Dopo decenni di liberismo e globalizzazione, in una situazione di crescente polarizzazione della ricchezza, e conseguente aumento della marginalità urbana, di inaridimento degli spazi di vita in comune, e di moltiplicazione del numero di esseri umani costretti alla fuga (dalle guerre, dalle persecuzioni o dalla fame), una domanda primaria emerge su tutte le altre. Una domanda di asilo, di rifugi, di spazi per nascere e crescere al sicuro da violenze e siccità ma, anche, al sicuro dalla aggressività del libero mercato. Una domanda che non riguarda soltanto la popolazione proveniente da oltre confine, ma che riguarda fasce sempre più ampie della popolazione dei paesi europei. Una domanda di case, intese come beni primari di sopravvivenza (piuttosto che come beni finanziari), una domanda di spazi per l’infanzia e l’adolescenza, di spazi (a costi accessibili) per intraprendere attività produttive o creative.

Questa domanda chiama in causa il modo stesso di pensare e governare città e territori, le loro forme d’uso e di trasformazione. È, dunque, una domanda politica ma è, anche, una domanda progettuale: è, cioè, una domanda che mette in questione la nostra capacità di pensare nel tempo: nel corto, nel medio e nel lungo termine. Perché progettare vuol dire, oltre che pensare lo spazio, pensare nel tempo.

Come rispondere dunque, nell’immediato di una crisi come una guerra, ma anche nei tempi lunghi dell’acuirsi della crisi climatica, e del proliferare delle conseguenze inique della globalizzazione, al bisogno di rifugi? Come dare ospitalità? Come rendere le nostre città capaci di accogliere e di sostenere la vita, soprattutto quella più fragile e indifesa, quella di chi non ha più niente e nessuno?

Alcuni luoghi, grandi paesi ma anche piccole città, in anni recenti hanno saputo porsi questa domanda e hanno provato a dargli risposte, sperimentando, a volte a partire da programmi dettagliati, altre volte muovendosi per piccoli passi, delle vere e proprie strategie, diverse, ma non necessariamente alternative, certamente riproducibili e declinabili.

Proverò ad elencarne tre chiamandole la strategia dell’affidamento temporaneo (di strutture in disuso), quella della costruzione temporanea e mobile (di strutture nuove ma leggere come tende e container), e quella del ripopolamento (più o meno permanente) di paesi abbandonati.

La prima è una strategia ampiamente sperimentata in Francia, dove amministrazioni cittadine, ma anche soggetti privati, hanno negli ultimi anni messo in campo varie forme di rifugio temporaneo, affidando luoghi bisognosi di cure (spesso abbandonati da tempo) a comunità (una o più associazioni) in cerca di spazi. La seconda è una delle strategie al centro della risposta tedesca all’accoglienza tra il 2015 e il 2016 quando, a seguito dell’apertura della frontiera e della sospensione unilaterale del trattato di Dublino, oltre 900.000 rifugiati entrarono legalmente nel paese. La terza è invece una strategia diventata simbolo della schizofrenia Italiana, cioè della capacità del paese delle “cento città” e migliaia di borghi abbandonati, di produrre e distruggere modelli urbani innovativi: in questo caso una forma di coabitazione capace di dare rifugio “recuperando” antichi equilibri (case e spazi abbandonati ma anche saperi e mestieri scomparsi), equilibri sociali ed ecologici.

Affidamento temporaneo di strutture in disuso

 © Associazione Aurore

Partiamo dalla Francia. Uno dei più interessanti luoghi offerti da una amministrazione cittadina all’appropriazione “creativa” dei cittadini, a costo zero per l’amministrazione, ma con un alto ritorno sociale in termini di risposta ad emergenze abitative e lavorative (e più in generale di risposta al bisogni di spazi di cui sopra), emerge come un fiume in piena nel centro di Parigi, proprio alle spalle della elegante Fondazione Cartier. Qui l’ex ospedale Saint-Vincent-de-Paul, costruito nel 1795 e dismesso nel 2010, è diventato a partire dal 2011 il più grande esperimento europeo di “pianificazione urbana temporanea”. Il Comune di Parigi infatti ha destinato l’area alla costruzione di un eco-quartiere, ma considerando i tempi lunghi di un progetto complesso di trasformazione urbana, il sistema ospedaliero responsabile del sito, l’Assistance publique Hôpitaux de Paris, ha chiesto all’associazione Aurore (dal 1871 protagonista dell’accompagnamento di persone in condizioni precarie verso percorsi di inclusione) di utilizzare l’ospedale per far fronte alla crescente emergenza di senza casa.

