© Daniele Balicco

Le immagini spettrali delle aree monumentali di Roma durante il lockdown del 2020 hanno reso visibile la crisi di identità del centro storico. Se la grande bellezza veniva, in qualche modo, esaltata dall’assenza di turisti, quella stessa assenza produceva un profondo senso di tristezza che sottolineava il dramma che l’intero paese stava (e sta ancora) vivendo. L’intera area sembrava abbandonata, assomigliando in qualche modo a un luna park chiuso. Senza turisti il cuore della città è come se smettesse di pulsare; i residenti, essendo sempre di meno, non possono darle – più che tanto – vitalità.

Quelle immagini hanno reso ancora più pressante la domanda centrale connessa alla governance, anche economica, del centro storico (e delle zone limitrofe). Essa riguarda la sua reale “vocazione”, le funzioni che esso debba svolgere. Più in particolare, ci si deve chiedere se esistono buoni motivi per ritenere che il centro della città debba smettere di essere quello che è diventato, vale a dire un distretto che dedicato principalmente a offrire servizi a soggetti esterni alla città (agli italiani in generale, viste le funzioni di capitale; ai fedeli della chiesa cattolica in pellegrinaggio; ai turisti).

È una domanda la cui risposta non è scontata: tutti gli operatori di questi servizi considerano le funzioni del centro di Roma per il resto della città, del tutto accessorie. Nel discorso pubblico, ormai, c’è un’accettazione dello stato delle cose e si considera un fatto naturale che i residenti siano spinti fuori dal centro, oppure che alla domanda turistica – così come si presenta – non ci si possa sottrarre.

In una riflessione sulla governance di Roma, e quindi anche del suo centro storico, e della sua economia, diventa centrale stabilire quali debbano (e possano) essere le funzioni del centro storico della città e, a partire da queste, quali siano le attività economiche in esso svolte. L’economista e urbanista Jane Jacobs (1969), negli anni ‘60, sosteneva che la vitalità delle città dipende dal fatto che in esse, o nei loro quartieri e zone, si svolgano una molteplicità di funzioni[1]. L’idea di fondo è che l’esercizio di diverse funzioni comporta la presenza continua e – si potrebbe dire – il controllo del territorio da parte di attori di tipo diverso interessati alla buona gestione della città, alla promozione della sicurezza, e agli scambi tra diversi tipi di persone. La questione continua ad essere di grande rilevanza oggi per Roma, vista la preponderanza crescente dell’offerta di servizi all’esterno e, in particolare, la sfrenata crescita del cosiddetto “overtourism” – bloccata dal COVID, ma per quanto? – (Celata e Romano, 2020) che sta spiazzando qualsiasi altra funzione o attività.

Che l’intera città di Roma diventi più “compatta” di come non sia adesso è un obiettivo ragionevole e altamente desiderabile. Bloccare la tendenza all’espansione consentirebbe, in prospettiva, l’ottimizzazione dei servizi, la diminuzione del consumo di suolo, la diminuzione del traffico privato. Il fatto importante è che questa opzione dovrebbe riguardare non solo l’intera città e le sue periferie, ma anche la città storica, e si potrebbe pensare a promuovere un ritorno in essa dei residenti che, da lungo tempo, la stanno abbandonando (Declich 2016). Favorire attivamente il ripopolamento del centro storico sarebbe nell’interesse di tutti, anche di chi non è coinvolto direttamente. Questa, d’altra parte, è un’idea che è stata recentemente proposta da autorevoli urbanisti come De Lucia e Cervellati (Guermandi 2018).

Il centro di Roma, tuttavia, è troppo complesso – per l’immenso patrimonio culturale presente, per la sua centralità per la cristianità oltre che per il suo essere capitale – per pensare che la sua rinascita dipenda solo dalla progressiva ripresa della funzione residenziale, pur importantissima per le ragioni suddette. Una più intensa funzione residenziale è in conflitto con lo svolgimento di queste funzioni? I residenti del centro storico servono o sono di intralcio? Che interesse hanno i romani delle altre zone a preservare, se non a rinvigorire, la funzione residenziale del centro?

Si propone l’idea che un centro storico che “parli” a tutta la città oltre che al resto del mondo deve poter svolgere un numero ampio di funzioni a partire da quelle insediative.

