Pubblichiamo con piacere l’intervento di Alfonso Pascale (Accademia Ruralità Giuseppe Avorio) durante l’incontro online organizzato da Roma Ricerca Roma sul tema La campagna romana: una nuova mappa ambiente-città (24 marzo 2021), coordinato da Alessandra Valentinelli.
Vi invitiamo a mandare i vostri contributi, commenti e analisi sui temi legati alle nostre iniziative (e non solo).

© Cristina Archinto
Grazie, Alessandra, per avermi invitato a discutere un dossier riguardante la campagna romana che ha il pregio del respiro storico. Una caratteristica che permette di guardare ai processi trasformativi di lungo periodo.
Un approccio molto utile per immaginare il futuro con una visione d’insieme.
Vorrei contribuire a questa riflessione con alcune considerazioni che spero possano servire per immaginare il futuro di Roma con ulteriori elementi.
Innanzitutto, mi piace ricordare che l’Agro romano è stato uno dei centri più vivaci delle lotte agrarie che si sono svolte lungo tutto l’arco del Novecento.
Nelle lotte contadine del 1919 e, poi, del 1949, l’Agro romano partecipa da protagonista all’epopea di quelle occupazioni di terre, come avviene in altre realtà del Lazio e del Mezzogiorno.
A seguito di quelle lotte i movimenti ottengono: a) la definitiva sconfitta della malaria che dopo la prima guerra mondiale si era riaccesa e contro cui si erano impegnati a partire dalla fine del 800 alcuni scienziati, medici, educatori e artisti (Anna e Angelo Celli, Ettore Marchiafava, Giovan Battista Grassi, Giovanni Cena, Sibilla Aleramo, Duilio Cambellotti, ecc.) promuovendo centri di igiene, sanatori, scuole e ingenti opere di bonifica per far uscire le popolazioni dalle condizioni di miseria; b) la rottura dei latifondi e la nascita di una imprenditoria agricola diffusa, con la riforma fondiaria del 1950 e con l’impegno di una leva formidabile di tecnici, ricercatori, agronomi ed economisti agrari.
La modernizzazione dell’agricoltura è alla base dell’esodo biblico dalle campagne. L’afflusso di risorse pubbliche verso i latifondisti come indennizzo per gli espropri contribuisce all’investimento nell’edilizia. Roma accoglie centinaia di migliaia di famiglie agricole provenienti dal Lazio e dal Sud che rivendicano il diritto alla casa. Le imprese coltivatrici che nascono con la riforma agraria non trovano quell’humus dello sviluppo che solo politiche di accompagnamento continuative e con un approccio partecipativo possono creare. L’attenzione dello Stato verso l’agricoltura, alla fine degli anni ’50, si attenua. E le risorse per l’istruzione agraria e il sistema della conoscenza vengono significativamente decurtate.
Questi fenomeni contribuiscono a produrre l’espansione disordinata della città, il disinvestimento nelle attività agricole e una serie di squilibri ecologici.
Contro questi esiti negativi della modernizzazione, a metà degli anni ’70, un altro ciclo di lotte – questa volta di giovani laureati disoccupati e di operatori nell’ambito socio-sanitario – con occupazioni di terre pubbliche, vede Roma protagonista di quel processo di “nuova ruralità”, che investe in particolare l’Italia ma anche altri paesi occidentali.
Quel processo di “nuova ruralità” evolve nel tempo nelle esperienze di agricolture civiche o civili, che, dopo decenni di oblio, finalmente conquistano l’attenzione della società.
In tutte queste trasformazioni, permangono nella nostra città alcuni caratteri già presenti nell’antica Roma.
La ruralità romana è stata sempre una ruralità civica o civile. Nell’antica Roma molti lavoratori dei campi vivevano in città. E da lì partivano per andare a lavorare la terra, come soleva accadere in Puglia o in Sicilia fino a qualche decennio fa.
Roma si caratterizzava per la sua posizione commerciale e il suo spirito cittadino. Nello scontro coi Latini e con gli Italici, Roma rappresentava in blocco la città e gli altri la campagna. Gli Italici chiedevano la cittadinanza. Ma solo dopo una inutile strage di oltre 300 mila Italici, i Romani concessero loro la cittadinanza. La dettero a dei vinti afflitti. E così i contadini ottenevano il diritto alla città nel momento in cui scomparivano.
Scomparivano perché la loro ruralità diventava civica o civile. Si integravano, infatti, culture diverse che davano vita a nuovi modi di pensare e di vivere. Si estendeva la pluriattività. Si diversificano le forme di possesso della terra. Le famiglie agricole avevano assegnazioni di terra in proprietà e continuavano ad utilizzare le proprietà collettive.
La linguistica storica ci può aiutare a comprendere questi processi.
In Grecia è la polis (cittadella) a dare il nome ai polìtai (cittadini). Mentre, nella lingua latina è il civis a dare il nome alla civitas.
