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Fabio Tarzia

Fino a qualche anno fa era possibile per i romani che passeggiavano a piazza San Pietro dopo il tramonto alzare lo sguardo e vedere le finestre dell’appartamento papale illuminate: il vescovo di Roma era materialmente in quel palazzo, a pregare, studiare, meditare o più umanamente a prepararsi per andare a letto. Oggi quelle finestre sono buie. Papa Francesco ha spostato la sua residenza in un dimesso ostello all’interno delle mura vaticane e si reca al palazzo apostolico solo per l’Angelus domenicale. È come se la sua presenza non coincidesse più con il centro della Christianitas. Sin dalla sua elezione Bergoglio ha avviato una sorta di delocalizzazione della Ecclesia. Nella sua idea di gesuitismo postmoderno il centro rimane vuoto mentre il cuore pulsante è piantato nelle periferie del mondo, quasi a riprendere una idea di Chiesa federale che assomiglia a quella del primo millennio.
A voler essere maliziosi sembra che Roma a Bergoglio non piaccia affatto. O meglio, non gli piace la Roma barocca e monumentale, al punto che preferisce percorrerla in maniera anonima e nascosta, come nella celebre “passeggiata” notturna in via del Corso e nell’ancor più famosa visita al negozio di ottica di alcuni amici.
Questa repulsione si spiega abbastanza agevolmente. In primo luogo, tutto questo apparato ha dall’angolatura del papa argentino una specie di funzione di velo. Il 31 dicembre del 2021 durante l’Omelia dei primi Vespri, dalla basilica di San Pietro, così si esprime Francesco a proposito di Roma e davanti al neosindaco Gualtieri:

Stiamo attenti: una città accogliente e fraterna non si riconosce dalla ‘facciata’, dalle parole, dagli eventi altisonanti. No. Si riconosce dall’attenzione quotidiana, ‘feriale’ a chi fa più fatica, alle famiglie che sentono di più il peso della crisi, alle persone con disabilità gravi e ai loro familiari, a quanti hanno necessità ogni giorno dei trasporti pubblici per andare al lavoro, a quanti vivono nelle periferie, a coloro che sono stati travolti da qualche fallimento nella loro vita e hanno bisogno dei servizi sociali, a tutti i suoi ospiti. Roma è una città meravigliosa, che non finisce di incantare. Ma per chi ci vive è anche una città faticosa, purtroppo non sempre dignitosa per i cittadini e per gli ospiti, una città che a volte sembra scartare.

Dietro la facciata, la città che scarta. È questa contraddizione che lo inquieta. Forse gli tornano in mente le immagini di quando era arcivescovo di Buenos Aires e girava in lungo e in largo le periferie della metropoli argentina: i gesuiti vedono le città come spazio del dolore da rincuorare, come agglomerati di spiriti sperduti da convertire.
Ma soprattutto a Bergoglio la città barocca e meravigliosa non piace perché contrasta con la sua idea di Chiesa. Il punto è che la Chiesa di Roma presenta ancora un unico, vincente, apparato iconografico, scenografico e di immaginario: quel barocco approntato come motore di stupore, meraviglia, cerimonia sacra che attira, che coinvolge. Forse è vero che l’architettura religiosa dagli anni ’30 ad oggi abbia recuperato un aspetto e una valenza razionale essenziale, iconico-bizantina, ma, come sostiene Tomaso Montanari, l’organizzazione principale dell’immaginifico ecclesiale rimane collegato allo spettacolo cinquecentesco.
Il centro attira ancora la periferia con il suo splendore magnifico, mentre Francesco vorrebbe esattamente il contrario: che la periferia attiri il centro con il suo “spettacolo” miserevole. L’immaginario romano barocco controriformista andava benissimo per la figura imperiale di Wojtyla e per quella sacrale e ieratica di Ratzinger, ma non pare funzionare per un gesuita “francescanizzato” che ha scelto di avviare un processo che trasformi la Chiesa in un “ospedale da campo dopo la battaglia”, persa nel mondo, dentro di esso, calata in una geografia in cui non esiste più la Christianitas e il fuori vuoto da conquistare.
Era dal 1300 che non si vedeva una cosa del genere, da quando Bonifacio VIII indisse il primo giubileo, creando di fatto l’immaginario del pellegrino moderno che va verso il centro. Chiuse le vie di Gerusalemme, la spinta cristiana si fa da centrifuga a centripeta: tutti verso Roma. Da quel momento, e soprattutto nel ‘500 appunto, la città diventa spazio di glorificazione, di trionfo, con tutti i suoi eccessi e le sue conseguenze: in primis la politica “imperiale” di Giulio II che finanzia la nuova Roma con la vendita delle indulgenze e in particolare la fabbrica della basilica di San Pietro che comincia nel 1506.
Roma è il teatro che mette in scena il trionfo della cristianità, ostentazione del suo centro proprio in vista dell’apertura verso i nuovi mondi, che proprio il concilio di Trento, con l’utilizzo dei missionari gesuiti, aveva contemporaneamente promosso. La “cattura dell’infinito” viene scolpita sul marmo delle basiliche e delle cattedrali, come a sancire che quel progetto arriva proprio dalla Roma del Papa: ha un motore centrale e ineludibile, una cattolica “città sulla collina”, faro che illumini la notte, che porti ovunque la sua luce.
Il giubileo indetto nel 2016 da papa Francesco prova a rompere questa tradizione. Esso non a caso è finalizzato “alla promozione di una nuova evangelizzazione” e sin da subito si presenta come delocalizzato: viene inaugurato con l’apertura della porta santa non a San Pietro, ma a Bangui nel Centrafrica. Qual è il risultato di tutto ciò? Le Cassandre che prevedevano un clamoroso flop sono state smentite, visto che un giubileo preparato in fretta e appunto partito come programmaticamente decentrato ha portato a Roma, a quanto sembra, circa 20 milioni di persone (quello di Giovanni Paolo II del 2000, accuratamente preparato e durato di fatto 6 anni è arrivato a 25 milioni). Come è possibile che la Chiesa – nelle intenzioni- più decentrata degli ultimi mille anni provochi un tale pellegrinaggio verso il centro?
La risposta a questa domanda riveste una certa importanza perché nasconde una domanda e una risposta più profonde. Forse dietro i sentimenti verso la città eterna, e gli effetti inaspettati che essa produce, c’è tutto il senso e i destini della grande riforma bergogliana, di un Papa che durante la grande pandemia celebra ogni mattina la messa dalla chiesetta di Santa Marta che assomiglia ad una cripta medievale, a una catacomba dei primi secoli, ma che poi stupisce il mondo con le immagini ormai storiche che lo mostrano come un puntino bianco al centro della immensa Piazza al centro della Cristianità.
Forse cioè, nonostante tutti i tentativi e le strategie, una Istituzione millenaria abituata a una guida centralizzata e mass mediale, dall’uno ai molti, non può divenire rete dispersa per il mondo in cui tutti interagiscono con tutti. Forse aveva ragione Marshall McLuhan quando diceva che se al mondo vi fossero tre cattolici, uno sarebbe Papa. E un Papa non può fare a meno della sacralità immobile di San Pietro, al centro della Città eterna.