La città ne guadagnerebbe in compattezza, naturalmente, ma anche in termini di vitalità del centro storico. Un centro storico dedicato principalmente alle funzioni “rivolte ai non residenti”, come avviene ora, accoglie gli stessi romani come se fossero turisti e si configura come un luogo alieno al resto della città. Al contrario, un centro storico che è anche uno spazio di vita per tutti i romani, e che accoglie funzioni quali quella di luogo di produzione della cultura e di scambio tra chi produce cultura e la cittadinanza, (ri)diverrebbe un’area di grande significato per tutti. Più in particolare, si può ritenere che garantire che il centro svolga una funzione residenziale – che significa dotarlo di servizi adeguati (a partire dal mantenimento di quelli esistenti) è un modo per garantire che la totalità di queste funzioni venga offerta in maniera equilibrata e che la città non sia usata in modo predatorio. Il turismo, in particolare, tende ad avere una natura di questo tipo (il turismo “mordi e fuggi” e l’overtourism; si veda Montanari 2015, Gainsforth 2019) mentre i residenti, o gli operatori economici di settori non connessi al turismo (artigiani, professionisti), in generale hanno un interesse a che la città sia vivibile (servita, pulita, sicura, facilmente accessibile in maniera ordinaria) e non solo vedibile. Con più residenti il centro diverrebbe un luogo pubblico che tutti possono frequentare ma, come tutte le zone residenziali, nel rispetto di chi ci vive.

È, quindi, auspicabile promuovere e sostenere nel tempo un cambiamento delle modalità correnti di funzionamento del centro storico e delle altre zone limitrofe. Il punto è che sono all’opera forze, in particolare di natura economica, che hanno determinato la situazione esistente.

La questione, pertanto, è connessa a quella della governance economica della città. In relazione al Centro Storico si dovrebbe, partire dalla scelta di quali processi si intende gestire[2] a partire dalle decisioni circa l’uso degli spazi urbani. Bastano, qui, brevi cenni a problematiche piuttosto dibattute. Una parte dell’economia del centro storico – in particolare le botteghe artigiane, le librerie, il commercio di prossimità, cinema e teatri – è costituita da attività rese impossibili non solo dall’enorme domanda di ristorazione e intrattenimento, ma anche dal fatto che a turismo e movida non sono stati posti freni di alcun tipo, nonostante che spesso si violino regole minimali, a iniziare da quelle per l’occupazione di suolo pubblico (si pensi, ad esempio, al fenomeno che sulla stampa locale viene chiamato “tavolino selvaggio”). Inoltre, la possibilità di dedicare ingenti risorse ad attività molto lucrative, ha mandato fuori mercato attività tradizionali e con margini di guadagno più bassi (artigianato, commercio di prossimità), che non possono fare fronte – tra le altre cose – agli incrementi dei valori immobiliari[3]. La politica dei trasporti per i turisti è stata anch’essa basata sull’offerta privata – i pullman turistici – che ha pesato sulle condizioni del centro[4]. Ancora: esiste ormai una consolidata letteratura che mette in luce quanto l’espansione del fenomeno degli affitti brevi sia deleterio per la qualità della vita nelle città storiche, non solo in Italia. Roma ne è particolarmente colpita (Gainsforth, 2019 e Celata e Romano, 2020).

Come si è detto, questi fenomeni hanno a che fare con la gestione dello spazio: uso del suolo pubblico, trasporto, spazio abitativo. Si è assistito a una mercificazione selvaggia e incontrollata degli spazi[5] a detrimento dell’interesse pubblico (spesso, nei commenti sull’economia del centro storico, l’unico interesse pubblico citato è il fatto che gli attori economici che si avvantaggiano dello stato corrente delle cose “fanno PIL”…) nonché, spesso, a dispetto delle regole esistenti. Si è finito, poi, per accettare l’idea che ciò che avviene in conseguenza dell’andamento di mercati non adeguatamente regolati (immobiliare, turismo) è intrinsecamente buono per la città. È, questo, un punto di vista parziale e distorto, che non considera tutti i fenomeni negativi generati, tra i quali vanno inclusi anche i danni economici, spesso non contabilizzati e che sono a carico della generalità dei cittadini.

