Autore
Alfredo Morganti
Lo sfondo di Se bruciasse la città, il romanzo di Massimiliano Smeriglio edito da Giulio Perrone (2021) è Roma, ma vista da una particolare angolazione, quella di Sciangai, della borgata, di un microcosmo periferico descritto come una specie di «retrovia», da cui il «brulichio di persone e animali», di pendolari e gabbiani, parte al mattino alla ricerca di «sopravvivenza», e dove ritorna la sera alla ricerca di un «nido» e di un «riparo». È una «città buia, con i lampioni mezzi spenti, invasa da rovistatori di tutte le età e tutte le risme», dove trovi «capannoni sfondati, case abusive, discariche a cielo aperto, immigrati da tutte le parti, droghe di tutti i tipi e di tutti i prezzi, sale gioco. E il buio», appunto, «perché dopo il Santuario della Madonna la consolare la riconosci dal buio pesto». Eppure in quella «periferia puzzolente piena di polvere e poco altro», Marco, uno dei protagonisti, si sente a posto, perché la «borgata» dice «è casa mia». E aggiunge: «Ci devi vivere per capirla tutta la monnezza che ci circonda». Nonostante questo senso di appartenenza, tuttavia, Marco aspira a «uscire dalla borgata a testa alta», per «non dover passare la vita dentro questo buco». Un buco nero, dove domina il buio pesto. Un’oscurità, una specie di nulla che assume paradossalmente le fattezze di elemento identitario.
Le case, nate abusivamente una in fila all’altra, si trovano tutte sullo stesso lato di strada, hanno tutte numeri civici dispari, e “numeri dispari” sono definiti, per contiguità, anche i figli di quelle case, le cui finestre danno sul nulla, verso «prati a perdita d’occhio». Se sposti le tendine vedi i «campi» e il «buio, dove […] non si riesce a vedere niente». Un frammento di città cieco, dunque, entro cui sentirsi a casa ma anche da cui aspirare a uscire a testa alta – un buco nero che ti risucchia ma da cui si vorrebbe fuggire. Ed eccola la città: una complessa articolazione di frammenti separati (e ricongiunti!) da un buio abissale – microcosmi posti attorno a un centro storico preso ogni giorno d’assalto da pendolari e gabbiani, che si presume circonfuso anch’esso da una qualche forma di oscurità. Qui si fa strada (anzi si ritrae) la forma urbis: tanti segmenti, spezzoni, brandelli brulicanti di persone e animali ognuno con regole proprie e propria fisionomia. Anzi: «ogni quartiere ha una banda, una famiglia, una batteria di riferimento. Anche i gruppi più importanti controllano solo alcune porzioni di territorio, nessuno controlla la città». Vale per la criminalità, ma qui sembra che valga per tutto. La forma si è scardinata, il trait d’union è il buio, tra i frammenti c’è una sorta di distanza abissale. Si tratta di confini che non sono confini – sennò la forma tornerebbe a marcare in qualche modo il territorio – e che uniscono e dividono contemporaneamente. Microcosmi che sono nello stesso tempo una patria e un esilio, presso cui rincasare ma da cui progettare la fuga.
La forma è talmente scardinata che «da tempo tutti hanno smesso di pensare di comandare sull’intera città», al più ci sono «guerre di confine e colpi di mano», una sorta di guerra civile interna ai singoli frammenti di quartiere, ma mai un conflitto generalizzato vero e proprio. Senza una forma urbis, i singoli spezzoni non solo non dialogano, ma nemmeno possono confliggere produttivamente tra loro – senza una “ricomposizione” (urbana, ma anche politica, perché la città è polis) il buio tende inevitabilmente a divenire l’unico elemento di confine, e quindi il solo carattere identitario tra tante singolarità che restano ben distinte tra loro, prive come sono di una dialettica di raccordo.
