«la luce del futuro
non cessa un solo istante di ferirci»
(P.P.Pasolini)
La prospettiva Nevskij | © Daniele Balicco
«Roma ha un’antica dimestichezza con la prospettiva barocca: sarà una citazione». «A me ricorda la Prospettiva Nevskij…». Si scherzava in questi giorni sul recente intervento di “rigenerazione” con cui il V Municipio di Roma ha inteso omaggiare il quartiere dove entrambi viviamo: il Pigneto. Da oltre un mese, vediamo infatti progredire un discutibile progetto di “arredo”, a due passi dalla scuola elementare “Enrico Toti”. Annunciato dall’abbattimento dell’ultimo Pino domestico cui il quartiere deve il proprio nome, senza che a nessuno dei tanti comitati attivi in zona fosse stato anticipato alcunché, il cantiere ha destato prima allarme, poi speranze (poche) e infine delusioni (tante).
Il vecchio pino era infatti il solo sopravvissuto al sacrificio dello storico filare ai voraci cantieri di Metro C. Sano e ombroso, maestoso e scultoreo, ha forse peccato dell’unica colpa di ergersi in un avvallamento incolto che l’Amministrazione ha pensato così di poter sanare. Toccherà verificare quanti fondi pubblici siano stati destinati alla ‘fabbrica’ della nuova ‘Prospettiva’, di certo le ambizioni della sistemazione finale sono enigmatiche. La fine lavori ha consegnato uno stretto camminamento che corre fra due alti muri, cemento per terra, cemento ai lati, sedute in pietra, qualche gracile alberello: non un giardino, forse un minigolf da campeggio d’antan. Il quartiere mormora. Tanto più che, negli stessi giorni, è proseguita la ‘deforestazione’ lungo le consolari Prenestina e Casilina, sempre ad altezza Pigneto: un paesaggio urbano di cui si perde irreversibilmente memoria, per un monumento alla mediocrità contemporanea.
Prove di regia per un nuovo minigolf sulla Prospettiva Nevskij | © Daniele Balicco
Al posto del pino…| © Daniele Balicco
I registi del neorealismo, che nel dopoguerra hanno frequentato il Pigneto finché non si è trasformato in città, avevano ben colto l’anima del luogo: margine tra urbano e rurale, che le alberate di pini tenevano legati da un’unica visuale verso la campagna, gli acquedotti, quel Sud dell’Italia e del Mondo da cui erano arrivati gli Alleati e sarebbero giunti i suoi nuovi abitanti. Un carattere sospeso, aperto per un verso al futuro, alla differenza, alla mescolanza di tutto e di tutti, alla modernità; per un altro, ancorato al proprio passato di lotte operaie, di Resistenza e poi di scontri per la casa, un baluardo della e per la sinistra, prima che si ritraesse nei palazzi all’interno delle Mura aureliane. La svolta dallo stigma della periferia sembrava infine consumata negli anni ’90; risolto con Petroselli il dramma dei borghetti, capovolte le previsioni SDO con il vincolo tenacemente conquistato dal Sovrintendente La Regina a tutela del comprensorio di giacenza dei monumenti antichi del Labicano: per i relitti di Agro sottratti all’edificazione dalle vane attese direzionali e, con essi, per l’intera cittadinanza del quadrante doveva aprirsi una rosea prospettiva di verde e servizi, meritato risarcimento degli standard pregressi arraffati dai privati nella grande espansione. Così non è stato e la battaglia per il verde è tuttora aspra.
Dal lago della ex Snia al Parco Lineare, dal Giardino Liberato in Certosa al Parco Somaini fino a Centocelle, le vertenze in corso disegnano puntualmente la geografia di quel sogno inattuato, arena di un conflitto culturale prima che urbanistico, tra spinte innovative e bassa speculazione, tra difesa del bene pubblico e protezione di privilegi non sempre legittimi: una mappa singolare della guerra di trincea che si combatte palmo a palmo per la riqualificazione della città esistente, da anni e contro giunte di ogni colore.
Oggi si torna a parlare di “decoro”: Kentridge al Tevere sì, i giovani Bansky di Torpigna no. Visto dal grigiore laterizio della Nevskij, un dibattito grottesco e surreale che non riesce a nascondere la povertà di idee, la mancanza di coraggio per affrontare il vero nodo della rigenerazione in una città che è tempo cessi di crescere: la restituzione di spazi pubblici alla collettività. Eppure, il cambiamento climatico che a ogni pioggia piega la Capitale, indicando con precisione chirurgica le sue vulnerabilità territoriali, mostra anche il cammino da percorrere: lo stop al consumo di suolo, la “grande opera” di tutela delle campagne, del verde storico e monumentale, la difesa del selvatico come riserva di biodiversità e di equilibri ecologici. Seduti sui muretti della Nevskij, il “decoro” appare fatto di ossigeno, di edera che corre sui muri, di erbe e cespugli al posto dell’asfalto, di alberi, invece di auto, che possano finalmente invecchiare. C’è un ritardo nell’assumersi la responsabilità di ridurre le superfici impermeabili che andrebbero per lo più depavimentate; per liberare la natura e, con lei, le energie vive della creatività. Una battaglia per il “decoro” giocata a colpi di minigolf da campeggio in stile anni ’80, abbattendo alberi monumentali, senza preoccuparsi di ripiantumarli, non solo umilia la qualità della nostra intelligenza collettiva, ma è un premio al rancore sociale diffuso; la conferma che la strada è perduta per sempre.
E invece, chi passa al lago sulla Prenestina in questi giorni di fine febbraio, trova un Germano che scorrazza tra gli avventori del parco; vede gli Aironi posarsi tra i ciuffi del canneto. Nota pace e silenzio: a due passi da Porta Maggiore un’area inaspettatamente e meravigliosamente rinselvatichita, ostinatamente protetta dal quartiere nella semplice dignità del suo verde spontaneo, contro ogni retorica sul decoro o speculazione rigenerativa; sarebbe piaciuta a Pasolini, perché quando è il bene collettivo a prevalere, ciò che muta è per farsi migliore.