Autori: Alessandra Valentinelli, Giorgio Giovanelli, Barbara Pizzo, Vezio De Lucia

LE CAMPAGNE DELL’AGRO 

RomaRicercaRoma ha partecipato, con i suoi gruppi di lavoro a due iniziative nell’ambito della mostra “Roma periurbana – risorse agricole, territorio, realtà sommerse” organizzata all’ex Mattatoio di Roma, a Testaccio dal 22 marzo al 21 maggio ’23. Progetto espositivo a cura di Matteo Amati, Carlo Cellamare, Vezio De Lucia, Cristiano Tancredi e Alessandra Valentinelli, promosso da Roma Culture e Azienda Speciale Palaexpo, ideato e organizzato da Cooperativa Agricola Nuova e Associazione RomaAgricola.

Il primo convegno si è tenuto il 3 maggio, a cura dal gruppo di lavoro “Ambiente e salute” di RomaRicercaRoma in collaborazione con l’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli: “Le campagne dell’Agro”. Fra storia e cultura della campagna romana, usi civici, autorganizzazione, cattiva urbanizzazione e consumo di suolo.

Il 5 maggio è stata la volta di “La mobilità a Roma come diritto sociale”.  Una riflessione sugli impatti sociali del sistema cittadino della mobilità. Il modo con cui esso è organizzato ha, infatti, effetti rilevanti sulle varie forme disuguaglianza e di esclusione sociale.

Via via che i materiali scritti e audio-video dei due seminari saranno disponibili, li pubblicheremo sul sito.

Cominciamo con l’introduzione di Alessandra Valentinelli all’incontro su “Le campagne dell’agro”.

 

 

 

 

 

L’immagine è tratta dalla relazione di Susanna Passigli sull’Agro romano, dal Medioevo all’età moderna 

Qui l’intervento di Barbara Pizzo, presidente di RomaRicercaRoma

SUPERARE LA RENDITA

Barbara Pizzo

Per prima cosa desidero ringraziare tutte e tutti coloro che hanno ideato e organizzato questa iniziativa, presentata, direi sommessamente, come “progetto espositivo” e dedicata ad un oggetto particolare e problematico sotto molti punti di vista, la “Roma periurbana”.

Non nascondo che mi piacerebbe iniziare discutendo della scelta di questa definizione: Perché “periurbano” in un’epoca in cui, senza necessariamente parlare di “urbanizzazione planetaria”, si riconosce come “urbano” tutto ciò che è variamente connesso ai modi di vita urbani, e di cui si fa esperienza primariamente in termini di reti e connessioni, che sembrano ridurre o addirittura annullare le distanze e le differenze geografiche – che sono annullate e però restano, a seconda di quello che analizziamo, dalla prospettiva dell’indagine e anche dalle sue motivazioni.

Non mi soffermerò su questo concetto, molto dibattuto come del resto tutti i concetti introdotti per descrivere la città contemporanea, perché mi è stato affidato un compito specifico, cioè di approfondire una questione molto contesa, quella della rendita: ma lo riprenderò più avanti proprio in relazione alla rendita urbana, al potere della rendita di definire l’urbano – in un certo senso, addirittura di distinguere tra cosa è “urbano” e cosa non lo è.

La rendita, mi sentirei di dire, a Roma è “la” questione: da un lato quasi tutti i problemi e le controversie relativi alla città sono in varia misura riconducibili alla rendita; dall’altro, la rendita è il convitato di pietra dell’urbanistica romana, il fondamentale non-detto in ogni trasformazione urbana, in ogni conflitto più o meno aperto sugli usi del suolo, sui progetti di sviluppo. La rendita, per come NON la si affronta e NON la si vuole affrontare, è una pesantissima ipoteca sulla città, che impedisce di pensare con libertà al suo futuro.

Però, più precisamente, il titolo che mi è stato proposto è “Superare la rendita”. Che cosa vuol dire?

Il ragionamento che propongo prende spunto proprio dall’idea del “superamento”, che tipicamente si esprime in due contesti di senso principali che, solo per brevità, chiamerò “storico” e “agonistico”.

