Alfredo Morganti
La vera protagonista del romanzo di Nicola Lagioia, La città dei vivi (Einaudi, 2020) è Roma, o meglio lo stupefacente intreccio che la città sa imbastire con la vita dei suoi abitanti, coinvolgendone totalmente l’esistenza entro un miasma di voci, gesti e comportamenti drammaticamente disordinati. Un intreccio che lo scrittore ha provato a riprodurre, anzi a squadernarci davanti, tentando di sovrapporre e mostrare quasi in trasparenza la vicenda attuale dell’Urbe con quella dei protagonisti della narrazione. Un tentativo non sempre riuscito, va detto, ma su questo torneremo. Contesto e azione viva del romanzo, insomma, tendono a accavallarsi – città e cittadini sono spinti a specchiarsi l’una sugli altri – lo stato disastroso della vicenda urbana si accavalla con l’altrettanto tragico caso di cronaca che ha visto coinvolti Manuel Foffo, Marco Prato e Luca Varani.
Il caos urbano prova a specchiarsi nelle anime dei suoi abitanti: non solo i protagonisti, ma le loro famiglie, le altre persone che incrociano nel corso della loro esistenza, gli inquirenti stessi che indagano sul fatto di cronaca, i cittadini nella loro generalità e la vita dell’autore, che nel romanzo funge da narratore. Al disordine della città fa da riverbero il disordine che alberga nelle anime dei due protagonisti, al male esterno quello interno, profondo, alla vita della comunità quella dei singoli. Lagioia coglie acutamente il nesso tra città e anima, che rappresenta già nei grandi filosofi dell’antichità il tema da svolgere ogniqualvolta si esiga per la filosofia un compito non di mera contemplazione dell’essere, ma di attiva partecipazione alle vicende umane.
L’uomo non deve solo vivere. La sua funzione, il suo compito, il suo ergon “è nella attività dell’anima”, scrive Mario Vegetti ne L’etica degli antichi (Laterza, 1989), commentando La Repubblicadi Platone. L’uomo ha un obiettivo più alto della mera sussistenza vitale, e questo obiettivo è la felicità. Non del singolo, ma della comunità. Una felicità che deriva per necessità dalla giustizia, intesa come ordine gerarchico e armonico secondo natura – come prevalere della razionalità e dell’idea di Bene sulla massa delle pulsioni che albergano nella città e nell’anima, e che scatenano conflitti dilanianti. Se la giustizia è armonia, essa prende forma nella ricomposizione dei frammenti e dei conflitti. Platonicamente: nell’instaurazione dell’Uno e dell’Intero nel campo reciprocamente speculare della città e dell’anima.
Costruire un ordine nella comunità equivale a fare la stessa cosa per il singolo. “L’ordine della città è possibile solo se le anime sono ordinate” scrive Carlo Galli nel recentissimo Necessità della politica (Il Mulino, 2021). “Nella ricerca sul giusto qual è quella realtà analoga a cui tu potresti guardare?”, chiede Adimanto. E Socrate, retoricamente: “Te lo dirò. Non affermiamo forse che esiste una giustizia del singolo uomo e una giustizia dello Stato intero?” (Platone, La Repubblica, 368e, in Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, 1991). Le anime racchiudono in sé quanto di più vitale è contenuto nella polis. C’è qui come un gioco di specchi, una rifrazione. Pensare la città, senza pensare quanto di più profondo alberga negli uomini che la vivono, è da stolti. La città è costituita in primo luogo dai cittadini, dalle loro forme di vita, dalle anime che si dibattono al suo interno, governanti compresi, tutte partecipi della stessa tragedia del vivere, tutte scosse da conflitti interni ed esterni.
Nel libro di Lagioia, questo reciproco specchiarsi diventa un progetto di scrittura, e assume il tono di un impegno culturale di fondo, che eccede l’ambito stilistico. Se avesse soltanto voluto narrare la vicenda di cronaca, lo avrebbe fatto in modo più asciutto, con un minor coinvolgimento personale. E invece, Roma e il suo caos emergono costantemente nella trama, si incuneano nella narrazione, tendono a darle carattere, la “incorniciano”, le conferiscono un senso. È come se Manuel, Marco e Luca fossero impegnati a vivere nella loro singolarità il carattere vasto della comunità in cui sono calati, esibendo la propria anima disgraziata quale simulacro dell’anima collettiva – come se la tragedia trafiggesse nello stesso tempo le anime e la città nella loro interezza e articolazione e fosse una sorta di nemesi urbana, di caos che introietta e intercetta caos, macrocosmo che dilania microcosmo (e viceversa). Il testo tradisce letteralmente questo sottotesto. “Roma era violenta sul piano psichico”, annota Lagioia, e aggiunge, in un altro luogo del romanzo, che tra Manuel e Marco sembra scattare, a un certo punto, una sorta di “contagio psichico”. Un impulso reciproco, immediato, intuitivo, del tutto antecedente alle parole stesse. “Qui tutti odiano tutti, e prima ancora odiano se stessi”, aggiunge lo scrittore.