Per i Romani, la civitas non è la stessa cosa dell’urbs. L’urbe è la “città delle pietre”, “mero aggregato di tegole e mattoni, recinto di mura”. La civitas era la “città delle anime”, “realtà pulsante di uomini”. La civitas è un luogo, mentre l’urbe è uno spazio.
Questa tradizione di pensiero è andata perduta nel tempo, mentre i nostri antenati avevano chiara la differenza tra spazi e luoghi.
Al centro della dimensione trasformativa c’è una sfida che è prettamente culturale.
Come sappiamo un territorio, quale che esso sia, può essere concettualizzato sia come spazio che come luogo. La differenza è ormai chiara: lo spazio è un’entità geografica, mentre il luogo è un’entità socio-culturale.
Pertanto, la differenza tra i due concetti è rilevante. E identificare gli spazi con i luoghi è totalmente errato.
Nella Roma contemporanea, la crescita caotica e smisurata della città ha fatto perdere il senso del luogo e si ragiona esclusivamente in termini di spazi.
Ma le comunità possono fiorire se riconquistiamo il senso del luogo (reale, digitale, reale e digitale insieme).
C’è una difficoltà a immaginare lo sviluppo di comunità partendo dal basso, insieme alle persone, attraverso comunicazione, relazione e legami sociali connessi a processi educativi condivisi.
Ci vuole una pedagogia (penso a Danilo Dolci, a Paulo Freire) nello sviluppo di comunità, sia in un luogo fisico (condominio, strada, quartiere), sia in un luogo virtuale (blog, pagina facebook, ecc.).
Ci vogliono attivatori di comunità, agenti civici con competenze plurime. Ma non ci sono ancora agenzie formative per queste competenze.
Non si fa sviluppo di comunità “calato dall’alto”.
Ci vuole un ripensamento complessivo dell’architettura istituzionale di Roma per restituire la condizione di civis al cittadino di Roma e fare in modo che i cives possano ricostituire la loro civitas.
Il Piano Clima che voi proponete si può realizzare solo con la co-programmazione e la co-progettazione. La Rete verde, i Parchi, i terreni di proprietà pubblica, la politica europea di sviluppo rurale vanno considerati beni comuni che le istituzioni mettono a disposizione nei processi di co-progettazione.
Le interazioni tra gli attori sociali di una comunità, il reticolo di solidarietà e reciprocità che si forma tra cittadini, corpi intermedi e istituzioni, sono motori di processi evolutivi importanti e duraturi. Investire nelle relazioni comunitarie è oggi un percorso culturale, inteso come cambiamento radicale del modo di intendere e pensare il territorio.
La proprietà pubblica della terra è, in origine, proprietà collettiva, demanio civico che le istituzioni devono restituire alla civitas, la quale dovrà fruirne sulla base di regole decise collettivamente.
La vocazione mercantile di Roma va esaltata mettendo in connessione tutti i soggetti delle filiere agroalimentari che operano nella città.
La costruzione delle “filiere colte”, che voi proponete, si dovrà fare con il coinvolgimento pieno di tutte le istituzioni pubbliche e private di ricerca della città.
Si tratta di mettere in dialogo e far collaborare mondi diversi: impresa e non impresa, impresa e scuola, ricerca e istruzione, scienza e cultura, teoria e pratica, svago e istruzione, lavoro e educazione.
L’Agro romano e la sua storia devono continuare a vivere negli ecomusei, nella “città delle anime” e non solo nella “città delle pietre”, diventando ecosistemi che generano sostenibilità e ricchezza.
A Roma, lo sviluppo di comunità non si può fare con l’attuale assetto istituzionale. È inimmaginabile per il Campidoglio fare co-progettazione perché l’assetto istituzionale di Roma non è un assetto democratico.
Possiamo fare co-progettazione comunitaria solo se i Municipi diventano Comuni, cioè effettive istituzioni di prossimità, dotate di risorse e competenze in grado di contribuire alla creazione di fiducia, reciprocità e solidarietà per sviluppare comunità.
Roma Capitale dovrà essere una istituzione che comprende i 15 Comuni urbani e i 10 Comuni della cintura. E dovrà avere competenze paragonabili a quelle di una regione. Solo così co-programmazione e co-progettazione si potranno riannodare in una dimensione multilivello.
L’agricoltura fu inventata diecimila anni fa per consentire alle comunità nomadi di diventare stanziali.
Le agricolture civili di oggi hanno la funzione primaria di produrre comunità, civitas, in un mondo che ragiona solo in termini di spazi senza considerare le persone e le relazioni sociali.
Se studiamo a fondo la vicenda della campagna romana, davvero la storia può diventare democrazia, socialità, economia e ben-essere e possiamo immaginarci un futuro migliore.
Al fianco di quanto detto può esistere una selvicoltura urbana sociale che si incardinata nella comunità con la lavorazione del suo legno.