Nel primo caso, parliamo di “superamento” per dire di qualcosa che non è più, che è stato superato da qualcos’altro, nel corso del tempo. Come i telefoni a gettoni che sono stati superati dai cellulari, o le lettere dalla posta elettronica. Non tutti sono entusiasti di questi cambiamenti, ma avvengono, sono considerati inevitabili, un “segno dei tempi”. In questo caso l’attenzione è su cosa sostituisce ciò che viene superato, e sulle condizioni che hanno permesso tale superamento, la prospettiva è quella storica.

Nel secondo caso parliamo di “superamento” per dire di un ostacolo, di una difficoltà o di un impedimento che si interpone o si oppone al raggiungimento di un obiettivo. In questo caso l’attenzione è sulla natura dell’ostacolo e sui mezzi utilizzati per superarlo.

Quindi “superare la rendita” significa: 1) che più o meno implicitamente stiamo dicendo che la rendita è un prodotto storico; 2) che la riconosciamo come un impedimento o un ostacolo.

Entrambe le interpretazioni sono tutt’altro che pacifiche e condivise.

Dire che la rendita è un prodotto storico, cosa che in effetti è implica ammettere non solo che possa esistere in forme diverse da quelle che più comunemente si sono affermate, ma anche che possa non esistere. Il punto è quindi se e come fare a meno della rendita.

Che la rendita esista in forme diverse è certamente vero, e sempre più vero, se consideriamo la moltiplicazione delle forme della rendita: che non è più solo fondiaria o immobiliare – basti pensare alle rendite generate dai monopoli nel mondo digitale, non solo airbnb ma anche nella cosiddetta economia della conoscenza, alle nuove frontiere della speculazione finanziaria sempre più virtuali, come quella dei bitcoin, ma dobbiamo essere consapevoli che tutte le forme di rendita precipitano sul territorio, hanno impatti territoriali.

Dire che la rendita è un impedimento o un ostacolo è dire qualcosa di ambiguo e scivoloso: per quasi un secolo la rendita è stata in effetti considerata un vincolo o un ostacolo, e specificamente allo sviluppo capitalistico, mentre possiamo osservare che la rendita (al plurale) è oggi una componente essenziale della ristrutturazione del capitalismo, ma anche che il tipo di superamento che immaginiamo qui è del tutto diverso. Il punto diventa quindi chiarire quale è l’obiettivo che la rendita impedisce di raggiungere e perché funziona da ostacolo.

La rendita è un dato di natura, non esiste da sempre e quindi, almeno logicamente, potrebbe non esistere (Pizzo 2023, p. 216). Ma davvero si può fare a meno della rendita? Gli economisti urbani, i tecnici estimatori, e anche qualche geografo economico oltre alla gran parte degli urbanisti professionisti, sostengono che non si possa fare a meno della rendita. A dimostrazione portano casi di periferie urbane o di aree marginali in cui i prezzi di vendita degli immobili sono più bassi dei costi di costruzione, il che le immette tragicamente in una spirale negativa dalla quale possono uscire solo attraverso politiche, interventi, meccanismi e processi di valorizzazione (sottintendendo ovviamente valorizzazione economica), ossia con la ri-creazione di occasioni di cattura di surplus di valore, e portano tali esempi per mostrare che in un sistema come quello in cui siamo immersi, o c’è incremento di rendita, o non c’è nulla: c’è l’abbandono, il progressivo impoverimento, la miseria.

La rendita, questo è certo, non esiste da sempre: nasce con il capitalismo, del quale dunque è un prodotto (Piketty fa giustamente osservare che il capitalismo tende all’accumulazione, e l’accumulazione di capitale produce rendita). Ma la si “scopre” e la si inizia ad indagare nel momento in cui ne viene considerata un vincolo, o un elemento di freno. Però, come già detto, non penso che sia in questo senso che consideriamo qui la rendita un ostacolo da superare. Dunque rispetto a cosa la rendita è un ostacolo?

Giulio Carlo Argan, sindaco di Roma, storico dell’arte e quindi certamente non esperto di economia urbana, ebbe a dire “Nessuna città, e meno che mai una città dal passato storico complesso ed emergente come Roma, può darsi uno sviluppo storico, e cioè una esistenza culturale, finché il suolo urbano sarà oggetto di mercato e di profitto” (Argan, Com’è bella la città, p. 232).

