La campagna romana: una nuova mappa ambiente-città
Il dossier è parte di un lavoro collettivo dal titolo Manifesto per Roma, che viene interamente pubblicato in questo sito, nella sezione Proposte. A questo capitolo hanno contribuito: Mauro Baioni, Paola Cannavò, Aurora Cavallo, Massimiliano Crisci, Giorgio Giovanelli, Ginevra Pierucci, Marco Pietrolucci, Alessandra Valentinelli (coordinatrice)
1. Lo spazio attorno: la scomparsa dell’Agro antico
Fino a non molti anni or sono, chiunque giungesse a Roma dal Grande Raccordo doveva attraversare un’ampia distesa di campi prima di arrivare in città. Questa terra che cingeva l’Urbe staccandola dai comuni contermini costituiva una peculiarità rispetto ad altri grandi centri. Era infatti l’eredità dell’Agro dei latifondi, forse non la più importante ma certo la più preziosa ai fini del governo urbano: un patrimonio di cui oggi invece non rimane molto per le tante, troppe perdite dovute all’urbanizzazione, che la banalizzazione degli ambienti rurali causata dalle pratiche industriali di conduzione aziendale ha relegato ai livelli più bassi di pregio naturalistico[1].
Quando Roma fu proclamata Capitale d’Italia[2], la città antica contenuta nelle Mura aureliane sorgeva in mezzo a un enorme deserto al tempo infestato dalla malaria. A separarli era un’esile corona di orti e vigneti che assicurava le derrate fresche ai mercati capitolini: l’antico Suburbio[3] cancellato con le prime ondate espansive che investiranno nel dopoguerra la campagna romana, in una crescita disordinata e incessante.
Sono soprattutto i flussi migratori dalle campagne del Lazio e dal Meridione a premere sull’urbanizzazione. In circa un secolo la popolazione del 1870 si moltiplica per tredici sino a toccare i 2,8 milioni di abitanti[4]. Poi, dagli anni ’70, l’incremento demografico continua nell’area metropolitana, con un travaso di residenti dalla città compatta alle periferie più estreme, fuori GRA e ai comuni dell’hinterland mentre si ferma all’interno dei confini amministrativi. Nella Capitale è piuttosto l’espansione urbana a proseguire. Si associa sino agli anni ’80 a fenomeni diffusi di abusivismo edilizio[5], agli elevati costi immobiliari nella città consolidata e alla preferenza per una collocazione abitativa suburbana a bassa densità. Risente della “seconda transizione demografica”: la frammentazione dei nuclei famigliari che da allora aumentano in mezzo secolo di oltre 500.000 unità e, a fronte della stagnazione dei residenti, accrescono la domanda di nuove abitazioni per la riduzione della taglia media delle famiglie, la diversificazione delle loro tipologie, la diffusione di standard abitativi richiedenti maggiori disponibilità di spazi pro-capite negli appartamenti. La città dentro il Raccordo perde così 700.000 abitanti, un terzo del totale che si riversa nel suo bacino funzionale dove i residenti crescono di 850.000 unità.
Nel corso degli anni ’90 nonostante l’abusivismo rallenti, il processo di dispersione si consolida. Proietta nell’Agro, distanti dalla città compatta, insediamenti raramente collegati al trasporto su ferro, a bassa densità, insostenibili per quantità di suolo consumato. L’aggressione alla campagna romana è ora stimolata da una duplice dinamica: mentre la terziarizzazione e il forte aumento di afflussi turistici nel urban core rendono inaccessibili i valori immobiliari specie alle famiglie con figli e ai giovani single, attorno e fuori Raccordo si ricollocano decine di strutture commerciali, logistiche, di servizi privati per anziani, sportivi, di cura, che vanno ad aggiungersi alle nuove residenze. Ampie quote della popolazione in età lavorativa si allontanano dal centro creando, in termini di opportunità di lavoro, dotazioni e funzioni urbane, una frattura che vede nel ricorso massivo all’auto privata solo una tra le molteplici ricadute negative.
Dell’imponente espansione novecentesca, le rilevazioni dell’epoca forniscono un ordine di grandezza, poco confrontabile con il dettaglio degli attuali rilievi cartografici ma non per questo meno significativo: da una stima di 10.000 ettari edificati al 1949, si passa infatti ai 26.000 ettari del 1981, ai 30.000 del 1994[6] pari a un incremento triplo rispetto ai corrispettivi tassi di crescita demografica registrati nel dopoguerra.
Così quando si considerano le forme di questa vorace dissipazione di territorio, la loro spinta frammentarietà e la carenza di collegamenti con il trasporto pubblico, emergono anche le esternalità pagate socialmente oltre che umanamente dalla collettività romana per lo sviluppo della Capitale, nonché il luogo dove sono fisicamente rappresentate: la periferia estrema sorta disordinatamente a cavallo del Grande Raccordo Anulare, in quella campagna che la città, per dirsi tale, avrebbe dovuto preservare.
Spazio ipercontemporaneo delle moltitudini e della nostalgia urbana[7], la città del GRA è un insieme disarticolato di edilizia pubblica e lottizzazioni illegali, aree produttive e tenute agricole, centri commerciali e zone in abbandono per i quali il Raccordo rappresenta talora un confine, talora l’asse ordinatore. La città del GRA si muove come un organismo autonomo, più vitale ma anche terribilmente più caotico della Roma consolidata: un corpo che continua a espandersi e modificarsi, totalmente fuori controllo nonostante la crisi economica degli anni 2000, la stagnazione demografica, l’assenza di progetti e investimenti collettivi. Priva di un reale coordinamento urbanistico, la città anulare è un territorio indefinito, alla mercé di crescite futuribili che neanche l’ultimo Piano Regolatore sembra voler ricondurre all’urbanità, legittimandone anzi usi elementari, contingenti, spesso banali rispetto ai quali Agro e quartieri appaiono scarti allo stesso modo.
La presunzione di uno spazio infinito, di suoli indifferenziati a scopo preferibilmente edificatorio, che è stata tipica della Roma moderna ed è l’essenza della sua bassa qualità, si rivela al contempo la sua condanna. L’espansione novecentesca ha generato un deficit infrastrutturale stimato in quindici miliardi di euro[8]. Ha mandato in frantumi l’immensa unità spaziale della campagna romana; se le potenzialità trasformative di Roma continueranno a esser considerate illimitate, la città sarà irrecuperabile.
Nel 2018, su 128.000 ettari di superfici comunali, l’area complessiva occupata dalla città, urbanizzata con edifici e strade, spazi aperti e servizi, ha raggiunto un totale di 51.000 ettari, 31.000 dei quali impermeabilizzati da coperture artificiali in modo permanente[9].