Aurore, divenuta responsabile di una prima parte del sito, vi allestisce 300 posti letto ed, in un crescente rapporto di fiducia, nel 2014 riceve in gestione l’intera area (34.000 mq). Il municipio pone però un vincolo preciso sulle modalità di utilizzo del luogo: chiede di rendere la struttura aperta al quartiere e alla città, per evitare l’effetto ghetto. Altre due associazioni, con una esperienza molto diversa da Aurore (che mantiene il coordinamento d’insieme del progetto) diventano così parte integrante della trasformazione temporanea del luogo: Plateau Urbain, cooperativa specializzata nel rilanciare edifici vuoti attraverso start-up e imprese sociali, e Yes We Camp un collettivo di architetti specializzati nella trasformazione di spazi condivisi attraverso la costruzione di attrezzature temporanee e inclusive. L’idea vincente è quella che la compresenza e le capacità diverse delle tre associazioni possano dar vita ad una forma innovativa e dinamica di spazio pubblico: il tutto attraverso l’uso di risorse generate esclusivamente sul luogo, con l’affitto degli spazi (non a prezzo di mercato ma a copertura dei costi di gestione), la ristorazione e l’offerta di servizi come il camping.

Les Grands Voisins, questo il nome del progetto, ad oggi ha ospitato quasi 3.000 eventi pubblici, che hanno visto al lavoro 2.000 volontari, con la creazione di 150 posti di lavoro retribuiti, per un totale di 1000 visitatori al giorno che hanno condiviso gli spazi con gli oltre 600 senza casa alloggiati. Quello che questi numeri non riescono a raccontare è l’atmosfera festosa del luogo. Qui la politica ha accettato e vinto la sfida di accogliere in centro piuttosto che in periferia, e di fare dell’ospitalità, della multiculturalità e della creatività le leve di una res publica in cui la capacità progettuale (di tutti i diversi attori coinvolti) non è usata per determinare una forma chiusa e finita di spazio, ma piuttosto per mettere in movimento una una immaginazione plurale e condivisa.

Costruzioni leggere e mobili

Passiamo alla Germania. Qui nell’agosto 2015 la cancelliera Merkel decide di rispondere all’ondata di profughi in arrivo a piedi dalla rotta balcanica aprendo le frontiere, e sospendendo unilateralmente il trattato di Dublino, che dal 1990 regola il sistema dell’accoglienza europea, obbligando chi richiede asilo a farlo nel primo paese di ingresso. Tutti i siriani verranno accolti, a prescindere dal loro percorso, e dal primo paese in cui hanno messo piede entrando in Europa, tutti gli ordini di espulsione emessi verranno revocati. In un grande sforzo organizzativo, comuni e stati federali, architetti e urbanisti, società di costruzioni e volontari, vengono chiamati a rispondere all’emergenza, fornendo alloggi adeguati, minimi ma di qualità, sostenibili nel medio e nel lungo termine. Perché è chiaro che molte di queste persone rimarranno a lungo, e che molte diventeranno parte del paese. Dunque c’è bisogno di case ma anche di un pensiero capace di facilitare la convivenza e l’integrazione.