L’aneddotica, in realtà, porta a vedere lo sfruttamento economico del centro quasi come una “guerra” in cui diversi attori cercano di occupare uno spazio, farlo proprio e imporre le loro regole di sfruttamento; o quanto meno si ha l’idea che ci sia in corso una sorta di accumulazione originaria da parte di coloro che, attraverso l’appropriazione e l’uso dello spazio urbano, finiscono per decidere come vivrà e produrrà la città in futuro. In generale, una volta affermato un dato “modus operandi” connesso a certi spazi pubblici, l’argomento diventa la difesa dei livelli occupazionali (di chi lavora nel settore, incluso quello della ristorazione, nel quale esiste il fenomeno del precariato). L’affermarsi di questa economia nel centro di Roma si basa sullo sfruttamento della rendita, che aggiunge ben poco valore al reddito complessivamente prodotto. Il risultato di tutto ciò è che abbiamo un sistema di trasporti pubblici, anche nelle zone centrali, al di sotto di qualsiasi standard; il settore dell’accoglienza viene sfidato non sul piano dell’efficienza industriale nella gestione di aziende complesse come gli hotel, ma su quello della gestione di contratti d’affitto e del subappalto dei servizi di pulizia[6]. È opportuno notare, a questo proposito, che le condizioni che rendono possibile questo stato di cose sono, in primo luogo, l’espulsione dei residenti dal centro storico e, in secondo luogo, se non l’esclusione della generalità dei romani, almeno la loro totale irrilevanza nel novero dei suoi frequentatori (il centro è poco accessibile e non è dedicato ad altri usi per i romani che non siano la sola movida che non a caso, essendo servita da interessi speculativi, tende a diventare “selvaggia”). Si ha, come conseguenza, un centro storico poco vitale, difficile da vivere per i residenti rimasti, sovraffollato e sovrautilizzato in alcune sue parti (le zone della movida e del turismo di massa) e vuoto in altre. Il centro storico è, ormai, un luogo che ha perso la sua importanza per la generalità dei cittadini romani, trattati, quando decidono di frequentarlo, al pari dei turisti (penalizzati da prezzi esorbitanti nonché da un’offerta di servizi ridotta – si pensi alla chiusura dei cinema – e di scarsa qualità).

L’economia del centro storico sembrerebbe essere governata di fatto sulla base di una specie di laissez faire dissimulato, in cui alcuni attori economici di fatto dettano l’agenda perseguendo il loro interesse specifico in un complessivo vuoto di controllo circa gli indirizzi che vengono effettivamente dati. Il tutto, cioè, sfruttando a fini privati il bene pubblico rappresentato da un’area di grandissimo pregio. La patente inadeguatezza della classe politica che attualmente guida l’amministrazione comunale ha solamente peggiorato la situazione, ma quella in corso è una deriva in atto da molto tempo, ben rappresentata dal processo di continuo spopolamento (Declich, 2016).

Chiaramente, il centro della città deve essere governato pensando anche alle attività economiche al servizio delle funzioni che in esso si svolgono. In questo quadro, la governance economica della zona centrale della città dovrebbe partire dal riconoscimento del fatto che certe funzioni urbane ne fagocitano altre. Mantenere e promuovere la residenzialità in centro, oppure il commercio di qualità o quello di vicinato muove interessi e attori economici meno potenti di quelli che servono altre funzioni. La velocità delle dinamiche economiche attivate dalla rendita immobiliare, per esempio, è molto maggiore di quella attivata dalle scelte insediative. Bisogna anche sottolineare che un residente agisce da solo nella sua scelta insediativa, ma viene incentivato o disincentivato, quando non proprio obbligato, in conseguenza di decisioni economiche fatte da attori potenti, che agiscono velocemente e con minori vincoli. Subirà sempre, pertanto, le scelte degli altri che ovviamente non considerano le sue necessità (la catena internazionale di negozi di abbigliamento sostituisce un negozio di alimentari nel giro di poche settimane…). Governare l’uso degli spazi urbani nelle zone centrali deve, pertanto, tenere in considerazione questa realtà e prevedere una scelta di quali interessi devono essere difesi (per esempio, i residenti o gli operatori del turismo?). Sostenere i residenti, peraltro, implica politiche che devono durare nel tempo, visto che la scelta insediativa non risponde solo a logiche economiche e, comunque, non di breve termine come quelle legate alla rendita o alle attività di mercato. Intervenendo sulla movida – che è una delle attività economiche che ha spiazzato il tessuto commerciale nelle zone centrale – l’ultimo Nicolini si chiedeva: “Perché non reintrodurre almeno – partendo da zone come Campo de’ Fiori – il controllo delle destinazioni d’uso sostenibili? Qualcosa di analogo ai vecchi piani del commercio, che Rutelli abolì negli anni Novanta, senza pensare di aprire la strada alla trasformazione del centro in uno shopping mall a cielo aperto, con bar e ristoranti.” (Nicolini 2009)