Ormai compromessa la separazione fisica tra città e campagna, il vigente PRG rischia, con le sue previsioni, di invertire anche il rapporto tra suoli vivi permeabili e superfici sigillate nel cemento e asfalto. L’esito sarebbe nefasto. Eppure tutt’oggi la strumentazione urbanistica vi concorre con meccanismi inconsistenti di controllo delle trasformazioni che moltiplicano le nuove volumetrie indistintamente fuori dalla città consolidata, in aree carenti di servizi, malamente accessibili quando non a rischio idraulico, consentendo di attuare le previsioni edificatorie senza realizzare né preservare le aree per giardini o servizi di quartiere. Il regalo alle rendite speculative è enorme e scarica sulla città contraddizioni e squilibri sempre più ardui da sanare. I dati odierni sono già, a riguardo, l’impietosa testimonianza di una doppia disfunzionalità. Oltre GRA dove le densità scendono a valori “rurali” di 30 abitanti per ettaro, la popolazione non è abbastanza aggregata per essere servita con standard “urbani”. Viceversa all’interno del Raccordo, dove le superfici vegetate pur occupano il 40% dei terreni[10], la dotazione di parchi pubblici attrezzati non raggiunge i 4 mq/abitante fissati come minimo di legge; e mentre ovunque prosegue la distruzione delle alberature storiche e monumentali, nelle periferie della città compatta manca persino lo spazio fisico per ripianare il debito verde generato dalle ininterrotte ondate espansive.
Che tuttavia non si tratti di esiti ineluttabili, lo dimostra il capitale territoriale della collettività che a Roma resta considerevole. La Carta della Città pubblica rileva nel 2015 ben 12.000 ettari non edificati interni all’urbanizzato, più 18.000 ettari di terreni rurali o forestali, fra cui 3.000 di tenute agricole di diretta proprietà comunale[11]. È semmai mantenerli in uno status generico di spazi-aperti-verdi a depotenziarne il ruolo urbano: a metterne in risalto la precaria condizione, la sempre possibile riconversione in destinazioni più remunerative, esaltando piuttosto la distanza tra dotazioni elevate in quantità e deludenti qualità attese in termini di benefici sociali e ambientali; un divario colmabile con una trama verde più fitta, di prossimità, un patrimonio arboreo più folto, pervasivo di strade e cortili, un diverso progetto che finalmente sottragga la Capitale ai mutevoli interessi immobiliari.
Il pensiero corre alla solitudine dell’Appia, ad Antonio Cederna[12] e Italo Insolera, a Vittoria Calzolari[13] e a quanti come loro ne hanno tenacemente e lungamente perseguito la difesa: una creatura lasciata orfana, isolata come il suo compagno Tevere, mai appieno valorizzata né tanto meno replicata entro una strategia di generale riequilibrio ambientale del tessuto urbano. A Roma è così mancato un progetto per il monumento dell’Agro, il rudere più grande, complesso e forse malconcio che la storia abbia consegnato all’Urbe. Manca ancora un disegno per ricondurre lo spazio della campagna romana all’unità perduta seppur manchevole delle parti cancellate dal tempo, che lo renda un luogo ospitale, composito, adatto alle esigenze degli uomini, aperto alla natura. E adesso più che mai manca una prospettiva urbana che assuma la finitezza spaziale che ha contrassegnato la lunga storia della città: i limiti ristabilendo i quali città e campagna possano tornare distinte ma operosamente complementari.
In questo quadro, il cosiddetto “consumo di suolo zero” cui comunemente si riferiscono le strategie per contenere lo sviluppo della città entro gli ambiti già urbanizzati appare un obbiettivo ineludibile quanto insufficiente. L’odierna sfida è adattare Roma ai cambiamenti climatici. All’Urbe servono contemporaneamente più aree verdi e più biodiversità.
L’ultimo Censimento dell’agricoltura[14] è in tal senso solo parzialmente di conforto. I dati 2010 registrano infatti da un lato il positivo consolidamento del comparto, ma dall’altro l’ancor debole incidenza di forme di conduzione a ridotto impatto ambientale.
Oggi nel comune di Roma ricadono aziende che possiedono 58.000 ettari di terreni agricoli di cui 43.000 in produzione, in parte ubicati fuori dai confini comunali. La ripresa di superfici e aziende trainata sia dalle classi più piccole che da quelle medie tra i 20 e i 30 ettari, cui si assiste tra 2000 e 2010, è un dato in controtendenza rispetto ai valori nazionali e persino provinciali; riflette i processi di riorganizzazione strutturale avviati negli anni ’90 che hanno agevolato la riarticolazione produttiva delle aziende. Gli analisti vi osservano la crescita di attività artigianali, di trasformazione, didattiche, floro-vivaistiche o energetiche legate sia alla vicinanza con la Capitale che a più vasti mercati globali. Sono segnali propizi, specie se si considerano le precedenti contrazioni intercensuarie dei terreni aziendali, ma non tali da indicare il superamento dei sistemi agrari più impattanti.
Malgrado l’incremento delle superfici a legnose e degli incolti, nella campagna romana continua infatti a predominare il seminativo. Il primato risale alle destinazioni storiche dell’Agro ma quella che era tradizionalmente una pratica estensiva, alternata al pascolo, si è tramutata in una coltura intensiva che è ormai la principale responsabile dell’impoverimento dei suoli. La specializzazione peraltro prosegue, incoraggiata dai finanziamenti della Politica Agricola Comune che favoriscono per l’accesso ai sostegni, le aziende medio-grandi quali quelle romane, in maggioranza superiori a 30 ettari. Al contrario le aziende certificate “bio” restano una sparuta minoranza. Né si hanno evidenze che l’aumento degli incolti sia associato alla ricrescita dei boschi e non piuttosto ai noti abbandoni dell’attesa speculativa.
Struggente come un’antica rovina, l’Agro vive insomma nell’inerzia del passato splendore, vulnerabile ad ogni ulteriore spoliazione; la campagna romana è una terra povera di valenze ecologiche: un ecosistema degradato sempre più esposto all’intensificarsi dei fenomeni causati dall’Effetto Serra, sempre meno capace di contrastarne gli impatti sulla città. L’uso agricolo intensivo ha intaccato le funzioni ambientali che i suoli svolgono per l’assorbimento delle acque e l’abbattimento del carbonio. La frammentazione provocata dalle lottizzazioni a bassa densità ha interrotto le connessioni ecologiche che potrebbero altrimenti supportarne la biodiversità e concorrere al contenimento delle isole di calore.
Le recenti piene del Tevere, le esondazioni del reticolo idrografico minore che avvengono con sempre maggior frequenza nei quartieri periferici, gli estesi allagamenti cui è ormai soggetta l’Urbe non sono che la drammatica testimonianza di una diffusa criticità[15].
