Autore
Fabrizia Gurreri
Recensione: Anna Ditta, Marco Passaro e Andrea Turchi , Hotel Penicillina. Storia di una grande fabbrica diventata rifugio per invisibili. Infinito edizioni, pp. 255, euro 14.
Dalla nascita della “cittadella” romana del farmaco salva-vita, che riaccendeva speranze di cura, al suo epilogo di scheletrico, fatiscente, periferico ghetto di disperati privi di cure. Sono tante le riflessioni, mentre siamo immersi in una pandemia, che suggerisce Hotel Penicillina. Storia di una grande fabbrica diventata rifugio per invisibili, in cui Anna Ditta, Marco Passaro e Andrea Turchi (prefazione di Mauro Palma, introduzione di Luigi Cerruti, postfazione di Matteo Balduzzi; Infinito edizioni, pp. 255, euro 14) raccontano la vicenda di una importante struttura produttiva nazionale, divenuta oggi un ecomostro vuoto. Un libro corale, con tante e diverse testimonianze, che si apre in una giornata luminosa di fine estate del 1950 quando viene inaugurata la Leo Penicillina, alla presenza dello scopritore dell’antibiotico: sir Alexander Fleming. E si conclude, ai giorni nostri, con la morte in solitudine di un senzatetto che come tanti nella ex fabbrica aveva trovato rifugio: Friday , un essere umano di quelli cui non “spetta una buona vita”.
Scoperta per caso negli anni ’20, la penicillina era diventata strategica durante la seconda guerra mondiale per curare infezioni da ferite e salvare migliaia di vite. Scienziati e aziende parteciparono al “piccolo Progetto Manhattan” per la messa a punto del farmaco. Prodotta industrialmente dal 1944 negli Usa, nelle tasche dei soldati americani che fecero ingresso a Roma c’era anche qualche dose di penicillina, che poi si sarebbe potuta acquistare alla borsa nera sotto la Galleria Colonna. Due anni dopo, l’antibiotico aveva cominciato a essere importato in Italia dagli Stati Uniti e distribuito dall’Endimea ( Ente nazionale per la distribuzione dei medicinali alleati). Tuttavia, le quantità rimanevano insufficienti al fabbisogno nazionale.
Si aprì, allora, un confronto nel dibattito politico e ci si cominciò a interrogare: penicillina nazionale o d’importazione? Pubblica o privata? E, più in generale, lo Stato doveva intervenire nella produzione di medicinali fondamentali di largo consumo? I timori di uno Stato farmacista, espressi sul settimanale di informazione della Confindustria, furono presto fugati dalla iniziativa privata della Leo Penicellina, che sconfisse sul nascere la produzione pubblica di antibiotici.
Questa era stata affidata all’Istituto Superiore di Sanità, che sotto la guida del chimico Domenico Marotta, era tra le poche istituzioni scientifiche italiane ancora funzionanti nel dopoguerra e stava portando avanti le ricerche sulla penicillina con gli scienziati di Oxford. Nel 1946 l’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration) offrì all’Iss un impianto di fermentazione (già obsoleto, secondo il giudizio di Boris Chain) per la produzione dell’antibiotico e il relativo know-how, a condizione che l’Italia non esportasse e non commercializzasse il farmaco. Nella politica statunitense agivano in contemporanea due esigenze: la costruzione in Occidente di un sistema di aiuti (che troverà la piena realizzazione nel Piano Marshall), che poteva assicurare l’egemonia americana e l’esigenza di non turbare il mercato degli antibiotici, dominato dalla produzione Usa. Nel 1948, nel clima della guerra fredda estesa anche ai farmaci, l’impianto pilota e i laboratori italiani furono inaugurati alla presenza di Alcide De Gasperi, del premio Nobel Boris Chain, dell’Ambasciatore americano e del Commissario per la Ricostruzione. Tuttavia, la fabbrica (che comincerà a produrre nel 1952 e resterà in funzione fino al 1964) non divenne mai competitiva con quella fondata da Giovanni Armenise.