Roma è una città che è stata “disegnata” dalla rendita e dalle logiche della speculazione e dell’estrazione di valore, che non sono solo quelle dei grandi immobiliaristi ma sempre più anche quelle della ricerca del maggior profitto (o del “massimo e migliore utilizzo”, come recita la regola d’oro del mercato) da parte di chiunque abbia una qualche proprietà; e dunque sono le logiche della proprietà privata, che può funzionare come monopolio anche quando non è concentrata perché, appunto, la logica che guida i comportamenti di una pluralità di soggetti è comunque la medesima.

Italo Insolera ci ha spiegato che a Roma tutto questo è iniziato con il 1870, ma da quel momento in poi sempre più numerose sono state le persone che vedono nella speculazione fondiaria e immobiliare l’occasione principale di arricchimento: per questo, e per il moltiplicarsi delle nuove forme della rendita, la classe dei rentier si è ampliata al punto che oggi (quasi) tutti pensano che vivere di rendita sia una possibilità concreta, mentre invece di rendita la nostra città sta morendo.

Tutto questo è iniziato con il 1870, dicevamo, perché? È iniziato quando qualcosa che assomigliava certamente più ad un “villaggio” che non ad una città (Roma aveva allora meno di 400.000 abitanti, su un territorio pressoché come quello attuale), si è trovato a doversi trasformare rapidamente nella capitale d’Italia. Ecco quindi il passaggio all’urbano. Roma diventa città mentre diventa città-capitale e così, insieme, scopre il potere della rendita. Le due cose sembrano inseparabili, ma lo sono realmente?

Se pensiamo alla rendita fondiaria, il legame (e il problema che racchiude) è chiarissimo: un terreno agricolo (che produce comunque una rendita se è privato e viene affittato a chi lo lavora) produce un incremento di rendita quando diventa edificabile, e l’incremento è tanto maggiore quanto più definiti sono alcuni caratteri di urbanità che lo circondano. Per cui (e detto così sembra una necessità, ma non lo è) la trasformazione urbana, la definizione dell’uso dei suoli, le scelte relative alle direzioni di crescita, ecc. sono state guidate molto più dalle logiche della rendita che non dalle idee di città, impedendo, nei fatti, di realizzare qualsiasi aspirazione di futuro. Lo stesso accaparramento dei terreni agricoli a Roma non è fatto dagli agricoltori che vogliono continuare a coltivare ampliando o migliorando la produzione, ma da chi spera di poterne estrarre rendita, principalmente grazie all’edificabilità. Per cui la rendita si oppone sia alla realizzazione di qualsiasi progetto di città che non sia la città della rendita, sia al mantenimento del paesaggio agrario, che può avvenire solo con quello di un’economia rurale. L’intera questione della “transizione ecologica” e del contrasto alla crisi climatica, nel momento in cui si trova a misurarsi con le scelte di uso dei suoli si scontra con le logiche della rendita che sono peraltro intrinseche agli strumenti di pianificazione e quindi poste come ineludibili. Non c’è un modo serio di pensare a modelli di sviluppo alternativi a quello attuale, che è alla base di tutte le crisi che stiamo vivendo, se non iniziamo a mettere in discussione alla radice la questione della rendita.

Dunque. Ho impostato questo ragionamento sulla base di due interpretazioni:

  • “superamento della rendita” in senso temporale e storico – e rispetto a questo abbiamo visto che la rendita tende ad affermarsi come dato di natura, quindi come fatto a-storico; e
  • “superamento della rendita” intesa come ostacolo – e rispetto a questo abbiamo visto che piuttosto che un vincolo allo sviluppo capitalistico, come classicamente è stata definita, è un ostacolo alla realizzazione di progetti di futuro per la città che siano liberi rispetto alle sue logiche, finora dominanti.

Dunque la rendita non può essere “superata”? È tutto perduto?