Chi oggi risalga via Formia verso il cuore dell’ex SDO Casilino costeggia un vecchio frutteto, filari di viti e secolari torri suburbane. Sono tra i rarissimi superstiti dell’antico Suburbio: un lembo rimasto intrappolato nella periferia del Quadrante Est che si è sottratto all’espansione novecentesca per essere stato riservato al mai attuato Sistema Direzionale Orientale. A lungo negletta e sottovalutata rispetto ai superbi parchi nobiliari, l’area è vincolata dal 1995: “Qui permane l’eccezionale contesto di giacenza di innumerevoli resti archeologici non evidenti ma tuttora conservati nel sottosuolo”, la “straordinaria compresenza di valenze storiche e ambientali” che fu “il paesaggio antico della campagna romana” spiegava il Soprintendente Adriano La Regina nel decreto di tutela[16].
“Questa parte di Roma ha nei valori archeologici-monumentali, nei caratteri storici ed ambientali e nell’attitudine che tale profilo presenta (per) consolidare la fisionomia storica dei complessi monumentali”, un “valore storico-culturale meritevole di protezione” che è “l’unica vera e grande possibilità di riscatto dalle condizioni di anonimato in cui versa”, continuava La Regina motivando il provvedimento: un’ispirazione forte che voleva corrispondere la lunga stagione di lotte delle borgate con un destino ad alta densità naturale ed elevato contenuto culturale, storico e testimoniale. Oggi l’area soffre un lento declino, erosa dai cantieri, corrosa da mire speculative illecite o palesi ma presidia tenace gli ultimi spazi liberi del Suburbio orientale. La sua trasformazione nel grande polmone del quartiere è un’immagine intensa germogliata in tante successive battaglie: la linfa verde che potrebbe scorrere in tutta la città.
[1] Lucchese F., Atlante della Flora del Lazio, Regione Lazio 2018
[2] Roma è proclamata Capitale del Regno con legge n.33 del 3 febbraio 1871
[3] G.Restaino, Il Suburbio di Roma: una storia cartografica, Gangemi 2012; K.Lelo, Agro romano: un territorio in trasformazione, Roma Moderna e Contemporanea n.XXIV/2016
[4] M.Crisci, Migrazioni e trasformazione urbana. Roma 1870-2015, in M.Colucci, S.Gallo (a cura di) Rapporto 2016 sulle migrazioni interne in Italia, Donzelli 2016
[5] A.Clementi-F.Perego, La metropoli “spontanea”, Dedalo 1983; I.Insolera, Roma moderna, Einaudi 2011
[6] Comune di Roma, Prima Relazione sullo Stato dell’Ambiente, 1997; M.Munafò, Evoluzione del consumo di suolo nell’area metropolitana romana, in: V Rapporto sull’Ambiente urbano, Ispra 2008
[7] N.Bassetti, Sacro romano Gra, Quodlibet 2013
[8] W.Tocci-I.Insolera-D.Morandi, Avanti c’è posto, Donzelli 2008
[9] V.De Lucia, Roma Disfatta, Castelvecchi 2016; si vedano anche i dati Ispra per l’impermeabilizzato: Il Consumo di Suolo di Roma Capitale, 2018; per l’urbanizzato: Copernicus-Urban Atlas 2012 e 2018
[10] Dati Copernicus-Urban Atlas 2012; https://land.copernicus.eu/local/urban-atlas/urban-atlas-2012
[11] Dati rielaborati dalla Carta della Città Pubblica, U.O. Statistica – Open Data, Roma 2017;
https://www.comune.roma.it/web-resources/cms/documents/Verde_pubblico_2017_rev_02_19.pdf
[12] A.Cederna, I vandali a Roma, 1956 (Archivio Insolera Roma)
[13] V.Calzolari, Storia e natura come sistema, Argos 1999
[14] Istat, VI Censimento dell’Agricoltura 2010; la SAT è qui assimilata alla superficie aziendale, la SAU ai terreni in produzione
[15] Roma Capitale, Piano di Protezione Civile: Rischio idraulico, 2018;
[16] DM 21 ottobre 1995, Vincolo ex art.1 let.m) L.n.431/1985 “Compendio Ad duas lauros, Roma”
2. L’altra mappa tra “vuoti” e “pieni” territoriali
La vita della Capitale è stata scandita da un doppio rifiuto dell’eredità pre-Unitaria: per il Suburbio e per l’Agro. Per far posto a ciò che oggi si indica come periferia storica, la campagna ricca, ortiva e vitata che circondava l’Urbe è stata sacrificata per prima; di quel periodo si ricordano le molte e autorevoli proteste contro la lottizzazione delle ville nobiliari ma, salvati gli augusti parchi dalla completa sparizione, la città è cresciuta compatta: un consumo aggressivamente intensivo contro il quale, nel dopoguerra, le dure battaglie popolari per la dotazione di servizi poco o nulla hanno potuto a fronte della penuria fisica di interstizi, la scarsità di terreni da destinare al verde e agli usi collettivi che tuttora caratterizza i quartieri appena fuori le Mura. Fagocitato il Suburbio, l’espansione è poi dilagata nell’Agro per corrosione estensiva, addensandosi lungo le consolari, protesa al grande catalizzatore del GRA, lasciando immense lacune, rovine, residui là dove regnavano boschi, paludi, coltivi; comunque si sia attestata nella campagna romana, in forma densa, rada o sfibrata, ovunque la “macchia d’olio” ha così distrutto servizi ambientali, frammentato connessioni ecologiche e costretto il patrimonio di biodiversità a sopravvivere ai margini del costruito.
Come un paesaggio dopo un’esplosione, la voragine al centro e i frammenti sparsi attorno per ogni dove, oggi il saccheggio della campagna romana sconcerta. L’Agro non era mai stato il semplice deserto spopolato che poteva suggerire la vastissima estensione dei possedimenti[1]. Persino i viaggiatori del Grand Tour, affascinati dalla dominante del seminativo nudo che tanto contrastava con i campi chiusi d’Oltralpe, ne avevano resa celeberrima l’icona ritraendolo con l’acquedotto sullo sfondo.
Il latifondo era piuttosto un mosaico organizzato in base a precise destinazioni colturali, articolato per condizioni idrografiche, pedologiche e microclimatiche, con casali, “procoi” e masserie inesorabilmente attestati all’attacco dei fontanili, secondo una suddivisione in quarti e “pediche” non a caso sopravvissuta ai passaggi di proprietà nella toponomastica che oggi individua le periferie più estreme[2]. Nei registri catastali tardo seicenteschi, oltre a seminativi e pascoli bradi, si ritrovano foreste per la caccia, pantani ridotti a peschiere, prati stabili. Emerge la ricchezza di tradizioni minori quanto essenziali nell’economia delle tenute tanto da trasmettersi dal latino volgarizzato al dialetto. Persino gli atti notarili ne adottano il lessico agronomico, elencando gli “arundineti” di canne per il sostegno delle viti, i “ciamarucheti” di siepi per l’allevamento delle lumache, i “risari” di erbe spontanee medicinali, i “perazzeti” dei pascoli arborati con peri selvatici.