Industriale e editore del Giornale d’Italia, già in stretti rapporti con Mussolini quindi transitato indenne sotto le bandiere della Repubblica, Armenise nel marzo 1947 aveva comprato (per circa 100 mila dollari) il brevetto dalla danese Lovens Kemisske fabrik , unica azienda in Europa, ad eccezione di quelle del Regno Unito, a produrre l’antibiotico su propria licenza. Alla fine dello stesso anno aveva acquistato un vasto appezzamento di terreno sulla Tiburtina, davanti a San Basilio, su cui in breve nasceva un imponente e modernissimo stabilimento, con laboratori biologici, colossali fermentatori, una grande caldaia e due gruppi elettrogeni molto potenti dismessi dalla Marina.
La Leo Penicillina, che impiegava oltre mille lavoratori, iniziò subito a produrre per coprire il fabbisogno del Paese (tra i 500 e 900 miliardi di UI l’anno) e mantenne per quindici anni il sostanziale controllo del mercato nazionale degli antibiotici, avviando anche l’esportazione nei paesi consentiti dal brevetto. Ma la liberalizzazione del mercato dei farmaci, errori di management, la fine del boom contribuirono alla prima grave crisi produttiva e finanziaria della fabbrica. Nel 1964 arrivarono centinaia di licenziamenti che, tuttavia, rientrarono in seguito a una memorabile occupazione. Le debolezze strutturali della Leo, però, erano rimaste irrisolte: impianti divenuti obsoleti, mancanza di ricerca in innovazione e diversificazione del prodotto, dipendenza degli investimenti dal capitale finanziario (segnatamente dalla Bna riluttante a sostenere nuovi indebitamenti), prezzi non competitivi. Quest’insieme di fattori negativi determinarono il primo passaggio di proprietà. Nel 1971, infatti, la Leo fu venduta, per la cifra simbolica di una lira, all’industriale milanese Ambrogio Secondi.
La parabola di questa fabbrica, che si svolse nell’arco di circa sessant’anni (1950-2006), intrecciandosi sempre con le vicende del Paese, ci mostra in modo paradigmatico l’uscita dell’’industria farmaceutica italiana dall’arena internazionale, relegata in attività di nicchia o di vendita su licenza.
Negli anni Settanta, mentre il Parlamento approvava il Servizio Sanitario Nazionale e l’Italia era tra i primi sei paesi al mondo per produzione e consumo di farmaci, prendeva forma il progetto di creare attorno ad alcune storiche case farmaceutiche un’impresa di livello nazionale. Tuttavia, anche se il fatturato delle aziende saliva, molte imprese venivano superate, per innovatività dei prodotti e penetrazione dei mercati, dai concorrenti d’Oltre Atlantico. Così negli ultimi tre lustri del’900 Zambeletti, Manetti&Roberts, Italchimici, Ravizza, e, infine, anche Farmitalia – Carlo Erba, che era stata il perno del progetto Montedison fallito, furono costrette a vendere diventando a capitale straniero, soprattutto americano. Non fece eccezione la Leo-isf, ceduta nel 1985 alla Smith Kline&Frencth (Skf) che quattro anni dopo si fondeva con l’inglese Becham. Chiuse tutte le linee di fermentazione, la grande fabbrica sulla Tiburtina, che fino allora aveva prodotto penicillina dalla preparazione del principio attivo alla confezione del farmaco, si trasformava in una delle numerose multinazionali farmaceutiche del Paese. Poi, in un turbinio di vendite e acquisizioni, attraversando il terremoto di Farmatangenti, nel nuovo Secolo la fabbrica tornata italiana diventava terzista, ossia lavorava per conto di altre industrie farmaceutiche. Infine chiudeva, non dopo un’effimera ultima fiammata produttiva, nel 2006.