Il romanzo di Smeriglio, in realtà, una possibilità di riunificazione, una soluzione in qualche modo “politica” la indica, ed è tutta contenuta nel titolo del romanzo stesso e nello scontro finale, che ne costituisce il climax. «Dare fuoco alla città», qui, è come se volesse dire riunificare i quartieri sotto un nuovo comando politico, ristabilire una connessione tra i frammenti, circoscrivere di nuovo l’Urbe, ridisegnarla, restituirle forma. Se bruciasse la città, sembra dire Smeriglio, allora ci sarebbe la possibilità di tornare a rivederla, di tornare a percepirne un’immagine, di una nuova “chiarità”, di una visione oltre il buio che attanaglia i quartieri e che assedia sino all’implosione le tante Sciangai di cui essa è costellata. Se bruciasse la città, le «lingue di fuoco» e i botti «che arrivano da tutta la città» squarcerebbero la cortina buia che nega ogni visione – conferirebbero di nuovo un carattere urbano a quello che oggi appare soltanto un ammasso anonimo di frammenti e di singolarità “sparse” in uno sprawl buio, infinito e multidirezionale di persone, animali e cose, che sommerge inevitabilmente anche il centro e il suo pregio. Avremmo insomma di nuovo una “forma”. E torneremmo a rivedere la città, con tutto lo spavento del caso: «Vedere il fuoco in lontananza da diversi punti mi ha fatto anche un po’ paura. Perché a dirla tutta, mica lo sapevo che la città era così grande, non finiva mai». Nel romanzo, tale necessità della forma è spiegata mirabilmente dal professor Berlingeri, quando dice che «la forma di mercato che si afferma si mangia quella precedente», o meglio «la sussume». Non deve mai esserci un vuoto formale, insomma, perché una forma scaccia l’altra. Se ci fosse, sarebbe la fine del mercato (della polis, diciamo noi), perché un aggregato di frammenti non è mai una città nemmeno a posteriori, ma un abisso buio in cui vigono le regole di base della zoé, della nuda vita, e dove nessuno potrebbe davvero aspirare al bíos della vita buona
La soluzione è principalmente politica, perché è la politica che riunifica («accerchiare gli accerchiatori», scrive Smeriglio) e, dunque, traccia confini, apre il dialogo, regola il conflitto, si rivolge alle persone. Senza questa attività pratica, sembra dire lo scrittore, poco resterebbe della città (della polis, dei suoi cittadini, delle sue cose). Le tante singolarità continuerebbero a galleggiare in un mare indistinto – e sommarle non servirebbe, perché se c’è dialogo (e partecipazione – e conflitto) allora c’è polis, sennò no, sennò non resterebbe che una soluzione extrapolitica, tecnica: il trionfo del frammento e dell’interesse gretto – ma questa soluzione, si sa, baderebbe poco alle persone e più alle cose. E non è un caso che il trattato finale, quello che sancisce l’esito del conflitto, nel romanzo venga sottoscritto di soppiatto in Parlamento, nel cuore della politica che media e riunifica, perché lì è garantita la sicurezza dei firmatari, lì la politica davvero si compie, lì davvero essa trionfa su ogni frammentario interesse.
Tutto ciò il romanzo di Massimiliano Smeriglio lo esprime con tratti stilistici che è il momento di analizzare. Oggi è forte la tendenza della scrittura a “mimare” la tv, i serial in special modo, assumendone l’informalità, il ritmo anche frenetico, il format che impone descrizioni ambientali rapide, per cenni, privilegiando il dialogo serrato, le frasi brevi, fulminee, le battute icastiche, l’azione. Il “letterario” sembra assumere forme sempre più stranianti. È come se la letteratura in senso stretto perdesse di autonomia, a vantaggio di forme di rappresentazione “altre”: visive, per immagini, scandite fulmineamente. È un bene? È un male? Non so. Non si tratta, certo, di prescrivere un’etica alla letteratura. È un fatto, però, che questo stile molto vicino allo statuto del linguaggio televisivo, al suo ritmo, alla sua scansione rapida, finisca per caratterizzare anche Se bruciasse la città, testo peraltro ben scritto e con una sua capacità di presa.