Sullo scorcio di questi usi, si profila un territorio fortemente connotato dal connubio fra maggesi, estensivi e pascoli con gli ambienti naturali o blandamente domesticati: un paesaggio agrario inframmezzato da molteplici fossi, marrane e boschi di forra, intercalato a sterpari e tommoleti retrodunali, alternato a sodi incolti e mezzagne inadatte alla semina, lasciate cespugliare a bordo campo.
Roma ha una storia millenaria di territorializzazione ma ciò che ne rende straordinaria l’identità, prima ancora delle eccellenze dell’architettura, è la monumentalità ambientale:
la morfologia indomabile, l’argine primigenio che in passato ha obbligato la città a misurarsi con limiti difficilmente valicabili. È il biondo fiume a trasformare i romani in valenti costruttori di ponti, le sue alluvioni a renderli antesignani dell’idraulica di cloache e terme. Adattandosi alla presenza di acque e rilievi, Roma assume l’assetto plurale divenuto contesto e matrice dei monumenti antichi, storici o memoriali, il profilo che ancora ne distingue il tutto e le parti: Trastevere dal Pincio, Veio da Decima, i lacerti del Suburbio Prenestino dalle forre di Primavalle.
Lo stesso avviene per l’espansione nelle periferie; spesso interpretata come commistione incoerente tra parti edificate e libere, è proprio la vicinanza all’Agro a custodirne gli elementi qualificanti: la presenza sensibile del paesaggio agrario, le connessioni tra natura coltivata e spontanea, la singolare mescolanza di casali ed edifici antichi.
Nella Roma rarefatta, ancora instabile che cresce attorno al GRA è lo spazio aperto a definire i luoghi: è il “vuoto” la componente stabilizzante dell’assetto urbano.
Studiando tessuti e morfologie, nella città anulare emergono differenze di densità, tipologia e storia che, nei pur estemporanei processi di formazione, mostrano il persistere dei legami originari con l’ambiente naturale, l’Agro e le residue permanenze dell’antica campagna romana: un rapporto debole ma sufficiente a sedimentarne i caratteri insediativi[3].
Non si può fingere che lo spazio attuale sia frutto di un disegno, di un pensiero razionalmente elaborato e fermamente perseguito. È infatti un equilibrio precario che impone a questi territori, condizioni e pause temporali nella trasformazione urbana: salti fisici e dimensionali che la periferia anulare ha assimilato in un sistema pur fragile ma ricco di identità storiche e spaziali.
Quando allora si considerano i suoli non più uno spazio neutro, se ne possono osservare le molteplici articolazioni tra alture e valli del reticolo idrografico, il continuo avvicendarsi di campi e alberate, la varietà dei complessi di forre, boschi e rinselvatichimenti. Si coglie il ruolo strutturante che questo vuoto apparente ha avuto e tuttora possiede per il costruito. Si riescono a immaginare le funzioni strutturali che può assumere, qualora si decida di render stabile nel tempo ciò che può sembrare soltanto ancora una struttura latente: la campagna quale invariante del territorio, fulcro delle relazioni di prossimità, luogo di incontro, socialità, cultura e per un’altra economia.
Riconoscere il “pieno” nel “vuoto” degli spazi liberi della campagna romana fissa un nuovo principio ordinatore. Individua il patrimonio non negoziabile di spazi pubblici e a verde con cui tracciare i confini del costruito. Stabilisce il perimetro entro il quale concentrare gli interventi secondo una gerarchia alternativa di destinazioni ed usi fondata sulle specificità localmente già stratificate, le esigenze pregresse, l’accessibilità o le nuove vocazioni con cui superarne la marginalità urbana e l’aleatorietà nelle relazioni sociali.
Gli stessi frammenti sparsi attorno al Raccordo ne risultano ricomposti in una diversa città “granulare”, suddivisa in un numero limitato di parti identificate dalla morfologia dei suoli, l’idrografia, l’identità storica, separate dai corridoi ecologici che assicurano le connessioni tra l’Agro dentro e oltre GRA, procurando alla città la linfa per l’adattamento ambientale.
L’area metropolitana di Roma racchiude tutti i sistemi del paesaggio italiano ad eccezione dei ghiacciai: montagne, vulcani, boschi, fiumi, laghi, territori costieri e zone umide, parchi, riserve, aree archeologiche e terreni di uso civico. Vi si contano fra proprietà pubbliche e private, oltre 150 ambiti per complessivi 250.000 ettari dichiarati, per i loro caratteri peculiari, di notevole interesse pubblico e ben 52 aree protette estese su 100.000 ettari tra parchi, riserve e monumenti naturali, 40.000 dei quali ricadenti nei confini comunali. Centinaia di migliaia di persone abitano all’interno o nei pressi di zone protette dalla legge: accade in aree situate vicino al Raccordo, accanto e attorno alla città a bassa densità come Decima, Mistica, Casal del Marmo, Marcigliana e Tenuta dei Massimi, Veio, Gabi e Ostia, Castel Fusano, l’Appia, le riserve del Tevere o dell’Aniene; in luoghi come il Trullo, Tor Fiscale, Caffarella, Villa Gordiani e Cervelletta, Aguzzano e Pratone delle Valli, Ex Snia-Parco delle Energie e Centocelle, Volusia o la Valle dei Casali, a contatto o nel cuore di quartieri intensivi dove massima è la densità di popolazione, minimo il verde.
Si tratta di eccellenze ma ovunque la presenza di aree naturali può farsi carico di veicolare una rinnovata qualità sociale dello spazio pubblico. Nulla è più mobile del confine tra terreni abbandonati e giardini alberati, orti e apiari di vicinato, campi gioco e paludi per l’osservazione degli uccelli, frutteti per specie dimenticate o rifugi viventi per specie a rischio di estinzione. Alle soglie del costruito c’è una terra di libertà che può coinvolgere scuole, famiglie, generazioni, e sollecitare il confronto tra aspirazioni e necessità, la collaborazione tra saperi per ricostruire insieme un margine a tutti riconoscibile come città.
Si possono indicare come relazionali i beni che la collettività produce per esercitare le proprie attività di relazione, la socialità o la semplice eventualità di scambi e incontri. Sono beni ricchi di valore ma fuori dal mercato[4]. Sono sia immateriali che spazialmente definiti, e simboleggiano il patrimonio distintivo dei processi di socializzazione urbana; qualcuno li definisce anche beni comuni a sottolinearne i caratteri collettivo, indivisibile, inalienabile[5]. La città storica si è sviluppata attraversando fasi successive di condivisione, adattamento e monumentalizzazione degli spazi relazionali. La società infatti ne produce di continuo.
Ogni quartiere, quando ne è sprovvisto, vi provvede: trasformando muretti in sedute, piantando pergolati per ombreggiare panchine o curando i giardini davanti alle scuole. A Roma accade ogni giorno, nella città compatta e in quella granulare, ma non tutti i beni comuni relazionali sopravvivono all’incuria, alla speculazione o al cambio di generazione. Per radicarsi e segnare il territorio infatti non basta una mano benevola e nemmeno una comunità affiatata, servono prospettive di durata che solo il riconoscimento delle valenze pubbliche, in quanto sociali e relazionali, può loro assicurare[6].