Leggerei a questo proposito due brevissimi testi di Antonio Cederna che indicava ad altri intellettuali e studiosi, dove guardare per trovare motivi, se non di ottimismo, almeno di speranza:

“La gente, sì, la gente sta prendendo coscienza della propria condizione urbana, sta imparando a rivendicare i propri elementari diritti urbanistici conculcati da decenni di propaganda delle forze interessate alla rapina del suolo. Negli organi del decentramento, nei consigli scolastici, nei consigli comunali delle amministrazioni più consapevoli nasce e prende corpo un nuovo modo di concepire e fare le città: non le “alternative” balorde di cui qualche cattivo urbanista vi ha favoleggiato, ma il blocco delle aree libere per destinarle ai servizi mancanti, la lotta per il metro quadro superstite, la ricerca del locale per la nuova scuola, il risanamento dei centri storici non per i ricchi che possono pagare un milione a metro quadrato ma per la residenza popolare, la battaglia politica per una nuova legge sul regime dei suoli. Dappertutto si formano associazioni per qualche fine di interesse pubblico: perché il demanio marittimo non venga alienato, perché la spiaggia non diventi porto turistico, perché la montagna non diventi una ragnatela di fili e bidoni, perché la pineta non venga lottizzata, perché l’ennesimo tratto di strada inutile non venga realizzato, perché l’autorità militare non venda le sue proprietà alle immobiliari… perché si trovino fondi per l’esproprio a prezzo agricolo di un parco… ecc. Partecipate, amici, a queste azioni, firmate appelli, associatevi ai comitati, partecipate alle marce… gli italiani, nonostante tutto, sono migliori di quel che credete …” (pp. 153-154)

E poi, ancora:

“Domenica scorsa a Roma c’è stata una mezza dozzina di manifestazioni popolari, comitati di quartiere, circoscrizioni, associazioni varie, ecc.: una per il parco dell’Appia antica (e dopo un quarto di secolo di battaglie forse siamo vicino all’esproprio dei suoi duemilacinquecento ettari), una per strappare alla Società Generale Immobiliare i 215 ettari di una grande zona verde nei quartieri occidentali, una per adibire a qualcosa di socialmente utile alcune inutili caserme nel quartiere Prati, l’altra per destinare a verde pubblico uno dei belli e frondosi antichi forti nella periferia orientale. Aprite gli occhi e tendete l’orecchio, amici: … assistiamo a una generale resurrezione, forze straordinarie si sprigionano e la gente si mostra tutta diversa da quella che credete comodo supporre che sia e rivendica i propri diritti elementari e modifica il piano regolatore… (pp. 185-186)”.

Mi piacerebbe poter dire che questi testi, pubblicati a metà degli anni ‘70 sulla rivista “Nuovasocietà”, siano ancora attualissimi, ma non è così. Ci sono ancora, e lo abbiamo sentito in vari contributi di questa giornata, moltissime realtà nella società civile (e, vorrei aggiungere, che coinvolgono anche il mondo della ricerca come dimostra RRR, l’associazione di cui faccio parte) che sono attive e impegnate.

Impegnate non solo per difendere la città dai sempre più cinicamente fantasiosi modi per definire interventi che sono sostanzialmente speculazioni (basti pensare alla “rigenerazione”, che sembra alludere addirittura ad un percorso spirituale, o al “recupero e risanamento” che sembrano parte del programma sociale di un ente benefico – e invece significativamente sono le categorie di intervento previste nel permesso di costruire nell’area della ex-Snia), ma anche per proporre idee di città e modi di vita urbani diversi da quelli dominanti.
Ma tutto questo si scontra, e purtroppo neppure apertamente, con il diffondersi dei comportamenti da rentier che fanno si che la rendita si affermi sempre più come egemonia (l’interesse di pochi che viene presentato e diventa l’interesse di molti). Per cui, tra i modi più urgenti per provare a “superare la rendita” a mio parere ci deve essere la costruzione di un discorso contro-egemonico basato su un modello di sviluppo alternativo, sostenuto da scelte, anche e forse per prima cosa individuali, che consapevolmente sfidino il predominio delle logiche del (maggior) profitto, e di tutto ciò che quel modello economico porta con sé. La rendita si supererà nel momento in cui altre logiche e altri principi diventeranno predominanti. Purtroppo, rispetto alla crisi ambientale e climatica, il rischio è che non ci sia neppure più la possibilità di scegliere da che parte stare.