I curatori del Deutsches Architekturmuseum (DAM), il museo di architettura di Francoforte, osservano gli avvenimenti e, capendo la straordinarietà della sfida, cominciano a costruire un database dei progetti realizzati per offrire accoglienza. L’anno successivo, il loro lavoro viene scelto per rappresentare la Germania alla Biennale di Architettura di Venezia del 2016 “Reporting from the Front”. Col titolo “Making Heimat. Germany, Arrival Country” il padiglione tedesco spinge la riflessione sull’arrivo verso la possibilità di “fare casa”, raccontando progetti di riconversione ma anche e soprattutto di nuova costruzione dedicati ad accogliere i rifugiati. Ad emergere è ciò che appare come una pratica ed una estetica della leggerezza: sono padiglioni costruiti rapidamente, con sistemi prefabbricati e materiali leggeri, naturali o riciclabili, come legno e acciaio, che spesso sembrano appena sfiorare un suolo strutturato in corti, giardini e playground. Altri temi condivisi sono il ridimensionamento dello spazio minimo (nella maggior parte dei progetti ridotto a 10-12 mq a persona servizi compresi), e l’affermazione dell’importanza di unità familiari indipendenti, e di spazi comuni per la vita associata.

Obiettivo principale del padiglione così come del database online,[1] è raccogliere e documentare i progetti, rendendoli facilmente confrontabili e disponibili per la discussione da parte di altre città, amministrazioni, e policymaker. Molteplici dunque le soluzioni, a partire da quello che è diventato il progetto simbolo di quel momento, l’allestimento degli hangar in disuso dell’aeroporto di Tempelhof (lo stesso aeroporto usato nel ’48 dagli Stati Uniti per salvare Berlino Ovest dal blocco sovietico rifornendo di cibo, carbone e altri beni di prima necessità la città isolata). Qui, dentro gli enormi spazi che un tempo ospitavano la costruzione degli aerei, trovano alloggio circa 2.000 rifugiati, provenienti da Syria, Afghanistan, ed Iraq, in un sistema ordinato di stanze, senza soffitto, ma capaci di offrire uno spazio individuale per famiglia: 25 metri quadri di intimità, scanditi dalla maglia regolare di pannelli prefabbricati. Per integrare l’accampamento con spazi per la collettività, sull’asfalto dell’aeroporto viene costruita una gigantesca tenda, una sorta di serra in legno e tela, diafana e polifunzionale, con al centro un giardino e intorno spazi per laboratori, giochi, attività didattiche e sportive.

A Monaco, dopo cinque mesi di cantiere, 300 richiedenti asilo vengono sistemati in residenze modulari in legno prefabbricato, con uno spazio a persona di circa 10 metri quadri, inclusi bagni e cucine. In questo caso si tratta di una soluzione semi-permanente: il tempo di vita previsto per il campo sono dieci anni. A Brema, la soluzione adottata è invece quella di unità residenziali costruite assemblando grandi container in acciaio, raggruppati intorno a corti comuni, fortemente connotate dal colore. Qui per i 200 residenti lo spazio minimo individuale sono 12 mq. Altre soluzioni hanno invece un carattere permanente, come i prefabbricati in legno realizzati ad Hannover, caratterizzati da stanze individuali per circa 100 rifugiati e destinati in futuro a divenire dormitori. In alcuni casi, come negli appartamenti per rifugiati e homeless di Ostfildern, e quelli per rifugiati ed inquilini a basso reddito ad Oranienburg, i progetti portano a coabitare utenze diverse, così da accelerare il processo di integrazione.

In ogni caso, a sorprendere (forse da un punto di vista italiano) è il livello di definizione di questi interventi; la cura, in ogni progetto, nel disegno del suolo (caratterizzato da un’alternanza di materiali, pattern, e forme d’uso) così come degli spazi intermedi e del paesaggio. È questa capacità di cura a rendere queste architetture minimali, spesso sospese sul suolo, degli spazi straordinari.

Recupero di paesi e saperi abbandonati

Consideriamo adesso l’Italia, e in particolare focalizziamo l’attenzione su un paese piccolo sulla punta dello stivale, affacciato sul Mar Ionio e le isole greche, Riace. Come per la maggior parte dei borghi del centro e del sud, la storia del paese è segnata da un progressivo spopolamento nel corso del 900, un esodo che porta i contadini ad abbandonare le campagne per migrare verso il nord, d’Italia, ma anche e soprattutto d’Europa: verso la Germania, il Belgio e la Svizzera. Da circa 2.500 abitanti il paese si riduce negli anni ’90 ad una popolazione, in particolare nella parte storica del borgo, di un centinaio di anziani. La maggior parte delle case, come anche il palazzo signorile, e la maggior parte delle attività e servizi (i negozi, la scuola, il presidio medico) sono chiusi o si stanno svuotando.