Non molte città vantano il fermento di volontariato e associazionismo dell’Urbe. Incensato nei momenti di difficoltà, sotto le feste o prima delle elezioni, supplisce ai bisogni, colma disagi, genera socialità e innovazioni solo occasionalmente recepite dalle istituzioni. Così il cambiamento, se c’è, è lentissimo, esito di vertenze interminabili che spesso accusano l’implosione dei gruppi aggregatisi per perseguirlo. Non è questione di partecipazione ma di capacità dell’amministrazione di mutuare la domanda espressa dai cittadini. La miriade di miglioramenti locali che le intelligenze collettive[7] producono in risposta ad esigenze reali, quotidiane, comuni può sedimentare solo se il governo della città riacquisisce al pubblico le scelte che presiedono a una superiore vivibilità urbana, l’impegno e l’onere per la loro gestione. Per farlo Roma deve adeguare conoscenze, strumenti e bilanci, ma deve innanzitutto imparare a coordinare le proprie azioni.
Da diversi anni nella Capitale è evidente e forte una domanda collettiva e dal basso di aree verdi contigue ai luoghi di vita e di lavoro, dove le funzioni produttive e ambientali non esauriscono le opportunità che lo spazio agricolo può offrire alla città. Si pensi alle esperienze degli orti urbani che sebbene limitate in termini di impatto quantitativo, restano significative sotto il profilo dell’associazionismo civico e della formazione. L’iniziativa Coltiviamo la città, un orto per quartiere promossa dal gruppo “Zappata Romana” mostra come tale volontà sia tra le priorità di molti: il progetto, che ha chiesto all’amministrazione di destinare parte del bilancio partecipativo allo sviluppo di nuovi orti urbani e scolastici, ha raccolto a maggio 2020 l’adesione di oltre 140 associazioni, testimoniando la vitalità di una rete di soggetti portatori, ciascuno nel proprio campo di azione, di saperi, conoscenze e potenziali capacità di innovazione.
Il semplice supporto finanziario, pur meritorio, non risolve tuttavia le criticità che scontano per la loro frammentazione negli spazi e nei tempi della città: inseriti in un organico schema di recupero urbanistico, di sostegno didattico e sociale riuscirebbero a superare la dimensione dell’happening urbano e condividere con l’esterno idee e conoscenze.
Il governo capitolino deve prestare più attenzione alle terre pubbliche di cui ha ampia disponibilità. Esistono infatti e resistono nella campagna romana vaste superfici di proprietà comunale dove immaginare un cambio di passo nella gestione dei terreni rurali. Soggetti che vi sono già impegnati forniscono indicazioni importanti sul come realizzarlo. “RomAgricola”[8] che vanta una lunga storia di rivendicazione circa le funzioni collettive dell’agricoltura periurbana, oggi promuove azioni, convegni e reti con l’Università, i produttori locali e le realtà associative, per ribadire l’importanza della tutela ambientale come leva di cambiamento nelle pratiche d’uso dell’Agro.
La dotazione di aree pubbliche e strutture dislocate nella campagna romana ha un ruolo nodale se orientato alla promozione di tali esperienze e al supporto della loro dimensione associativa. Nel 2015 la Guida all’Agricoltura sociale del Lazio[9] ha censito 52 realtà operanti nella provincia di Roma, identificandone le cinque finalità principali: riabilitazione e cura, formazione e inserimento lavorativo, educazione, ricreazione e qualità della vita, servizi per il quotidiano. Il modello è pertanto capace di svolgere compiti fondamentali di integrazione e inserimento sociale per le categorie più fragili, conciliando la produzione agricola con la salvaguardia dei servizi ecosistemici[10]; ha solo bisogno di una coerente agenda istituzionale che gli conceda spazi di maggior prossimità ai contesti di vita dei destinatari, funzionali anche alla nervatura verde della città.
Dagli orti locali all’uso sociale delle terre pubbliche emerge un’agricoltura multifunzionale che, oltre ai prodotti della terra, sviluppa lavoro, servizi ecologici, saperi e, investendo nell’innovazione ambientale, crea filiere di gestione, valorizzazione e tutela dell’Agro.
Va in questa direzione l’azione sostenuta da cooperative locali, ricercatori e associazioni del “Movimento per la Food Policy” di Roma[11] che si propone di realizzare una politica del cibo per la Capitale, costruendo un sistema agroalimentare integrato. Nella prospettiva del Movimento è centrale il mutamento di sistemi e modi di produzione, distribuzione e consumo di cibo in chiave di sostenibilità ambientale, lotta agli sprechi e valorizzazione delle esperienze locali; un cambiamento che può avvenire attraverso l’interlocuzione continua tra amministrazione e attori del comparto agroalimentare romano mediante un “Consiglio del cibo” sul modello di molte città nord-americane, europee o italiane.
Molti studi recenti hanno evidenziato le città plurali che animano il corpo dell’Urbe: rioni e spicchi che conformano gli spazi della vita quotidiana, si snodano lungo gli itinerari del lavoro o della scuola, sino a influenzare le direttrici dove traslocare residenze e progetti di vita, ieri verso fuori, ora di nuovo verso il centro. Sono i cittadini che si confrontano con le identità di vicinato e finiscono lentamente per plasmare il “quartiere”. La loro è un’azione costante di conversione, adeguamento, e talvolta rottura, con lo spazio urbano ma né la riambientalizzazione dell’Agro né l’adattamento urbano ai Cambiamenti climatici possono essere in toto delegati al volontariato o ai movimenti dal basso. Sono attori indispensabili per la trasformazione della città esistente ma spetta all’Amministrazione “fare rete”.
La città per adattarsi ha bisogno di serbatoi verdi sia fisici che funzionali: di luoghi dove collocarli e di biodiversità con cui mantenerne in circolazione la linfa vitale; il “vuoto” degli spazi aperti è un “pieno” di naturalità residua che i processi ambientali connettono tra loro. Il modo più efficace per fronteggiare gli impatti dell’Effetto Serra è sfruttare le funzionalità di riequilibrio ecosistemico: le capacità naturali che la vegetazione possiede di produrre ossigeno, del fogliame di catturare polveri inquinanti, delle barriere verdi di proteggere dai venti, degli alberi di contenere i picchi di calore, dei suoli vegetati di mitigare piene e allagamenti. Quanto più è ricca e densa questa vegetazione, quanto più è ramificata la rete ecologica che dai territori esterni investe i contesti urbani degradati, tanto meglio riesce a tramutare la città in un sistema ambientalmente resiliente.
Oggi le risorse per trasformare la campagna romana in un’estesa rete ecologica si annidano tra le inerzie dell’antico sistema dell’Agro e i terreni della nuova agricoltura multifunzionale. Sopravvivono, talora contigue più spesso isolate, nelle valli del Tevere e dell’Aniene, lungo le rive dei corsi minori, nelle zone inaccessibili, nei parchi e nelle aree archeologiche[12].