Se interpretiamo correttamente questo passaggio, riteniamo che esso non contenga solo una critica alla logica libertaria/liberista che conduce al sequestro di interi quartieri da parte delle attività economiche collegate alla movida o al turismo. Quella che Nicolini sottitendeva era una idea del centro storico che – seppur in un breve articolo –poteva costituire una base per un rinnovato quadro intepretativo.

La governance economica del centro di Roma richiede una visione del “che fare” e, nel contempo, anche degli attori con cui discutere e promuovere il governo delle dinamiche che coinvolgono il centro, nonché delle modalità del loro coinvolgimento. Sono, questi, i termini della questione, visto che non è detto che ciò che potrebbe essere giusto fare per il centro di Roma trovi attori interessati o procedure per farlo. Gli attori presenti possono essere poco sensibili o addirittura contrari a un cambiamento dello stato della situazione. È illuminante, a questo proposito, uno studio (Aguilera et al. 2019) che mette in luce come in 3 grandi città europee (Barcellona, Parigi e Milano) il processo di regolamentazione degli affitti brevi è stato gestito in maniera completamente differente a seconda di come la questione è stata impostata (policy framing) dai differenti attori presenti.

Tuttavia, impostare in maniera adeguata – quindi senza le semplificazioni “mercatistiche”, anche nelle versioni “libertarie” – il discorso politico sul destino del centro di Roma è una condizione necessaria per risanare la situazione. La governance economica del centro dovrebbe partire dal riconoscimento che il turismo e la sua dinamica non sia la principale, se non esclusiva, funzione da promuovere. Si deve, naturalmente, pensare che il centro storico debba continuare ad essere un luogo che parla all’Italia e al mondo ospitando l’alta rappresentanza della Repubblica con le istituzioni parlamentari e i servizi connessi, e il centro della cattolicità. Dovrebbe, tuttavia, ridiventare un luogo che parla alla città stessa, incrementando la residenza e i servizi ad essa connessi, nonché diventando il luogo in cui il grandissimo distretto culturale e della ricerca romano trova una occasione di scambio con la città (certo, non l’unico). La residenza, come propone De Lucia, potrebbe essere fortemente incentivata con politiche specifiche, per esempio utilizzando il patrimonio pubblico a questo scopo (Guermandi 2018)[7]. Dovrebbero essere, se non eliminate, quantomeno, fortemente disincentivate funzioni direzionali di servizio come quelle rappresentate da sedi di ministeri, assessorati, direzioni di imprese, ecc. Si tratterebbe di riprendere, aggiornandole, le vecchie proposte di Cederna (si veda Insolera, 2011) e di metterle, finalmente, in pratica. Ovviamente, anche l’accoglienza di turisti dovrebbe essere ridotta al centro e sparsa per la città (i turisti dovrebbero poter accedere al centro storico, ma non risiedere nelle abitazioni del centro, il che implicherebbe anche una riqualificazione del resto della città che potrebbe avvantaggiarsi di questa multifunzionalità che ne deriverebbe).

Naturalmente, una accezione di questo genere della governance del centro prevede alcune condizioni affinché sia praticabile. C’è bisogno, in primo luogo, che la questione del centro storico (e della città storica), delle sue funzioni e della residenzialità vengano messe al centro dell’agenda pubblica, nel quadro di una visione più generale del futuro della città.

In secondo luogo, è necessario riconoscere che le politiche per cambiare la gestione del centro necessitano di attori pubblici forti e autorevoli, in grado non solamente di produrre atti normativi adeguati, ma anche di dare continuità alle politiche per periodi di tempo congrui[8]. Forza ed autorevolezza dell’attore pubblico, tra l’altro, sarebbero essenziali sia nella gestione diretta dei servizi, sia nel controllo dei privati a cui, eventualmente, tali servizi sono affidati in modo che si rispettino la legge e gli obiettivi di policy.