Ma il primo luglio 1998 una imbarcazione carica di profughi curdi approda su una spiaggia vicina. Sono “66 uomini, 46 donne e 72 bambini” e vengono dall’Iraq, dalla Siria e dalla Turchia.[2] Tra chi scende in spiaggia ad aiutarli, portando cibo e vestiti, c’è Mimmo Lucano, anche lui partito anni prima per andare a studiare medicina a Roma e, dopo un periodo di insegnamento dalle parti di Torino, tornato a Riace per restarvi. Dopo lo sbarco dei curdi è la volta di un gruppo di donne eritree. Pochi mesi dopo questi primi sbarchi, Lucano fonda l’associazione Città Futura, con l’idea di impegnarsi per aiutare, chi dei profughi vuole restare, a trovare una casa e condizioni di vita decenti, e di farlo recuperando e ridando vita agli spazi abbandonati.

L’idea di Lucano è cioè di lavorare ad un aiuto reciproco: puntando non sull’assistenzialismo, unidirezionale e gerarchico, ma sull’incontro, alla pari, perché il bisogno di rifugio di chi è stato costretto ad abbandonare la propria terra è potenzialmente simmetrico al bisogno di ripopolamento e restauro del territorio italiano. In questo senso, la proposta di Città Futura si configura da subito come un programma politico alternativo, che alle elezioni locali del 1999 diventa una lista per opporsi al candidato del potere consolidato,[3] ma alternativo anche e soprattuto rispetto alla tendenza dominante in Europa: un programma basato sull’idea che demolire i confini tra noi e loro (tra noi e chi fugge dai propri paesi), ci è più utile che costruirli. In questa prospettiva, le appartenenze culturali non sono montagne insormontabili, ma differenze che possono essere messe in gioco, e apportare valore nella costruzione di uno spazio comune vivo e di legami sociali forti, legami che si tessono tanto più facilmente nelle stradine strette di un piccolo centro antico in disperato bisogno di rianimazione.

Dopo l’ingresso nel consiglio comunale come componente di minoranza nel 2000, nel 2004 Lucano si candida a sindaco: verrà eletto e rieletto per tre mandati consecutivi. Nel frattempo, già prima della soglia del millennio, l’associazione porta avanti il suo programma: recupera case, percorsi, spazi pubblici, il vecchio mulino, il frantoio, e il palazzo signorile, trasformandolo in municipio alternativo, per ospitare mostre e spettacoli e fare scuola di legalità. Recupera anche conoscenze e mestieri antichi, facendo rinascere, per esempio, un laboratorio di tessitura, a partire dalla pianta che lì cresce spontanea dappertutto, la ginestra, dalle cui pezzare nascono tappeti, cuscini e borse artigianali. Nel tempo, mentre con nuovi arrivi la scuola si ripopola di bambini, riaprono laboratori di ceramica e vetro, di produzione di confetture, pane, vino, olio, formaggi e salumi fatti in casa. Rinascono le sagre e le feste di paese. Comincia anche un’attività di accoglienza diffusa, nelle case recuperate, di “turisti solidali”,  turisti interessati a passare qualche giorno in un luogo al di fuori dei circuiti usuali del mercato, alla ricerca di sapori antichi e tessuti naturali, ma anche di quella che comincia a diventare un’esperienza riconosciuta di convivenza e multiculturalità. Nel 2009 il paese ospita Win Wenders: il regista tedesco vuole documentare e raccontare il “modello Riace”.[4] Nel 2010 il World Mayor Prize nomina Lucano terzo migliori sindaco del mondo, e negli anni successivi il sindaco riceve altri premi per la pace ed i diritti umani.

Al cuore del modello Riace è anche l’idea di fare delle risorse economiche per l’accoglienza una risorsa per la rigenerazione del territorio. I fondi stanziati dal governo per i rifugiati del sistema SPRAR (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati costituito dalla rete degli enti locali) diventano così “borse lavoro” che dall’amministrazione comunale vanno a cooperative, che mettono insieme riacesi e rifugiati, divenendo stipendi per i secondi, che nel frattempo praticano un mestiere, aiutando così se stessi e il luogo che li ospita. Sottraendo terreno e affari alla mafia locale. Per esempio per la gestione dei rifiuti e delle acque.

