L’angoscia, non solo per chi scrive, nasce dal timore che non sia l’ultima calamità. Per fisici e meteorologi, il legame con i cambiamenti climatici è indiscutibile: a causa dell’aumento delle temperature, ci attendono fenomeni più intensi ed eventi estremi più frequenti, sia che si tratti come ieri della siccità, oggi delle piene, domani delle ondate di calore o delle tempeste di vento. Al di là dei dati sui millimetri di pioggia o i gradi centigradi di anomalia, ciò che gli esperti quindi suggeriscono è piuttosto un mutamento di cornice entro cui contestualizzare tanto la riflessione quanto le risposte istituzionali.
Le foto sono chiare: ancora una volta i fiumi hanno distrutto strade costruite sin dentro agli alvei, sfondato ponti troppo radenti i livelli di piena, allagato case e capannoni edificati in mezzo alla golena. Certo ormai si riconosce ciò che sino a qualche anno fa era impensabile e si ammette il consumo di suolo tra le concause del disastro, ma questo semmai acuisce lo sconcerto per l’ennesima crociata in favore di argini, vasche, escavazioni di ghiaia e pulizie delle sponde: nel post-evento il divampare della polemica dissimula la contraddittorietà della perdurante propensione a cementificare gli alvei, oscurando l’algida contabilità di quali e quante di queste opere si siano davvero rivelate efficaci, ben localizzate, non sovradimensionate o mantenute in condizione di funzionare.
Così può avere voce l’Associazione dei Consorzi di Bonifica col suo inossidabile programma di piccoli invasi, lo stesso proposto appena qualche settimana fa contro il problema opposto della sete delle campagne; riappare Italia Sicura, quasi che la parola d’ordine possa ancora credersi la “messa in sicurezza”, dimenticando che all’epoca, dopo tanto magnificare la “cabina di regia” a presidio della rapidità d’intervento, nei cassetti aperti dagli enti, di progetti sensati e veramente cantierabili non c’era neanche l’ombra.
È come se, nella bulimia del fare, sfuggissero ogni volta i vizi di fondo di un programma di opere settoriali, indifferenti agli impatti di un’ulteriore artificializzazione fluviale, e le velleità di una visione carente della pur minima concezione unitaria della difesa del suolo, mirata al governo integrato delle acque alla scala del bacino idrografico.
Il grido di dolore dei nostri fiumi
Le riprese dall’alto di questi giorni restituiscono, con il dramma per la popolazione, una precisa geografia delle aree alluvionate: dal rilevato infrastrutturale che ha deviato verso le abitazioni l’impeto della corrente, ai campi sommersi nelle zone un tempo pertinenza delle acque, in quello spazio che nei millenni il fiume si è conquistato e ha morfologicamente adattato proprio per esondare le portate in eccesso.
Se però si guarda con occhi memori delle passate alluvioni, si ode levarsi anche il grido di dolore dei nostri fiumi. Come il vecchio albero crolla dopo esser stato malamente potato, così i nostri fiumi distruggono le terre che han reso fertili e vitali: imbrigliati da regimazioni sempre più strette, gli alvei cementati e sconnessi dalla falda, isolati se non privati della vegetazione riparia che rallentava il flusso di corrente, questi fiumi ridotti a canali transitano acque che non hanno alternative dal correre al mare; così sempre più rapide, sempre più furiose, sradicano ed erodono sino a demolire tutto ciò che incontrano.
Non si ricorda un evento passato il quale si sia deciso di arretrare gli argini o sbancare canalizzazioni, di riconnettere per tutelare gli ambienti umidi, le lanche e mortizze in fregio all’asta principale, di sacrificare spazi all’uomo per restituirli al fiume; eppure basterebbe osservarne i meandri per capire l’equazione idraulica che a parità di portata smorza l’energia del deflusso: allargare l’alveo, ridurne la profondità, lasciarlo divagare, libero di riabbracciare i suoi ecosistemi ripariali.
Fare comunità
Dorde Panic, il cuoco che a Cesena si è lanciato a salvare un bimbo e sua madre dall’onda di piena, ha giustamente conquistato le prime pagine di tutte i notiziari. Le immagini di quell’uomo con in braccio il ragazzino che appena spuntano dalle acque marroni sono un simbolo, e indelebile è il sorriso regalato da Panic ai giornalisti per spiegare che, per lui, tra vicini è normale aiutarsi.