Qui l’intervento di Vezio De Lucia

ITALO INSOLERA E ROMA MODERNA E L’AGRO ROMANO 

Vezio De Lucia

Italo Insolera, piemontese stregato da Roma. Era nato a Torino il 7 febbraio 1929, ma nella capitale ha studiato, si è laureato in architettura, ha sempre vissuto e lavorato intensamente, e nella sua casa romana si è spento il 27 agosto del 2012. Urbanista, architetto, storico e studioso delle città, soprattutto di Roma [perciò non potevamo non ricordarlo e non rendergli onore in questa mostra dedicata a Roma periurbana]. Ha insegnato nelle università di Venezia e Ginevra e ha tenuto corsi a Firenze, Roma, Napoli, Parigi, Kassel, Barcellona, Madrid. Si è occupato di decine di piani regolatori comunali e piani di assetto del territorio (ormai mitica l’esperienza dei piani regolatori coordinati di Cecina, Bibbona, Castagneto Carducci, San Vincenzo e Sassetta, comuni della Maremma livornese). È stato progettista di edilizia pubblica, di restauri (a Roma degli alloggi popolari di San Paolino alla Regola), di altre opere in Italia e all’estero. Ha curato mostre ed esposizioni[1].

Roma moderna è il suo capolavoro, l’opera che lo ha accompagnato e impegnato per tutta la vita. La prima edizione è del 1962, seguita da altre quindici edizioni o ristampe, l’ultima è del 2011, quasi cinquanta anni dopo la prima: in media una ogni tre anni. L’edizione del 1962 raccoglieva lunghi e documentati articoli scritti alla fine degli anni Cinquanta per “Urbanistica”, allora fra le più importanti riviste del mondo, diretta da Giovanni Astengo, voluta e sostenuta da Adriano Olivetti, presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica.

Nelle prime quindici edizioni di Roma moderna la storia cominciava con l’Unità d’Italia, quando esponenti del Vaticano e piemontesi cominciano a occuparsi di aree fabbricabili ancora prima del plebiscito per l’annessione di Roma e della sua provincia al Regno d’Italia. La novità più rilevante dell’ultima edizione di Roma moderna, quella del 2011 alla quale ha collaborato Paolo Berdini, riguarda l’inizio del racconto, spostato all’indietro, al 27 luglio 1811, data in cui Napoleone I firmò il decreto imperiale per “l’embellissement de Rome”. Insolera scrive nella premessa che la Rivoluzione francese “ha un carisma storico-culturale ben maggiore dei ministri e dei generali della modesta dinastia sabauda, incerta se allearsi con Garibaldi, sicura di avere in Mazzini un nemico”, e perciò è giusto attribuire ai francesi il merito di aver dato inizio a Roma moderna. Ma il governo napoleonico durò troppo poco, nel gennaio 1814 ritornò il papa. Delle opere previste dai francesi si riuscì a fare solo qualche restauro al Foro e Luigi Canina mise mano alla trasformazione dell’Appia Antica nella passeggiata archeologica che ammiriamo ancora oggi.

Il libro è dedicato ai quattro sindaci di Roma laici, estranei al Vaticano e alla lobby dei proprietari fondiari: Luigi Pianciani, combattente della Repubblica romana (sindaco dal 1872 al 1874); Ernesto Nathan, nato inglese, ebreo, mazziniano (1907-1913); Giulio Carlo Argan, grande studioso e storico dell’arte (1976-1979); Luigi Petroselli, viterbese, comunista (1979-1981).

Roma moderna racconta l’urbanistica della capitale dall’Unità ai giorni nostri: in poco più di un secolo e mezzo, Roma ha avuto cinque piani regolatori, approvati negli anni 1883, 1909, 1931, 1965, 2008. La storia della loro formazione e della loro sempre faticosa e discutibile attuazione è raccontata da Insolera senza misericordia e sono convinto che il suo proverbiale pessimismo si sia sviluppato proprio studiando l’urbanistica di Roma: “I piani regolatori a Roma – scrive Italo – sembrano sempre essere esistiti solo per dividere le opere in due categorie: quelle dentro il piano e quelle fuori. Realizzabili tutte quante indifferentemente. E quasi sempre e più facilmente quelle fuori”. L’unico piano che Insolera tratta con rispetto è quello del 1909, voluto dal sindaco Nathan, progettato da Edmondo Sanjust di Teulada, ingegnere capo del Genio civile di Milano. La correttezza tecnico-urbanistica del piano del 1909 “resterà unica nella storia dei piani regolatori della città”, scrive Insolera che, alla fine prende atto che “i piani regolatori non servono più: il ‘mercato’ non ne ha bisogno e non trova ostacoli al proprio dominio” e in un intervista a l’Unità dichiara che “non si cambia nel profondo se si insiste nell’abbandono di ogni ideologia come ispiratrice dei fini e dei mezzi. E se qualcuno sostiene che la pianificazione non occorre sono costretto a ricordargli che non occorre alle classi dirigenti, ma alle altre sì”.