È importante, in terzo luogo, che si determini la condivisione e si favorisca il consenso tra diversi attori collettivi, e non solo tra i portatori di interessi economici particolari, di una visione del centro storico di lungo periodo. In questo quadro, gli attori vanno considerati nella loro differenziazione e non possono essere rappresentati solo come consumatori, imprenditori e attori (economici) pubblici, vale a dire in quanto soggetti partecipanti al mercato. Le politiche che dovrebbero ridare vitalità al centro storico devono coinvolgere la cittadinanza (sia i residenti che i non residenti nel centro storico), gli attori politici, culturali e civici che sono interessati – e coinvolti – nel riportare funzioni urbane nel centro e, ovviamente, gli attori economici che sono collegati alla gestione delle attività economiche che renderebbero possibile lo svolgimento di queste funzioni.

Il consenso e la condivisione, infine, non si determinano in maniera automatica, solamente sulla base della bontà delle soluzioni proposte. È necessario, pertanto, che si creino luoghi in cui ci sia una interlocuzione pubblica, aperta, continuativa e fattiva tra i diversi attori in modo che le scelte possano essere discusse, approfondite e in seguito aggiornate, nonché valutati i risultati[9]. Il processo di governance, infatti, implica anche conflitti, mediazioni, alleanze, tutte cose che vanno gestite.

[1] Più di due, diceva Jacobs, che reagiva alla sfida del suo tempo basata sull’idea zonizzazione, ogni zona ha delle funzioni prevalenti (Wickersham 2000)

[2] Per una trattazione del concetto di governance, si veda il Dossier 10.

[3] Spesso, nella pubblicistica locale emergono anche notizie circa il fatto che questo contesto economico è particolarmente soggetto alle infiltrazioni malavitose (La Repubblica, 2017; Regione Lazio, 2018).

[4] La scelta fatta subito dopo il Grande Giubileo dell’anno 2000 di consentire che il trasporto dei turisti fosse lasciato alle ditte private, ha fatto sì che gli spazi pubblici – strade e parcheggi – del centro fossero invasi dai pullman privati (con il risultato che costose infrastrutture pubbliche per lungo tempo sono state sottoutilizzate, come nel caso del Terminal Gianicolo, e la perdita di una fonte di offerta da parte del trasporto pubblico). La giunta Raggi ha introdotto varie restrizioni, ma non sono stati presi provvedimenti sistematici per soddisfare la domanda di mobilità dei turisti.

[5] Ci si riferisce sia allo spazio pubblico e collettivo, per esempio quello condominiale, ma anche alla “messa in vendita” degli spazi di vita privata.

[6] Si potrebbe parlare di una sorta di rendita turistica. A questo proposito si può pensare alla nefandezza della metafora del turismo come petrolio di Roma e l’uso dell’idea che Roma sia soggetta alla “malattia olandese”, si veda Declich, 2013 ripreso da Montanari, 2015

[7] De Lucia ha redatto un disegno di legge che è stato poi presentato in Parlamento contenente disposizioni volte alla tutela dei centri storici e al loro ripopolamento http://www.bianchibandinelli.it/newsite/wp-content/uploads/2018/11/Proposta-di-Legge-Centri-storici.pdf

[8] E’ necessario generare e onorare aspettative di lungo periodo Se questo non avviene, qualsiasi sforzo di gestione dei processi di definizione e di implementazione delle policy finisce per non avere impatti sul modus operandi degli attori economici. Questo implica la promozione di narrazioni adeguate, si veda Declich 2014, 2020, Beckert, 2016.

[9] Caudo, l’assessore all’urbanistica dell’amministrazione Marino, promosse forme di consultazione della cittadinanza sulle politiche urbanistiche nell’anno e mezzo in cui durò la giunta; attrezzare la macchina amministrativa comunale affinché svolga con efficacia questo ruolo potrebbe essere una innovazione da promuovere, tale da dare forza all’attore comunale anche rispetto agli eventuali attori privati chiamati, poi, ad implementare una o più politiche.

Bibliografia
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  • Declich, A. (2014). Aspettative e narrazioni: spunti per una riflessione interdisciplinare. “Quaderni di Sociologia” (64), 111-138.

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