico) questo contributo alle famiglie in difficoltà, dando diversamente il giusto valore ad una risorsa da salvaguardare per le future generazioni. Lo spreco in molti casi deriva dallo scarso valore dato alla risorsa idrica. Molti conoscono i costi della ricarica del proprio cellulare, pochi il costo di un metro cubo di acqua portata dentro casa e depurata prima di rilasciarla nei corsi d’acqua. Il problema delle perdite idriche deriva, oltre che dalla vetustà della rete, dalle perdite commerciali (per le quali è urgente digitalizzare tutto il sistema di misura) e anche dalla esiguità del relativo costo per consumi eccessivi.
Una strategia diversa è auspicabile: si tratta di accelerare gli investimenti per garantire la continuità del servizio, una percentuale di perdite conforme al benchmark comunitario e sostenere il costo per le famiglie in difficoltà. Il Recovery Fund può contribuire a elevare il livello di continuità del servizio e consentire una gestione efficiente della risorsa, senza un impatto pesante sulla tariffa per gli utenti: in particolare, il raddoppio dell’infrastruttura del Peschiera dovrebbe essere tra i progetti da sviluppare con cofinanziamento.
5. Il settore dei rifiuti
L’emergenza è continua. La carenza di impianti e di infrastrutture azzoppa qualsiasi tentativo di sviluppo del settore. Per lunghi anni si è lasciato, in particolare nell’area romana, a un monopolista privato il compito di chiudere il ciclo, con risultati non certo esaltanti. La discussione sul modello di gestione ha seguito più l’approccio ideologico che quello di far crescere operatori industriali capaci di ottimizzare la gestione e salvaguardare l’ambiente. Difficile recuperare senza abbandonare definitivamente un vizio capitale: quello di porre gli obiettivi di medio-lungo termine come immediati e senza costi, per poi rimanere ostaggio dei cicli elettorali, di incrostazioni organizzative e societarie non gestibili. Alcuni contributi prodotti sul ciclo dei rifiuti ipotizzano soluzioni innovative, ma tutte da verificare, e spesso senza tener conto del necessario periodo transitorio. Bisognerebbe evitare di produrre ricette salvifiche che poi si traducono in frustrazioni o sperpero di risorse. Esistono strumenti di pianificazione affidabili, capaci di spingere la gestione verso modelli che rendano compatibile il costo del servizio con gli altri fattori da considerare, a iniziare da quello ambientale (Utilitalia, Rifiuti urbani. I fabbisogni impiantistici attuali e al 2035, ottobre 2020).
L’attuale gestione di Roma costa molto anche sotto il profilo ambientale. A poco serve alzare i tassi di raccolta differenziata senza una pianificazione sulla chiusura del ciclo dei materiali, inclusi recupero e commercializzazione delle materie seconde. Molti i fattori da considerare, dai costi della salute degli operatori impiegati nei diversi processi all’inquinamento ambientale legato al trasporto. Persino la politica della raccolta “porta a porta” ha generato equivoci, come se per il cittadino il contribuito finisse con la separazione in casa del materiale. Ma servono anche strutture territoriali (isole ecologiche) dove i cittadini possono conferire rifiuti secondo procedure qualificate; servono spazi agibili nelle aree metropolitane per organizzare la raccolta senza offendere il decoro urbano; servono impianti che favoriscano il recupero delle materie seconde e smaltiscano i residui in modo accettabile, sotto il profilo economico e ambientale.
Non appare convincente la proposta, che sembra fatta propria anche nel dossier, che ipotizza di spezzare il ciclo tra raccolta e smaltimento/trattamento. Si tratta di un modello di fatto simile a quello attuale con le conseguenze negative evidenti. L’affidamento a un unico soggetto della gestione dell’intero ciclo dei rifiuti in un determinato ambito consente di ottimizzare tutti i fattori sino al recupero delle materie seconde. Ciò non significa promuovere una gestione diretta su tutto il ciclo integrato, ma affidare possibilmente a un concessionario con caratteristiche industriali il servizio nel perimetro oggetto di privativa. Sarà compito del concessionario sviluppare opportunità di partnership sulle diverse fasi del ciclo o cogliere opportunità derivanti dal mercato. Una concessione con tempi lunghi che consenta di promuovere lo sviluppo degli investimenti, sia a supporto della raccolta e trattamento sia sul recupero di materia, finalizzati a ridurre gli impatti ambientali. Il trattamento diretto dei rifiuti residui, necessario alla chiusura del ciclo, che sviluppi un adeguato recupero energetico, risulta l’opzione con minore “carbon footprint” ed emissione di sostanze acidificanti. Ma come sempre bisogna fare i bilanci tecnici, economici ed ambientali: non sempre le soluzioni più efficienti sono quelle che a prima vista appaiono le migliori. L’attuale governance del settore dei rifiuti urbani risulta sicuramente complessa, ma basterebbe dargli concretezza per fare un grosso passo avanti a livello territoriale e nazionale.