Ecco il circolo chiuso della malvagità che appesta le anime e, per contiguità, gli ambiti urbani. Lagioia si chiede, a questo proposito, se a Roma non vi sia una “malvagità dei luoghi” stessi, e una persistenza fisica del male, una sua continuità e un suo radicamento inter-esistenziale, come un filo rosso che stringe a sé i viventi e gli spazi attorno. Assistiamo a un “conficcarsi” nel singolo del conflitto pubblico, e alla riproduzione, presso la città intera, delle tensioni che rodono l’anima. Insomma, sintetizza Lagioia, “la vita di ognuno getta […] una luce diversa sulla città”. Il singolo vive in empatia con l’umanità attorno, anche da emarginato, da disagiato, anzi tanto più. E la vicenda non circoscritta e drammatica delle anime e delle singole forme di vita si proietta con irruenza sulla vita intera della comunità, la segna, la rimanda, la decide, facendo emergere con forza il problema della giustizia per il singolo e, nello stesso tempo, per la comunità cui appartiene.
Cosa ne traiamo, intanto? Questo: che se la città (la polis intesa come Stato, ma anche come semplice contesto urbano) è in primo luogo una comunità di anime, allora per governarla, per edificare la giustizia come ordine, non ci si deve occupare in prima istanza (e forse solo) dei luoghi, ma dei cittadini, sia intesi nella loro singolarità, sia mediati dalle loro forme di vita. La politica che si occupa di cose e luoghi non può non andare a cozzare con le forme di vita che la fronteggiano: forme pratiche, mobili, che hanno fine in se stesse e che si oppongono a ogni tentativo di renderle puri mezzi per un fine progettuale avulso. Gli strumenti di governo non possono restare impassibili dinanzi all’andamento seghettato, irregolare, dei soggetti che abitano il contesto urbano (e, in senso più lato, la società). Per dire: l’urbanistica che disegna linee sulle carte ignora programmaticamente quelle anime, pensa la città come svuotata, come ridotta alle sue cose: una sorta di ground zero pulsionale nell’illusione che la scienza e il sapere (e la tecnica, e la comunicazione) da sé possano tutto, anche fare il vuoto e occuparlo successivamente con purissime idee. In questo modo l’urbanistica non riuscirà a porre davvero ordine ed edificare la giustizia (che è giustizia delle donne e degli uomini, non delle cose, dei luoghi, degli spazi, degli scenari urbani), e dunque a indicare una linea di razionalità o almeno di ragionevolezza alle pulsioni, ai desideri, agli impeti, agli interessi gretti, spesso all’ira di cui i singoli, la comunità urbana e la città nel suo complesso sono, in simultanea, portatori.
Va detto che è essenziale distinguere tra forme di vita e forme del sapere, tanto più se dietro queste ultime si annida una qualche volontà di potenza. Non dobbiamo identificare a priori il campo dell’agire pratico (la prassi) con quello della teoria (la scienza – e quindi la tecnica che ne deriva). La crisi dei saperi e dei nostri apparati concettuali, e la parallela crisi delle forme, che hanno perduto unità e compattezza anche discorsiva (come spiega Christian Salmon nel suo Fake, Laterza, 2020), lambiscono solo lateralmente le forme di vita pratica, che sono mobili per statuto, fini a se stesse, “per lo più” congerie di opinioni, che “agiscono” nel mondo umano e non pretendono di occuparsi o contemplare realtà stabili e uniformi come tenta di fare la scienza dell’essere. Né pretendono la stessa stabilità a cui aspira l’episteme. La forme di vita pratica (e tra queste pongo i partiti, le istituzioni, le associazioni, le comunità) sono i motori dell’agire umano, quello stesso agire che modifica le cose in corso d’opera (e ne è modificato), incuneato nel vivo stesso dell’azione politica. In assenza di questa mobilità pratica e del supporto che essa offre al pensiero, la teoria diventa mera speculazione, un gioco riflesso in se stesso, e perde ovviamente di consistenza (sia teorica sia pratica). È tutta qui la storia del cosiddetto rapporto tra teoria e prassi a sinistra in questi ultimi trent’anni, nell’assenza progressiva di un agire pratico (un partito, per dire, oppure istituzioni funzionanti) che ha prodotto un fatale quanto traumatico deragliamento della teoria. La necessità della politica è anche la necessità, per i filosofi, di avere una forma pratica, un agire concreto su cui innestare il pensiero.