Oggi nei centri alluvionati sono giunti in migliaia a spalare fango e macerie, per assistere anziani, recuperare animali, ricordi e beni di una vita, ingegnandosi per distribuire cibo, vestiti, coperte, per essere utili ovunque ce ne sia bisogno; si ripropone in Romagna quel “fare comunità” che gli studiosi imputano all’impulso umano di esser parte attiva, partecipe e collaborante delle sorti di un territorio, non solo nei frangenti di difficoltà. Il senso civico che unisce la catena per ergere sacchi contro la piena in Italia lo conosciamo bene. Lo abbiamo visto ripetersi nelle grandi e piccole alluvioni, ad ogni terremoto, nei primi mesi della pandemia. Questi “angeli del fango” in genere giovani, magari giovanissimi, animano la ripresa con lo spirito della speranza, la fratellanza tanto cara a Rodotà.
Poi però quando le strade sono pulite e gli angeli tornano a casa, gli “adulti” riconquistano la scena; è il momento della ricostruzione, di argini più alti, più forti e imponenti, ma è solo un equivoco: l’inizio della stagione che precede la prossima alluvione.
Difesa come cura
Si dovrebbe far tesoro di questo sentimento comunitario anche dopo la tragedia, quando si deve decidere cosa e come ricostruire, come prevenire le piene future, ridurre la vulnerabilità alle acque, adattarsi al clima che cambia: quando serve una comunità non più soltanto di braccia ma anche di menti che si dedichino alla cura del territorio malato.
Stupisce che ancor oggi ad esprimersi in qualità di esperti sulle soluzioni da assumere, siano solo ingegneri, geologi o funzionari di protezione civile. Spesso meritevoli e talora brillanti nella propria disciplina, sono sollecitati a prefigurare risposte di complessità e scala che esulano dalle rispettive competenze ed i loro pareri, pur autorevoli, scontano la dimensione emergenziale nella quale si trovano costretti ad operare.
Nel 1998, dopo la colata di fango che a Sarno causò 160 vittime, lo Stato promulgò il decreto che finanziava le Autorità di Bacino, dando loro finalmente le risorse, gli strumenti e gli uomini necessari ad applicare la legge 183 per la difesa del suolo che, dalla sua approvazione nel 1989, giaceva inattuata. Quel testo aveva introdotto principi miliari per affrontare il rischio idrogeologico, innovazioni di approccio e di metodo che faranno scuola in tutta Europa ma saranno, lentamente e inesorabilmente, avversati in Italia.
In virtù della 183, il bacino idrografico diveniva l’ambito unitario di pianificazione degli usi del suolo ed il piano era inteso come processo di continuo apprendimento, affinamento e verifica degli assetti. Le ragioni del riassetto che l’Autorità era così chiamata a presiedere si sarebbero presto tradotte in mappature di dettaglio del territorio, in studi interdisciplinari sugli equilibri dinamici che intercorrono fra l’acqua e la terra, o ancora in ricerche sperimentali sulle soglie critiche di rischio, dunque in strategie volte a garantire la congruenza tra interventi a monte e a valle, il coordinamento fra soluzioni strutturali e di gestione, fra azioni di settore e scelte ambientali trasversali.
La norma stabiliva insomma che la prevenzione dei dissesti fosse un’attività ordinaria. Ed il suo impianto tecnico e culturale aveva effettivamente iniziato a dare frutti quando è stato spazzato dalla riforma della legislazione ambientale; il Testo Unico 152/2006 che ha convertito le Autorità di Bacino nelle più vaste Autorità di Distretto non ne ha parimenti supportato l’adeguamento organizzativo. Ne ha anzi favorito la dispersione delle prerogative operative e, preferendo le Regioni poi i Commissari nell’affidamento dei lavori, ha prestato il fianco al taglio di fondi, mezzi, personale; una sottrazione che ha premiato comunque e sempre la rincorsa estemporanea dell’emergenza, come l’ultima e più recente che ha quasi dimezzato il bilancio del Distretto del Po, lo stesso in cui ricadono i terreni oggi invasi dalle acque.
In ciò che vediamo oggi in Romagna, in quanto accaduto solo l’anno scorso a Senigallia dove le vasche erano a valle dell’area inondata dalla piena, in ciò che ci attende per l’inasprirsi del clima, è riflesso l’esito delle logiche straordinarie quando si depotenziano gli strumenti di governo territoriale e si derubricano i controlli ambientali.

Cara Alessandra,
temo che il problema idrogeologico che ci troviamo di fronte sia veramente complesso. La nozione di base dell’idraulica fluviale è quella di “profilo di equilibrio”: a seconda della pendenza e della sezione di alveo, il corso d’acqua deve andare più lento o più veloce perché non depositi il trasporto solido e non cresca in altezza uscendo dagli argini. Dunque non si tratta di rallentare la corrente: gli alvei devono essere regolarmente puliti per diminuire l’attrito, dunque i depositi, dunque prevenire straripamenti.