Infatti, per far fronte al contesto di stradine piccolissime e alla difficoltà di cambiamento nei metodi di raccolta per i più anziani, reinventando il servizio sulla base di esigenze nuove e tradizioni antiche, la raccolta differenziata è affidata a due cooperative sociali in cui lavorano rifugiati e disoccupati, con il compito di spiegare (instancabilmente) come differenziare usando i contenitori di diversi colori, e di raccogliere usando asinelli al posto di veicoli. Nel 2016 una “innovazione” analoga tocca l’altro grande affare storico delle mafie, quello dell’acqua. Nonostante infatti la Calabria sia terra ricca d’acqua, a gestirla sono i privati, che la vendono ai Comuni. Nel 2016 Lucano decide di cercare l’acqua e, individuata una falda, di costruire un pozzo comunale che fornisca a tutti acqua pubblica gratuitamente: il costo complessivo dell’operazione è di circa 80mila euro, da contrapporre ai 180mila euro anno che il Comune paga alla società che gestisce il servizio idrico in Calabria, la Sorical.[5] Così, affermando il principio dell’acqua bene comune, l’amministrazione alleggerisce il peso fiscale per gli abitanti. Ma, come nel caso dei rifiuti, crea un precedente pericoloso, che tocca un giro d’affari molto grande. Cosa potrebbe succedere se tanti altri piccoli o grandi comuni decidessero di seguire questo esempio di gestione diversa, virtuosa ma autonoma di acqua e rifiuti, in una terra, la Calabria, in cui lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani è uno dei maggiori affari della ‘ndrangheta?

Paradossalmente, a interrompere bruscamente l’esperienza amministrativa di Lucano non sono stati l’incendio doloso della sua auto né i proiettili sulla porta della sede di Città futura, e della cooperativa, ma una indagine giudiziaria partita nel 2017 e l’arresto domiciliare nel 2018, successivamente revocato e sostituito con un divieto di dimora a Riace, con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed illeciti amministrativi. Una condanna temporanea all’esilio (successivamente revocata), che ha anche questa un sapore antico, quello dell’ostracismo di chi può rappresentare un pericolo per la città e la sua terra. In questo caso, il pericolo sembra la possibilità del cambiamento, l’inversione di tendenza dall’abbandono alla cura e al ripopolamento.

Nonostante la triste conclusione di questa storia, Riace resta un’esperienza modello che, insieme alle altre strategie appena discusse, va considerata come una strada complessa ma possibile, utile in primo luogo proprio per noi, per l’Italia, un paese che sta drammaticamente invecchiando e con un disperato bisogno di accogliere nuove vite e ricevere nuove cure.[6]

Una proposta per Roma

Per una città come Roma, con un immenso patrimonio pubblico da recuperare, ed una cronica gestione fallimentare tanto dell’accoglienza emergenziale quanto della pluralità abitativa,[7] una proposta al tempo stesso simbolica e concreta è quella di dar vita ad uno o più rifugi di pluralità, non da qualche parte ai margini, ma nel cuore della città. Luoghi di cura (anche temporanea) e ciò recupero ed utilizzo del patrimonio pubblico, di accoglienza e di incontro, di risposta all’emergenza abitativa, ma anche di sostegno all’attività creativa e produttiva, di recupero di saperi e di materia. Luoghi, come ci insegnano Parigi e Riace, che non devono essere un costo per la comunità, ma che possono al contrario creare economia. Un’economia minima, di sussistenza, ma circolare e solidale.

