Autore

Alfredo Morganti

Il punto di partenza è Trema la notte, romanzo di Nadia Terranova, l’approdo è la frammentazione della metropoli contemporanea, le macerie delle relazioni sociali

«Forse il problema erano i nomi». Comincia così il capitolo di Trema la notte di Nadia Terranova intitolato al Carro, dove appare fulminea la consapevolezza che una città è prima di tutto una questione di nomi: di luoghi, di edifici, delle famiglie che la compongono e delle persone che la abitano. Se la città crolla, se si trasforma in un cumulo di detriti – e il nulla prende il posto delle cose, oppure, più sorprendentemente, «dove non c’era nulla» ora c’è qualcosa, ora ci sono «rovine» – si travolgono con essa anche i nomi che la componevano. La lavagna si cancella, in sostanza, e tutto esige di essere riscritto. È qui, dinanzi alla distruzione di Messina, che cresce pressante la necessità di «riscrivere il dizionario e il libro di geografia, ideare e stampare al più presto una cartina con una nuova toponomastica». È qui che il futuro si presenta radicalmente ai sopravvissuti come un’odonomastica da rifondare. “Rifondare” vuol dire ribattezzare, rinominare, imporre nomi nuovi, facendo fronte al nulla che dilaga con un nuovo lessico e un nuovo riconoscimento delle cose e, persino, delle persone.

I nomi, dunque. Dinanzi ai «frammenti» e agli «spuntoni» su cui si inciampa, dinanzi a una città ruvida di macerie, che ti chiama a una scelta e non ti offre più piani levigati su cui far scivolare parole e ricordi, bisogna rinominare, bisogna «reinventarsi», che non significa tanto ricostruire in senso conservatore, ossia ri-formare, quanto davvero ripartire da una sorta di ground zero, perché nella città distrutta non sei più chi sei, «ma chi vuoi o puoi» essere. Nella contraddizione tra memoria e sguardo, tra quanto ancora impera nel ricordo e la “cosa” che si mostra adesso nella sua nitida crudezza, la scelta sembra principalmente cadere a vantaggio dello sguardo: c’è una cosa nuova da rinominare, c’è una città ruvida di macerie da rappresentare in una nuova toponomastica. Il futuro è tutto in questa reinvenzione urbana di un mondo che appare «finito», che necessita di nuovi nomi. Perché anche ai nomi si appiglia la speranza.

Tutto qui? Niente affatto. Perché la città, anche se ridotta in macerie, continua a esistere, è riconoscibile, occupa il medesimo luogo: è «distrutta ma sempre uguale». La protagonista, a un certo punto, confessa le sue paure: «temevo di camminare in una città nuova, temevo di non riconoscerla». Eppure, lo Stretto è sempre lì, si distende incurante dinanzi alle città distrutte, traccia una linea di continuità in mezzo a tanta devastazione. È in questa sovrapposizione di memoria e sguardo, di edifici e macerie, di passato e presente, che le coscienze, i sentimenti, le emozioni, il dolore, le sofferenze si muovono e si agitano. Come in una realtà doppia che ci appare comunque la stessa, dove ciò che era si scambia con ciò che è, e viceversa. Non una dialettica che invoca una sintesi, ma una tensione che si protrae, si dilata tragicamente, e che non cessa di strattonarci ora in un senso ora nell’altro, svelandoci come la realtà non sia altro, in fondo, che una continua ambivalenza di significati e di direzioni. In cui il futuro appare già presente nella continua e incessante lotta dello sguardo con la memoria, come sintetizza bene la scrittrice nella sua scrittura.

Si dirà: è una situazione estrema. Non può avere valore paradigmatico. Nel 1908 un sisma ha cancellato un’intera città: non accade frequentemente, è un evento davvero radicale. E invece no. Fateci caso, una città distrutta è una città in frammenti, dice il libro, che nel caso di Messina sono frammenti materiali, certo, ma anche (e forse di più?) sociali, economici, culturali, linguistici: non solo rovine di edifici, ma di coscienze, di sentimenti e di linguaggi. Frammenti di vite. Si inciampa nelle macerie, ma anche nella condizione umana. «Forse il problema erano i nomi», dice la protagonista dinanzi all’apocalisse che si presenta allo sguardo. Ma non è questa anche una condizione diffusa, quotidiana, tipica delle nostre metropoli, nelle quali viene a mancare proprio l’organicità, la funzionalità urbana, la “tenuta” comunitaria, si sgretolano i legami sociali – e la realtà appare davvero frammentata, composta di singolarità che non dialogano tra loro e, tanto meno, si ricompongono? Prendete Roma: l’Urbe vive in una condizione di sisma sociale, culturale, psicologico che ha prodotto nel tempo macerie e frammenti diffusi nello spazio pubblico. Il paradigma centro-periferia è saltato da tempo, non è più uno schema esaustivo. La città appare composta di tante città, aree, zone, tessuti edilizi – e in ogni caso non è facile distinguere il centro dalle periferie in senso classico, non è facile definire come tali né il centro, tantomeno le periferie. I frammenti sono singolarità che si tenta faticosamente di circoscrivere in zone omogenee per poterne dare una lettura unitaria. L’impresa stessa di delimitare evoca la difficoltà di fondo a cui si vorrebbe sopperire interpretando faticosamente, in un modo o nell’altro, l’imperterrita pluralità di cui Roma è costituita.

Una cosa appare certa, pur nell’incertezza interpretativa e nel modo faticoso con cui si cerca di collegare la memoria di Roma con lo sguardo che se ne ha e di far dialogare frammenti e singolarità che stentano persino a ritrovarsi, se non all’interno di aree e ambiti molto localizzati e circoscritti: i “punti” cui allude Walter Tocci nel suo avvincente Caleidoscopio romano. “Punti” che, paradossalmente, ricompongono i frammenti nel puntiforme, appunto, ossia nell’assenza di spazio! Un paradosso che la dice tutta sulla possibilità di attuare una sintesi urbana e di dare un “piano” alla città. Una cosa appare certa, dicevo. E qui accolgo una bella considerazione di Nadia Torrenova, che si trova proprio a conclusione del suo romanzo, come una sorta di ragione finale: «le vite delle persone sono sopraffatte da narrazioni posticce”.

Cosa vuol dire in ordine alla “catastrofe” urbana? Che essa è ancora più tale quando le narrazioni si sovrappongono alle esistenze, e gli schemi aridi alla vita. Narrazioni urbanistiche, sociologiche, politiche, istituzionali, pronte a tracciare segni geometrici sulla carta come se la città si riducesse a un foglio lucido, a una mappa catastale, a uno schema, a un modello e non a un brulichio concreto e quasi inafferrabile di persone e di nomi. Se trema ancora la notte urbana, se continua a tremare, se il sisma appare ormai una condizione “stabile” di esistenza – allora non ci resta che tentare umanamente una ricomposizione provvisoria, a metà tra memoria e sguardo, tra nomi vecchi e nomi nuovi, tra essere e dover essere, tra metafisica ed etica, restando a “cavallo” dello Stretto, nel “punto” tocciano di incontro, dove il simile si approssima all’altro in una forma almeno in grado di garantire la vita degli uomini nella sua possibile pienezza, ma senza sopraffarla. Perché la città è una forma dove la vita conta più dei luoghi. E dove i luoghi hanno senso e ci appaiono decifrabili solo per la vita che vi scorre.

 (Nadia Terranova, Trema la notte, Einaudi, 2022)