Accanto ai piani regolatori Insolera documenta con puntigliosa efficacia gli scempi dell’abusivismo che, con probabile perfidia piemontese, considera “il modo d’essere della città”. Tre leggi di condono in 18 anni (1985, 1994, 2003) e la logica del condono continua nel “piano casa” inventato da Berlusconi nel marzo del 2009, solleticando gli egoismi più profondi e popolari, radicati in tanta parte del nostro Paese, in sostanza, una specie di condono preventivo, generalizzato e a tempo indeterminato. Il titolo di uno degli ultimi capitoli di Roma moderna è “Il nuovo millennio: dal ‘piano urbanistico’ al ‘piano casa’”.

È qui ovviamente impossibile dar conto delle tante occasioni fornite dal libro di Italo per riflettere sull’origine dei mali di Roma, a partire dalle due fasi della sua espansione, quella soprattutto demografica dei primi decenni del dopoguerra con altissime densità (anche più1.000 ab/ha), e la più recente dilapidazione del territorio quasi senza incremento demografico, con densità irrisorie e insostenibili (anche meno di 10 ab/ha). Sulla facciata del palazzo che ospita gli uffici dell’urbanistica capitolina è scolpita la frase di Mussolini che sintetizza il suo pensiero urbanistico: “La terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno”. Insolera commenta che forse delle tante profezie mussoliniane è l’unica che si è realizzata.

Ma non posso non fermarmi sul Progetto Fori, secondo me la più appassionante proposta di rifondazione urbanistica di Roma. I più famosi resti dell’Impero romano diventano protagonisti della città contemporanea: è questa la sostanza del progetto che, riassunto in poche righe, consiste nell’eliminazione della via dei Fori Imperiali voluta da Benito Mussolini per congiungere piazza Venezia con il Colosseo (e destinarla alle parate militari). Non più guastati dalla strada che insensatamente li attraversa, i Fori di Traiano, di Augusto, di Cesare, di Nerva, il Tempio della Pace sarebbero trasformati in cinque inedite piazze pedonali. Un progetto che avrebbe la forza di trasfigurare l’apparato scenico fascista in uno “spazio sublime”, come lo definì Leonardo Benevolo. Il progetto non è un’ipotesi visionaria: fu pensato e proposto dal soprintendente archeologico Adriano La Regina; fu elaborato, e legittimato, dalla vasta compartecipazione di specialisti, studiosi, storici, archeologi e urbanisti – a partire da Antonio Cederna e Italo Insolera; fu sostenuto da amministratori sapienti e consapevoli; fu condiviso da intellettuali di mezzo mondo, raccolse l’entusiasmo delle migliaia di cittadini di ogni angolo di Roma, anche della più remota periferia, che 42 anni fa partecipavano alle domeniche pedonali. Furono feste di popolo allestite da Luigi Petroselli – il sindaco più amato dai romani negli anni dell’Italia repubblicana.

Petroselli, il Progetto Fori lo immaginava come irripetibile occasione per “accorciare le distanze” fra i cittadini romani, i borghesi del centro e i sottoproletari delle borgate. E tutti, per la prima volta in età contemporanea, si sentirono autenticamente custodi della romanità.