La storia della Leo accompagna e interseca quella della Tiburtina e di San Basilio. Negli anni d’oro della “più grande fabbrica di penicillina d’Europa” la borgata, insieme alle limitrofe Tiburtino III e Pietralata, forniva la maggior parte della manodopera. Ed è attraverso i ricordi dei dipendenti che Andrea Turchi ricostruisce la vita all’interno della “cittadella del farmaco” come pure le trasformazioni dentro e fuori la fabbrica. Alle 120 autarchiche casette “Pater”, costruite a San Basilio dall’Istituto autonomo case popolari in epoca fascista, si aggiunsero nel dopoguerra nuovi insediamenti: dal quartiere con case colorate nelle gamme dell’ocra di due tre piani con giardinetto, progettate da Ludovico Quaroni, per il piano Fanfani di edilizia popolare, fino alle casone di otto-dodici piani nate negli anni del boom della grande speculazione edilizia della Capitale. E mentre le vecchie borgate si saldavano alla città, malgrado i loro problemi abitativi rimanessero sempre gli stessi, l’arrivo in grande stile dei cosiddetti palazzinari costituiva anche un segno dell’avvenuto cambio di “destinazione” d’uso dell’area produttiva romana: le prospettive di sviluppo industriale si indebolivano a fronte di un’impetuosa crescita del terziario e dell’edilizia. La crisi economica del nuovo secolo ha poi segnato la definitiva fine del polo industriale romano, trasformando la Tiburtina Valley in una sorta di piccola Las Vegas, che ha preso il posto dei capannoni divenuti casinò e sale slot.
L’ex fabbrica della Leo, senza i lavoratori e le lavoratrici che l’avevano fatta vivere, divenne rifugio di senzatetto. Dapprima la “carcassa” fu depredata. I cercatori di metalli, divelti i grandi tiranti di acciaio, provocarono il crollo delle tettoie dei magazzini. Le finestre scardinate andarono a completare qualche lontana abitazione di fortuna. In breve restò solo lo scheletro, dove trovarono riparo i primi occupanti. Sull’ultimo scorcio del 2018, poco prima che l’Hotel Penicillina venisse sgomberato, tra baracche e rifiuti vivevano in condizioni di degrado durissime, simili a quelle dei campi profughi, almeno cinquecento persone. Esseri umani fuggiti da guerre, fame, violenze che non avevano trovato altro posto dove andare. Disoccupati, famiglie, uomini, donne e bambini italiani e di tante altre parti del mondo. Indigenti, vulnerabili, ricattabili, delinquenti,spacciatori, disgregati.
Ascoltando le loro voci, raccolte da Anna Ditta e Marco Passaro, è come se dai racconti dei dipendenti della fabbrica, uomini e donne novecenteschi, che abbiamo incontrato nella prima parte del libro fossimo catapultati indietro a ripassare la lezione premoderna dei miserabili. Ma questi sono i reietti delle città del XXI secolo. E sono un aspetto della realtà periferica romana dove l’emergenza abitativa, frutto di abbandono politico, ha prodotto marginalità, disprezzo dei poveri (aporofobia) e razzismo. Due anni di pandemia hanno reso noi tutti molto più vulnerabili e sensibili alle disuguaglianze e alle ingiustizie sociali. Ma la sensibilità non basta, ora servono investimenti in politiche serie di riqualificazione urbana e sociale. Allora, in futuro, anche la ex fabbrica di penicillina potrebbe ripopolarsi, trasformata in case popolari oppure ospitando servizi necessari al quartiere: un teatro, un auditorium, un centro anziani…
Ho lavorato per 33 anni in quella fabbrica (1969/2002). Prima nella parte industriale, poi nel comparto farmaceutico. Quante notti, sabati, domeniche, trascorse li dentro. Ci sono passato numerose volte davanti e quello che prima era fonte di sostegno, per migliaia di famiglie, adesso solo ruderi e sporcizia. Che desolazione