Ma torniamo a La città dei vivi. Il romanzo di Lagioia cammina su un doppio binario tragico, quello dei singoli protagonisti e quello della comunità. Tenta di sovrapporne i destini, di mostrarne (almeno ritengo) la reciproca specularità: anime malate, città malata, e viceversa. Ma se la vicenda di Foffo, Prato e Varani è molto ben raccontata, con encomiabili effetti di pathos, quella della città, di Roma, appare invece avulsa, sembra circondare le vicende dei tre senza mai davvero sovrapporsi a esse. Permane un fondo di estraneità, di astrazione, di “sovrappiù”. Come se il tentativo di fusione stilistica fosse fallito, e non fosse stato capace di mostrare il connubio di anima e città, ma soltanto di esibire un contenitore urbano disordinato di anime disordinate, senza alcuna reciproca, tanto meno organica, implicazione. I passaggi tra miasma urbano e conflitti pulsionali delle anime appaiono forzati, si sente il salto, si percepisce come un fossato, una forzatura stilistica, che in parte limitano l’efficacia della narrazione nel suo complesso. Può darsi che mi sbagli, ma è anche a causa di questa forzatura che abbiamo di Roma un’immagine caricaturale, grottesca, forse riduttiva, francamente banale. Certo che l’Urbe non è un modello di virtù e di organizzazione, certo che i problemi della Capitale sembrano sempre più intricati di quelli di una qualsiasi altra città italiana. Tuttavia, questo accanimento su Roma mi sembra che devii l’attenzione dalla sostanza e mostri d’emblée come, ecco il punto, le forme del sapere, i loro tentativi di sintesi, rappresentazione e mediazione oggi manchino in modo consistente l’obiettivo della comprensione di una realtà invece complessa, articolata, e davvero molto distante dall’immagine che siamo indotti a trarne. Dov’è, quindi, che il romanzo funziona? Nella capacità di narrare la vita dei protagonisti, nello stare dentro e conficcarsi nelle loro storie “praticamente”, piuttosto che nel tentativo di mostrare Roma nella sua “verità”.
In che modo, allora, Lagioia tenta una sintesi tra sguardo gettato sulla città e suo riverbero sulle anime dei cittadini? Ecco la mia ipotesi: la storia che lo scrittore narra è anche la sua (o, meglio, quella del narratore del libro). A un certo punto la sua vicenda personale si divide da quella di Roma, con il trasferimento in una città dove tutto invece funziona. All’inizio tutto bene, poi però la nostalgia tende a prevalere, e l’Urbe continua a esercitare in lui una profonda attrazione. Tant’è che vi ritorna nonostante il caos e il disordine. Rinasce, così, una relazione profonda tra la città e l’anima che nostalgicamente vi rincasa: c’è finalmente una sintesi, una “riunione” – c’è una ricongiunzione che funziona mentre prima era parsa fallita anche sul piano stilistico. Che cosa unifica qui anima e città, che cosa non pregiudica più l’unione? Perché scorgiamo finalmente connessi Roma e questa sua singola anima, che cosa li riappacifica a condizioni, comunque, non mutate, perché la città resta sempre un miasma e il disordine continua a imperare? Questa cosa è l’eros, l’amore che si prova per essa, il sentimento di appartenenza a cui non c’è rimedio. Roma si ama come si amano tutte le cose: per ciò che esse sono, senza “volerle” cambiare secondo un proprio progetto ideale, oppure tecnico, al limite utopico. Solo l’eros rende possibile il miracolo di un’unione altrimenti mancata, quella tra la rappresentazione della città offerta dal sapere (e dai media: Lagioia cita spesso articoli di giornale quando propone il suo tragico affresco di Roma) e lo scavo esistenziale e mentale di due giovani che si dibattono all’interno del loro furibondo caos psichico.
Eros è ciò che fa muovere verso l’oggetto amato, eros è il desiderio in atto, eros è il dio che ci ruba l’intenzione e l’attenzione per dirigerle capricciosamente verso l’Altro. Verso la sua sorpresa! Là dove il sapere, la teoria, la scienza non sanno o non possono da sole fornirci un’immagine adeguata della cosa, è la cosa stessa ad apparire di colpo, a farci innamorare, a spingerci a capire ciò che appare tragicamente incomprensibile ai concetti – e ai media che oggi li formulano, spesso maldestramente. Così per Roma. Amore verso la città e considerazione “politica” delle sue forme di vita pratiche, potrebbero essere le due chiavi per accedere sia alla sua anima profonda, sia a quella di chi la abita. Lo ripeto anche provocatoriamente, ma non solo: quando avremo un’urbanistica delle persone, invece che un’urbanistica dei luoghi urbani, quando la politica si distoglierà principalmente dalle cose e dagli spazi idealmente “svuotati”, solo allora, forse, una quota considerevole di caos sarà finalmente trattenuta e riordinata, dando forma a quella giustizia, a quella regolazione produttiva del conflitto, la cui mancanza si traduce, in primo luogo, nell’immagine di una città sostanzialmente incompresa, misconosciuta, e da molti persino disprezzata.
Mancano Icone dallo Spirito Elevato