Disegnano un’altra mappa che, alla scala locale, individua gli incolti sparsi tra seminativi e pascoli, gli alberi vetusti nei campi arborati, i boschi e i canneti cresciuti anche là dove le vecchie marrane sono intubate o scomparse; segna, alla scala vasta dell’Agro, i corridoi irrinunciabili con cui ristabilire le connessioni e funzionalità latenti dell’ecosistema. Questa mappa inverte anche le tradizionali polarità urbane: porta in primo piano la linfa vitale che scorre tra il centro e le periferie, collegando i nuovi monumenti ambientali della città granulare ai bastioni verdi della città compatta, ai parchi storici, alle aree abbandonate alle dinamiche spontanee di ricolonizzazione, ai resti dell’antico Suburbio: una mappa dove le isole si riconoscono finalmente arcipelago.
[1] A.Natoli (a cura di) Introduzione a Roma contemporanea, Centro Studi su Roma moderna 1954; Il capitolo La Questione agraria e le lotte contadine riporta i dati 1913 per 203.420 ettari di territorio comunale: città 5.060, Suburbio 4.606, infrastrutture 5.657, Agro 188.090: questo è diviso in 473 tenute ma la metà delle superfici appartiene a 25 famiglie, 11 delle quali possiedono 76.000 ettari.
[2] S.Passigli, Le piante dei Casali, Collana Roma nel Rinascimento, 2015; Contratti agrari e Paesaggio vegetale, in A.Cortonesi (a cura di) Terra e lavoro nel Lazio, Laterza 2000
[3] M.Pietrolucci, La città del Grande Raccordo Anulare, Gangemi 2012
[4] C.Donolo, Italia Sperduta, Donzelli 2011
[5] P.Maddalena, Il territorio bene comune, Donzelli 2014
[6] P.Berdini, Le città fallite, Donzelli 2014
[7] W.Tocci, Roma Come se, Donzelli 2020
[8] M.Adami (a cura di), La Terra come Patrimonio Comune 1977-2017, Edup 2017; RomAgricola, Agricoltura periurbana e politiche per lo sviluppo sostenibile e integrato di Roma, Roma 4 ottobre 2019: https://abitarearoma.it/convegno-roma-agricola/
[9] Regione Lazio, Guida dell’Agricoltura sociale, 2015
[10] A.Cavallo et.al, Roma: una metropoli agricola, in Agricoltura Cibo e Città, pas/SAGGI 2014
[11] Per lo studio Food Policy: https://www.politichelocalicibo.it/2019/10/18/una-food-policy-per-roma/
[12] S.Pignatti-G.Fanelli, Le piante come indicatori ambientali, ANPA 2001; I.Kowarik, Emerging Urban Forests: Promoting the Wild Side of the Urban Green Infrastructure, Sustainability n.11 2019
3. Il clima che cambia la città
La geografia degli spazi aperti romani non conosce periferia, né omologazione ma le sue trame e paesaggi configurano un’immagine d’insieme solo se riferiti a un’intenzionalità collettiva, comune, sostanziata da azioni differenti per scala e tempi di intervento; non un generico azzeramento del consumo di suolo ma precise priorità di recupero dell’edificato in un quadro stringente di riqualificazione ambientale preclusivo di ulteriori compromissioni.
Nel territorio della rete ecologica, rivendicazioni, azioni pilota, politiche pubbliche e strumenti di piano sono tutti ugualmente necessari per segnare una discontinuità nel modo di considerare, utilizzare e redistribuire le risorse disponibili.
Il processo di riurbanizzazione in atto intensifica la domanda di trasformazione della città esistente a discapito di ulteriori espansioni; l’esplosione della bolla immobiliare successiva alla crisi economica del 2008 ha contratto i prezzi degli appartamenti, sia in vendita che in locazione, e restituito alle famiglie l’opportunità di trovare una soluzione abitativa economicamente sostenibile più prossima al urban core. Persino i flussi residenziali centrifughi diretti verso la campagna metropolitana si stanno ridimensionando[1].
Per consolidare queste tendenze, va portato a termine l’intervento impostato nei primi anni ’90 con la Variante di Salvaguardia[2], e approdato trent’anni dopo alla Rete ecologica del nuovo Piano Regolatore[3]. Bisogna riprenderne spirito e finalità per fissare le invarianti fondamentali della Capitale: un orizzonte unitario di aree definitivamente indisponibili al consumo di suolo, con limiti inderogabili all’espansione dell’edificato. L’adattamento al Clima fornisce un quadro organico di politiche per la città esistente con cui ricucire i rapporti tra urbano e rurale, gli equilibri tra tessuti radi e compatti, il legame tra centro e periferia; proposte precise che ne concretizzano gli obbiettivi trasversali adattativi per strutturare Roma sugli spazi di prossimità e ridare senso alle strutture urbane locali: recuperando il patrimonio esistente, demolendo o densificando, ridefinendo mobilità e modi di spostamento, provvedendo all’estensione degli spazi a verde e al loro utilizzo.
Le esperienze di adattamento in corso sono progetti intersettoriali di riordino urbano che ricavano nuove prestazioni ambientali dagli spazi disponibili, riconsiderandone usi e destinazioni[4]. Configurano una città che cresce su sé stessa. Sfruttano l’aumento di spazi verdi per moltiplicare i beni relazionali e migliorare i servizi di vicinato, abbinando interventi sulla loro distribuzione e accessibilità. Sono organizzati per fasi incrementali e uniscono la scala vasta alla dimensione di quartiere. Barcellona procede per blocchi della sua maglia ortogonale, le “Supermanzanas” dove, riducendo la velocità delle auto a 20 km/h, riesce a moltiplicare gli usi dello spazio pubblico e ad accrescere piantumazioni e biodiversità[5]; Parigi ha soprannominato il proprio Piano di Adattamento al Clima, la Città dei quindici minuti e lo sta replicando sull’intera Île-de-France[6].
Roma può ambire ai medesimi scenari ma servono scelte nette.
Il “consumo zero” di suolo presuppone anzi tutto un “anno zero” della città costruita. A dieci anni dall’approvazione del PRG va risolta l’assenza di uno stato aggiornato della sua complessiva attuazione: non c’è Urbe a “consumo zero” senza una verifica preliminare della direzione assunta dal Piano vigente. La mappatura delle aree edificabili lungo il Raccordo mostra la saturazione diffusa della città anulare, l’urbanizzazione di vaste estensioni di Agro e l’edificazione di aree altrimenti strategiche per conservare le connessioni tra territorio rurale e città compatta. C’è dunque un problema contingente di coerenza con la Rete ecologica che il Piano dichiara pur essere la propria trama portante, cui consegue il rischio di perdere, con i superstiti corridoi liberi dell’Agro, ogni margine di indirizzo e controllo del consumo di suolo che l’Amministrazione volesse adottare.