Mi sento obbligato ad aggiungere subito che, in Roma moderna, il Progetto Fori è sottovalutato, è sommariamente disarticolato in più capitoli. Secondo me la spiegazione è una sola: il Progetto Fori, Italo lo dà per perduto. Un segno evidente del suo pessimismo, specialmente ove si consideri che Insolera del Progetto Fori era stato un protagonista, aveva attivamente partecipato all’organizzazione delle domeniche pedonali volute dal sindaco Petroselli, lo aveva magnificamente illustrato nel libro Archeologia e città. Storia moderna dei Fori di Roma, scritto con Francesco Perego. Un libro dove sono raccolti i documenti, le testimonianze e le immagini fondamentali dell’area archeologica centrale, delle proposte e delle trasformazioni realizzate dal 1870 al 1983. Un libro che racconta i primi passi dell’operazione e l’interesse che il Progetto Fori riscosse in Italia e all’estero, e di quel progetto ci regala la migliore definizione: “l’‘antico’ non è più inteso come ‘monumento’, né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come parte storica potenzialmente equiparabile ad altre parti storiche – medievali, rinascimentali, barocche – che la città non ha mai smesso di usare”.

Con l’improvvisa morte del sindaco Petroselli (ottobre 1981), il progetto finisce su un binario morto. Molti continuano a evocarlo, lo hanno fatto quasi tutti i sindaci degli ultimi decenni, ma ciascuno intendendo una cosa diversa, comunque mai mettendo in discussione la permanenza della via dei Fori Imperiali. Perché succede questo? In particolare per la contrarietà degli studiosi animati da storicismo esasperato, secondo i quali si deve conservare qualunque testimonianza del passato, anche del passato recente, senza sottoporla a rigorose valutazioni storico-critiche, da conservare solo perché finora è stata conservata. Una posizione che copre anche, più o meno consapevolmente, l’ossessione nostalgica che attraversa una città come Roma ancora intrisa di cultura fascista.

Non è certo ingiustificato il pessimismo di Insolera. Ma Roma moderna regala al lettore una spettacolare sorpresa, in due inaspettate conclusioni, Italo accantona l’amarezza e lo scoraggiamento di una vita e si veste di inedita fiducia nell’avvenire. Una prima conclusione è riferita all’Appia Antica come “un auspicio per un futuro migliore”. La via Appia Antica, scrive Insolera, “potrà diventare la ‘colonna vertebrale’ di una nuova struttura in grado di costruire, al di là degli errori e delle speculazioni di ‘Roma moderna’, per i cittadini di questa città e di questa regione, per i turisti, per gli amanti dell’arte e della natura e per gli studiosi di tutto il mondo la vera Roma futura”.

La seconda conclusione, ancor più sorprendente è “Roma multietnica”. Si intitola così l’ultimo capitolo del libro che racconta della recente immigrazione. La capitale è sempre stata multietnica, da Adriano in poi gli imperatori provenivano dalle terre conquistate. Così anche le legioni che formarono nuovi nuclei familiari. E lo stesso è per la Chiesa cattolica con la presenza di religiosi provenienti da tutto il mondo. Oggi a Roma vivono centinaia di migliaia immigrati ma continua a prevalere un atteggiamento di diffusa chiusura. Insolera racconta drammatici episodi generati dalla negazione dell’accoglienza e la tragica sorte dei Rom sui quali “si scaricano i pregiudizi e il latente razzismo della popolazione romana”. Ma, nonostante tutto, l’integrazione va avanti e il quartiere di piazza Vittorio è diventato il simbolo della trasformazione. Proprio da piazza Vittorio prende nome l’orchestra formata da musicisti provenienti da ogni parte del mondo: Argentina, Brasile, Cuba, Ecuador, India, Mali, Senegal, Stati Uniti, Tunisia e Ungheria. Un insieme di sensibilità, strumenti e suoni che “getta alle ortiche la difesa di ormai inservibili identità culturali e religiose”.

Concludo questa bozza di ritratto di Italo ricordando che si deve a lui la salvezza di Tor Marancia. Alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, Tor Marancia era una meravigliosa tenuta di oltre 200 ettari, fra l’Appia Antica e l’Ardeatina. Un luogo dove i coltivi si alternavano a macchie di lecci, pini, pioppi, salici, olmi, cinque diversi tipi di orchidee, frequentata da volpi, gheppi, nibbi, aironi cinerini e punteggiata da rovine archeologiche. Ma i responsabili politici e tecnici del nuovo piano regolatore allora in formazione – quello adottato nel 2003 e definitivamente approvato nel 2008 – avevano deciso di confermare per Tor Marancia le previsioni del precedente piano, allora ancora vigente, quello del 1965: un quartiere di un milione e ottocento mila metri cubi. E la decisione, compattamente sostenuta dal centrosinistra capitolino, pareva irrevocabile.