I grafici degli straripamenti di questi giorni ci restituiscono un quadro che, semplicemente, non è gestibile dalla rete idraulica esistente. La tesi che Lucio Gambi pubblicò nel 1950 chiariva la dinamica secolare del dissesto idrogeologico che fa della Romagna un malato cronico: la particolare geologia dell’appennino emiliano fa sì che gradualmente la montagna, naturalmente, “scenda a valle” allontanando il corso del collettore idrografico primario, il Po, verso nord, e impaludando la pianura. La soluzione dei bonificatori fu di unire i troppi alvei, canalizzare, portare lungo il piede delle colline i “fiumi uniti” con quel minimo di pendenza che garantisse la confluenza fino al mare.
Tutto questo ormai non basta. Non è la velocità in alveo dell’acqua il problema, ma la diminuzione del “tempo di corrivazione”, ossia la velocità della goccia d’acqua nel suo percorso fino all’alveo, che la cementificazione dei suoli aumenta e che finisce per causare straripamenti lungo tutto l’alveo. Ricordate il “grande programma di piccole opere” di bersaniana memoria? Beh, temo che sia un aspetto essenziale da affrontare se dobbiamo prendere atto che dovremo convivere a lungo col cambiamento climatico ormai presente, iniziando con la protezione dei suoli in Appennino; solo poi gli ingegneri idraulici potranno rifare i calcoli e dimensionare gli alvei per quanto possibile e necessario.
Difficilmente questo discorso sarà recepito da un Ministero delle Infrastrutture orientato alle grandi opere, ma non disperiamo.
Paolo Buonora
Paolo caro
grazie, mi conforta che uno storico con la tua preparazione condivida le mie stesse preoccupazioni. Sono d’accordo: Romagna e Ravennate sono tra i sistemi più complessi sotto il profilo idraulico e i tempi di corrivazione non si possono che governare prima (e fuori) dall’alveo oltre che a monte delle zone esposte. Ciò che ho cercato di esprimere è solo l’esigenza anche di un altro punto di vista.
L’area colpita dalla perturbazione non solo è identificata tra le zone maggiormente a rischio idraulico del Paese ma è anche la più vasta per esposizione. Probabilmente nessuno dei bacini avrebbe singolarmente retto un simile evento ma quel che deve preoccupare è la dimensione del fenomeno meteorologico: è infatti, io credo, proprio la sua estensione, tale da interessare contemporaneamente una ventina di fiumi con piogge persistenti di quantità elevata, ad imporci una riflessione sulle alternative da intraprendere per contenere, prima che l’esposizione, ciò che ha tutte le caratteristiche di una nuova, o se vuoi aggiuntiva, vulnerabilità ai rischi climatici. Per questo mi riferivo alla officiosità e al raggio idraulico, i due fattori che governano il deflusso in alveo. So bene che in quelle zone, i fiumi scorrono pensili: le aree ancora sommerse ne mostrano tutte le difficoltà di drenaggio; ma se si ripetessero le cumulate di questi giorni, dubito che si possano ricostituire dei profili di equilibrio senza restituire al fiume anche lo spazio dove lasciar defluire simili portate. L’arretramento degli argini maestri, la tutela delle golene residue e quel che ho chiamato il “sacrificio” di terreni oggi destinati alla produzione agricola mi paiono scelte ineludibili se si vogliono difendere gli abitati.
L’altro problema è dove e come: dove alla scala di bacino serve davvero e con quale sistema di interventi, strutturali e non. Non conosco purtroppo gli studi di Gambi ma non mi stupisce lo spessore di riflessioni maturate nell’ambiente interdisciplinare che usava frequentare. Quel che osservo con sconcerto è la carenza oggi di studi su cui fondare le scelte di riassetto: la totale assenza nel dibattito delle Autorità di Bacino, distrettuali o di bacino che siano, le perduranti ristrettezze della pianificazione ordinaria, la fede salvifica nel commissario di turno per interventi cui continuano a mancare gli apporti integrati dell’idrologia, della botanica, della geomorfologia, della storia e perché no, della geografia: scelte se va bene supportate da verifiche idrauliche serie, anche se mai ancora in moto vario, ma pur sempre limitate nella concezione settoriale, perciò spesso disfunzionali nella risposta agli eventi. Dopo anni di tragedie, l’Italia conta su una Protezione Civile attrezzata ormai per essere operativa; le politiche, la ricerca e il lavoro di prevenzione restano invece deludenti e ben lontani dalle sfide che ci attendono: il clima ha già cambiato il quadro di riferimento, mi pare tempo di segnare una discontinuità anche nella difesa del suolo.