Per essere concreti nominiamo tre luoghi, molto diversi tra loro per dimensione e per storia, tutti potenziali spazi per una “Roma plurale”. Il primo è l’ex ospedale Forlanini (circa 80.000 mq di superficie edificata per 170.000 mq di superficie complessiva), il secondo sono le ex caserme di via Guido Reni (45.000 mq), il terzo il quattrocentesco Palazzo Nardini in via del Governo Vecchio (5.650 mq). Tutti hanno le caratteristiche per diventare quella nuova forma di spazio pubblico che abbiamo cercato di descrivere, non luogo per ghettizzare o accrescere la marginalità di chi è già minoranza o di chi è per qualsiasi ragione fuori dal mercato, ma al contrario luogo per dare centralità alla pluralità, alla diversità di storie, esperienze, lingue, costumi, saperi e sapori. Questi tre luoghi sono parte importante della storia passata e recente della città, luoghi di battaglie e progetti, di desideri e scelte amministrative.
Provando a zoomare sul più piccolo ma più centrale dei tre, il palazzo divenuto convento, ospizio, governatorato di Roma, poi Casa delle Donne, e infine Prefettura della città, nel 2002 viene acquistato dalla Regione Lazio, che nel 2008 ne fa restaurare i tetti per poi, però, nel 2015 affidarlo al fondo di investimento Invimit per la sua “valorizzazione”. Una volta sul mercato, nel 2017 la società ne delibera l’aggiudicazione ad una società che intende trasformarlo in un resort di lusso. Nel 2018, a seguito delle pressioni delle associazioni, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma avvia una procedura di tutela diretta sul complesso. Con il decreto n. 48/2018, la Commissione Regionale per il Patrimonio Culturale delibera la riformulazione del vincolo sul Palazzo che dovrà mantenere una destinazione d’uso “compatibile con il carattere storico e artistico” e che “garantisca la fruizione pubblica del bene”. Nel 2019 il Tar del Lazio, rispondendo al ricorso di Invimit, annulla la vendita di Palazzo Nardini.

Cosa fare dunque di questo luogo simbolico delle vicende della città e delle suo contesto politico-istituzionale? Alla sua auspicata valorizzazione quale luogo di “coesione sociale, sviluppo e scambio di valori”,[8] aggiungiamo la proposta di farne un centro pubblico di accoglienza, di incontro e di convivenza: il centro di una Roma plurale.

Note

[1] http://www.makingheimat.de/en/refugee-housing-projects/database

[2]   Tiziana Barillà, Mimì Capotosta. Mimmo Lucano e il modello Riace, Fandango Libri 2017, p17.

[3]   Verrà riconfermato sindaco Cosimo Salvatore Comito, al terzo mandato, espressione di una coalizione di Centrosinistra (Partito Socialista e Ulivo).

[4]   Win Wenders, Il Volo, Italia, 2010. Durata: 32 minuti.

[5]   La Società Risorse Idriche Calabresi s.p.a. è “la società mista a prevalente capitale pubblico regionale [53,5% Regione Calabria; 46,5% Acque di Calabria s.p.a. (100% Veolia)] a cui è stata affidata la gestione, il completamento, l’ammodernamento e l’ampliamento degli schemi idrici di grande adduzione, accumulo e potabilizzazione trasferiti alla Regione Calabria dalla disciolta Cassa per il Mezzogiorno ex art. 6 L. n. 183/1976; nonché lo svolgimento del servizio idropotabile all’ingrosso in favore di tutti gli Utenti/Comuni calabresi, giusta convenzione di concessione di durata trentennale con la Regione Calabria.” Dal sito della Sorical consultato il 16/1/2020 http://soricalspa.it/page/azienda/azienda.html

[6]   Mentre scriviamo, a giungo 2020 il Consiglio di Stato ha confermato la decisione del Tar della Calabria che già nel maggio 2019 aveva annullato il provvedimento con cui nel 2018 ministero dell’Interno (guidato da Matteo Salvini) aveva escluso Riace dallo Sprar. Secondo i giudici «che il modello Riace fosse assolutamente encomiabile negli intenti e anche negli esiti del processo di integrazione è circostanza che traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti».

[7]   Il riferimento è in particolare alle esperienze di Hotel Africa, Palazzo Selam, e Baobab, oltre che più in generale alle vicende dei campi Rom, ed alle problematiche nell’assegnazione delle case popolari.

[8]   Per la descrizione delle vicende istituzionali e giudiziarie del palazzo ed il decreto n. 48/2018, rimandiamo al sito della Regione Lazio:  https://www.lazio.beniculturali.it/?p=4068