Ne discende inevitabilmente una rappresentazione di Roma, e della sua periferia nella fattispecie, più sensibile alle modalità in cui viene raccontata e raffigurata sui media (in tv e in streaming) piuttosto che alla sua più piatta ma effettiva realtà quotidiana. Più calibrata su una rappresentazione specifica (televisiva) della cosa, che sulla cosa stessa. La letteratura è rappresentazione artistica, ma qui sembra diventare rappresentazione di rappresentazione – mimesi di mimesi. Nulla da dire, ovviamente; si tratta di scelte stilistiche di cui l’autore è pienamente e liberamente responsabile. Ma, certo, l’immagine della borgata qui si condensa totalmente attorno alla banda, ai suoi comportamenti, alla sua etica, alle sue gesta. È un’immagine tutta deviata sulla devianza, una rappresentazione forzata, caricata, che galleggia sull’immagine che ne offrono cinema e serie tv, e che è poco debitrice verso la cosa nella sua realtà. È giusto? È sbagliato? Ha ragione probabilmente Walter Siti a essere «contro l’impegno», ossia a consigliare di scindere ogni rapporto tra letteratura e “bene”. Ma è pur vero che rappresentare una rappresentazione ci fa perdere di vista proprio ciò che quelle rappresentazioni intendono rappresentare, ossia una certa porzione di realtà – sempre ammettendo che per fare arte si debba partire dalla realtà e non, legittimamente, da altro.
E che i media siano, in questo romanzo, una specie di convitato di pietra, lo si desume da alcuni cenni, per quanto fugaci, presenti nel romanzo. Dopo la battaglia, Marco è incuriosito dalla versione che ne danno i media e se ne lamenta: «le ricostruzioni più assurde che manco nelle fiction americane, mafie cinesi contro quelle nigeriane, ‘ndrangheta contro camorra e compagnia cantando. Un film a colori che se so’ fatti da soli». Più avanti, quando Roberto fa irruzione in una casa, prima spara e ferisce chi la abita, poi alza il volume della tv per coprire le grida: «era un vecchio western tipo Ombre rosse o qualcosa del genere. Rimase un attimo distratto dal film». Da una parte la rappresentazione forzata della realtà a opera dei media («il film a colori»), dall’altra la “distrazione” che la tv procura al protagonista anche in un momento di forte pathos. Effettivamente, e qui parlo in generale, la letteratura è sempre più distratta dal linguaggio televisivo o cinematografico, sempre più intenta a setacciarlo e a rappresentare rappresentazioni – a mimare le mimesi. Certo, così si arriva più efficacemente a lettori educati da ore e ore di esposizione tv o di visione in streaming. Ma questo può bastare a uno scrittore?
Eppure, questo testimonia anche un affanno reale: quello di colmare la separatezza che c’è con la cosa – l’abisso che ci divide implacabilmente dalle vicende umane reali. Un andamento culturale che è anche politico: la nostra distanza dai frammenti e dalle singolarità cresce sempre di più – anzi, è anche questa distanza a partorire frammenti, a scardinare ulteriormente la forma, a restituirci una realtà priva del balsamo della riunificazione politica e culturale. Più si resta lontani, più si sta da parte – e più la realtà rigetta ogni nostro sforzo politico e culturale di darle forma, di disegnare confini, di “accerchiarla”. Se e quando ci sarà un riavvicinamento, una riduzione della distanza tra rappresentazione e cosa, allora forse avremo di nuovo accesso al cuore della vicenda umana. Come scrive lo stesso Smeriglio quando, dopo un accenno alla necessità di dare fuoco alla città e di accerchiare gli accerchiatori, fa dire a Roberto che lo scopo è, sì, accerchiare, ma per arrivare al «cuore del sistema». Tant’è che, nel pieno della battaglia, «fuoco e botti» effettivamente «arrivarono fin dentro la villa»! Ecco, a noi questa appare un’indicazione di metodo che può valere per la città, per la politica, per la cultura e, conseguentemente, anche per i romanzi e per la letteratura di questi anni. Perché non cogliere la sfida?