Nelle analisi parziali sinora effettuate sui quadranti della città, spicca la differenza tra attuato e previsto. Ogni seria azione di riassetto della Capitale appare infatti condizionata dai diritti edificatori, le ingenti cubature generate dal trasferimento di previsioni insediative in zone periferiche. Analoghe per entità ai sovradimensionamenti all’origine della “macchia d’olio”, figlie delle discrezionalità illimitate dell’espansione novecentesca rappresentano un vincolo di fatto anche per i progetti animati dalle migliori intenzioni[7]. L’ultimo PRG non ha inteso cancellarne l’eredità benché non obbediscano a nessun obbligo di legge; svariate sentenze ne riconoscono anzi la subordinazione a destinazioni per uso pubblico e alle più generali prerogative degli strumenti urbanistici di conformare l’edificabilità dei suoli agli interessi collettivi. I loro effetti distorsivi sul governo e lo sviluppo della città sono rilevanti, evidenti nello stock di invenduto determinato dalla contrazione della domanda immobiliare, oltre che inaccettabili quando gli interessi privati sono realizzati senza corrispondere gli standard collettivi. Senza addentrarsi nelle questioni della rendita, sul peso che ha avuto e conserva[8], per capire l’ipoteca gravante su qualsiasi ipotesi di città futura basta osservare la situazione generata dal loro atterraggio: sempre attorno al GRA l’eccesso nell’offerta di volumetrie edificabili è quantificabile nel 55% dei programmi attuativi decaduti o nemmeno progettati, contro il 26% di approvati e vigenti e appena il 15% in corso di realizzazione[9].
Per ricondurre la strumentazione attuativa a più opportune finalità ambientali, va impostata una valutazione del PRG mirata alle criticità della città esistente che ne ripercorra storia, forme di governo e assetti proprietari. Ci sono cubature mai realizzate, ruderi dichiarati tali per aggirare le tassazioni saldamente capitalizzati in banca. Vanno identificate le attese “dormienti”, superate da evidenti ragioni pubbliche di adattamento al Clima, suscettibili di definitiva cancellazione. Il suolo è una risorsa scarsa, servono priorità: confrontando localizzazioni e quantità con le dotazioni pubbliche effettive, le carenze di verde pregresse, l’accessibilità ai servizi urbani e di quartiere. La città è un sistema unitario: gli schemi attuativi vanno aggiornati al variare delle esigenze primarie, le previsioni ricontestualizzate rispetto ai carichi urbanistici, alle ricadute su mobilità privata e collettiva, agli obbiettivi di rafforzamento della rete ecologica.
Se la valutazione muta la natura del piano, l’adattamento al Clima cambia il modo di concepire lo spazio urbano[10]; quando si inverte lo sguardo sui “pieni” che definiscono la forma fisica della città, è sul “vuoto” dell’Agro che l’antico gesto della conterminazione individua il nuovo limite urbano: la linea verde che ribalta le priorità dello sviluppo, argina lo spreco di suolo e impedisce all’urbanizzazione di chiudersi in un agglomerato continuo; i territori più fragili della rete ecologica sono anche i più appetibili all’edificazione.
Lo si può chiamare “Piano Clima”: un programma ambientale unitario, di largo respiro, in grado di coinvolgere quanti in questi anni si sono già impegnati con progetti, studi o azioni puntuali, le istituzioni nazionali e internazionali, i centri di ricerca, le intelligenze diffuse; una strategia concepita per lo specifico contesto mediterraneo che ponga attivamente Roma tra le città all’avanguardia nella lotta al cambiamento climatico.
Con il Piano Clima, il confine della città esistente è tracciato a partire dai quartieri anulari, lungo gli spazi inedificati che si spingono verso le zone centrali più dense e compatte. Dentro al recinto del Grande Raccordo sono preservati i terreni liberi, i luoghi dove potenziare le funzionalità ambientali. Gli incolti e le aree dismesse che, avendo esaurito il proprio ciclo urbano o produttivo, sono recuperati per la ricolonizzazione spontanea e la forestazione; gli alvei canalizzati sono restituiti alla divagazione in golena, alla ricarica delle falde, alla ricostituzione di pantani e marrane dove ospitare nuovamente uccelli di passo, lucciole e libellule.
La campagna romana penetra così nei tessuti urbani, li circonda per unirli e separarli allo stesso tempo in un articolato sistema ambientale; forma una corona vitale che corre dentro e fuori GRA raccordando le valli del Tevere e dell’Aniene, il Parco dell’Appia, i corridoi minori del verde e delle acque che, attraversata la città granulare, si incuneano nel costruito sino ai residui dell’antico Suburbio e ai frammenti naturali imprigionati dal cemento: un reticolo idrologico e vegetale che favorisce la trasmissione delle funzioni di riequilibrio ecologico dalle aree di pregio ambientale alle zone degradate.
Protetto dalla campagna, rianimato dalla vitalità ritrovata dei suoi affluenti minori, attestato al centro, il grande fiume torna ad essere l’arteria pulsante della città; il codice sorgente per portare finalmente a compimento la pedonalizzazione dell’area archeologica centrale, estenderla al Colle Oppio, ai giardini dell’Aventino e del Celio, ai complessi ambientali delle Mura e degli alberi secolari cresciuti attorno alle vestigia antiche, istruendo nel cuore dell’Urbe un vasto parco monumentale contemporaneo: l’hub del Piano Clima, il crocevia verde che ricongiunge il Tevere all’Appia, gli assi portanti della rete ecologica capitolina da cui si irradiano, con le loro minute propagazioni nei quartieri, i rami dei vecchi SDO orientali, delle riserve a ovest e a nord della città, delle tenute a sud, prima di saldarsi ai giacimenti di biodiversità dei Castelli, della Dorsale appenninica e del Tirreno.
In contesti antropizzati è la trama connettiva a consentire al mosaico di spazi aperti, superfici rurali e parchi che conservano la fondamentale permeabilità dei suoli, di maturare la biodiversità necessaria per contrastare le isole di calore o gli allagamenti provocati dalle piogge intense. Il suo ruolo adattativo dipende dalla densità e interconnessione della maglia. Per questo le Amministrazioni che stanno attuando le reti verdi le concepiscono, oltre che come pura tutela naturalistica, come strumento per migliorare la vivibilità urbana.
Nella città del GRA la rete verde consente di superare i problemi irrisolti delle “centralità” previste dal PRG. I corridoi ecologici che uniscono le campagne più esterne all’Agro interno al Raccordo delimitano infatti i nuovi quartieri della città granulare: dieci zone ben definite con una stabile prospettiva di riordino strutturale, dove i monumenti locali storico ambientali, le aree libere intercluse e le proprietà pubbliche diventano gli elementi cardine con cui maturare le tendenze di stratificazione, definire l’orditura di servizi, luoghi pubblici, verde e spazi relazionali, la rilocalizzazione e l’accorpamento degli standard, consolidare mobilità interna e trasporti metropolitani.