Fu in quella circostanza che il soprintendente archeologico Adriano La Regina, d’accordo con Rita Paris, suo braccio destro, incaricò Italo di coordinare un piccolo gruppo di lavoro – formato dal biologo naturalista Carlo Blasi e da me – per valutare la compatibilità delle previsioni del nuovo piano regolatore (allora ancora in formazione) con i caratteri naturali e archeologici di Tor Marancia. Studiammo e percorremmo l’area e i dintorni in lungo e in largo, accompagnati da esponenti dei comitati e delle associazioni ambientaliste (per primo il Wwf) che, inascoltati dalla politica, si battevano con determinazione per impedire lo scempio, ma parevano rassegnati al peggio.

Avevamo scartato subito l’idea del compromesso. Non fu difficile documentare che Tor Marancia era un sistema ambientale senza confronti, forse l’ultimo spazio in condizione naturale [com’era Roma prima di Roma] miracolosamente sopravvissuto dentro al corpo della città. L’unica soluzione possibile era l’azzeramento dell’edificabilità, e in questo senso fu concluso lo studio. Che il soprintendente La Regina condivise immediatamente trasformandolo in una ben motivata proposta di vincolo fatta propria dalla regione Lazio (presidente Francesco Storace) e dal ministero per i Beni culturali (ministro Giovanna Melandri).

Tor Marancia era salva, ma fu immane il prezzo pagato da Roma. Intervistato da Francesco Erbani su la Repubblica (11 ottobre 2011), Insolera racconta che, “grazie a uno strumento appena introdotto, quello della compensazione urbanistica, quel milione e ottocentomila metri cubi di case furono trasferiti altrove, ma diventarono cinque milioni e duecentomila. L’amministrazione comunale riconosceva ai proprietari un ‘diritto edificatorio’ che, se non esercitato, veniva spostato in un altro luogo ma con un enorme incremento. Insomma, si stabiliva l’intangibilità della rendita fondiaria, nonostante importanti giuristi avessero sostenuto che quel tipo di ‘diritto edificatorio’ non esiste.  […] Si è stabilito un principio, poi adottato altre volte, per cui molti costruttori hanno potuto invadere la campagna romana con insediamenti anche enormi, non raggiunti da un trasporto pubblico adeguato, in una città che perdeva residenti ma che si disperdeva sempre di più”.

Concludo ricordando che, nella premessa all’ultima edizione di Roma moderna, Insolera ringrazia Antonio Cederna “per il suo continuo insegnamento e per avermi proposto cinquant’anni fa di scrivere questo libro”. Il sodalizio Cederna-Insolera è fondamentale per comprendere la vita e le opere di entrambi. Un sodalizio che per quarant’anni ha formato una barriera contro gli assalti dei “nemici del genere umano”, come Cederna definiva speculatori e vandali. Fra le tante virtù che li affratellavano mi pare importante ricordare il saldo rapporto che entrambi ebbero con le associazioni ambientaliste e più in generale con il mondo della partecipazione popolare, dei comitati, della protesta, della “quotidiana lotta popolare per una Roma nuova, diversa, opposta”.

 

 

[1] Di Italo conservo anche due elaborati che mi furono da lui affidati negli ultimi tempi della sua vita. Il primo è il dattiloscritto di una lunga premessa (dedicata a Luigi Piccinato, Ludovico Quaroni e Michele Valori) alla ristampa, in un unico volume, dei famosi numeri 27 e 28-29 del 1959 della rivista “Urbanistica” dedicati a Roma. La ristampa purtroppo non fu concretizzata e il testo di Italo resta inedito. Il secondo elaborato è la Proposta per un sistema integrato alta velocità per l’Italia settentrionale del gennaio 1991. Sapevo della grande competenza di Italo in materia di trasporti, ignoravo invece che si fosse personalmente impegnato nella progettazione nientemeno dell’alta velocità.