La rete è l’occasione per riqualificare la Roma più vulnerabile ai fenomeni climatici, salvaguardando giardini privati e condominiali, aumentando le alberature di strade e piazze; recuperando l’insieme discontinuo ma estremamente esteso di aree produttive sottoutilizzate: carrozzieri, sfasciacarrozze, capannoni per i quali ricorrere ad un vincolo trasformativo che preveda la cessione a verde di almeno metà del lotto, in modo da concentrare le volumetrie esistenti e liberare spazi da riacquisire al regno vegetale.
All’interno della linea verde, le azioni sulla città esistente vengono rimodulate in relazione alle criticità che determinano per l’ambiente e la frammentazione della rete ecologica[11]. Le città stanno sperimentando allo scopo le sinergie di strumenti e fiscalità per disincentivare gli interventi impattanti sui carichi urbanistici e ambientali. I loro interventi sono sempre più nature based, multidisciplinari, reversibili e precauzionali; gli approcci all’adattamento territoriale sono trasversali alle tradizionali politiche di settore e progressivamente integrati in virtù di continue valutazioni sul rischio, la coerenza e l’efficacia delle scelte[12].
Ne emerge un ampio ventaglio di soluzioni che spazia dai Piani di Adattamento climatico ai Piani per la Mobilità, e comprende sia protocolli volontari sia le cogenze della normativa edilizia e urbanistica. Anche il Piano Clima della Capitale può assumere la trama ecologica come invariante fondamentale cui coordinare strategie, indirizzi e vincoli: un quadro coerente agli obbiettivi adattativi che stabilisca quali interventi attuare, come attuarli e con quali priorità. Il Piano può infatti dettare i criteri per la ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente, le demolizioni senza ricostruzione, l’adeguamento dei servizi di quartiere. Può contenere un Regolamento del verde che impedisca gli abbattimenti senza sostituzioni dei filari e imponga potature con i metodi dell’arboricoltura dolce. Può disporre un Abaco delle best practice contro gli allagamenti che individua i fossi tombati da riportare alla luce. Può anteporre la realizzazione delle dotazioni a verde al recupero dell’edificato o finalizzare la riduzione degli spostamenti che la città di prossimità comporta, alla moderazione del traffico e alla pedonalizzazione, sottraendo alla mobilità veicolare ulteriori superfici da ripermeabilizzare, rivegetare e ripiantumare.
Pensare alla campagna romana e ai suoi monumenti naturali in chiave di adattamento al Clima sollecita una più ampia riflessione, oltre che sulle pratiche, sui saperi che possono arricchire il paesaggio agrario in senso multifunzionale, rafforzarne i servizi ecologici o gestirne le istanze di conservazione. Le ricadute dirette dei Cambiamenti climatici sulle rese agrarie, le specie, i popolamenti floro-faunistici o i loro cicli coevolutivi richiedono filiere “colte” capaci di guardare al vecchio “deserto” del latifondo con gli occhi nuovi degli equilibri ecosistemici, della biodiversità e della rinaturazione. Non si tratta semplicemente di incentivare i giovani agricoltori o il reinserimento sociale ma di concatenare formazione e occupazione con la ricerca pubblica e l’innovazione urbana per moltiplicare le interazioni tra politiche per l’agricoltura, l’ambiente e la città, tra competenze esperte e millenials.
Servono più conoscenze per ettaro con cui promuovere la progettualità diffusa nelle intelligenze urbane e sperimentare il verde come luogo di interazione sociale, campo di azione per la collettività e l’azione pubblica, base per occupazioni stabili, gratificanti, orientate al futuro.
Le filiere colte elevano il livello tecnico con percorsi formativi pluridisciplinari che affiancano agronomi e forestali, con storici e geografi dell’Agro antico, idromorfologi ed ecologi, informatici e biologi molecolari, specialisti di cultivar tradizionali o insetti impollinatori. Sostengono l’occupazione qualificata con gruppi di studio e di lavoro intersettoriali che concepiscono e portano a termine strategie integrate al di qua e al di la della linea verde degli spazi aperti o da ridestinare a verde, nelle terre pubbliche, nei parchi agricoli, nelle tenute. Creano indotto con la tracciabilità dei percorsi di produzione e trasformazione, la certificazione dei prodotti, la sostenibilità delle tecniche di imballaggio o dei canali di distribuzione, la prevenzione degli sprechi alimentari: un’economia di filiera in cui rientrano anche le attività di informazione sulla storia della campagna romana e il patrimonio di riserve naturali, per la divulgazione di una cultura urbana del regno vegetale, la redazione di mappe e supporti interattivi alla conoscenza delle specie e alla consapevolezza della specificità ecologica dell’area romana, per la progettazione della sua fruizione lungo le mobilità lente ciclopedonali o i vecchi sentieri dell’Agro.
Se la regia sarà pubblica, saranno le filiere colte a catturare i finanziamenti appostati con il Next generation UE e il Recovery Fund.
L’Agro offre uno straordinario laboratorio alla crescente attenzione dei consumatori per gli standard di qualità di prodotti e allevamenti. La predilezione sempre meno di nicchia per il “chilometro zero” è avvantaggiata dalla vicinanza ai mercati della città a scuole e case di cura, alle attività di catering per convegnistica, fiere o turismo, con ampi potenziali per diversificare prodotti, forme di vendita e distribuzione. Persino nell’eventualità di una contrazione dei finanziamenti PAC ai seminativi industriali a favore di più stringenti finalità ambientali, le aziende romane hanno dimensioni tali da potersi riconvertire al ripristino delle pratiche estensive, degli avvicendamenti agro-pastorali, di conduzione mista o in asciutto, e per valorizzare la permanenza nei fondi di incolti e spazi naturali.
L’Amministrazione capitolina possiede circa 3.000 ettari di campagna, 2.000 nella sola Castel di Guido. Sono abbastanza per formare, tra aziende, distribuzione e consumo, una massa critica di filiere colte, ambientalmente orientate facente capo a un Assessorato dedicato: una “centrale” deputata ad attrarre progetti e finanziamenti europei, a coordinare i sussidi del Fondo rurale e coadiuvare l’incontro tra domanda e offerta dei prodotti dell’Agro; un perno istituzionale per i supporti operativi, didattici, scientifici, dotato delle ricostituite eccellenze tecniche del Servizio Giardini in veste di traino delle iniziative per l’agricoltura multifunzionale, la ripermeabilizzazione e la forestazione urbana.
Roma può inoltre estendere il modello dei “fablab” al contesto agricolo: fulcri di pratiche agricole a gestione pubblica da destinare a soggetti del terzo settore in aree protette che mettano in secondo piano la dimensione produttiva a vantaggio di finalità quali il recupero psico-motorio, l’invecchiamento attivo, il reinserimento sociale di detenuti o la formazione professionale; luoghi per un’agricoltura sociale senza azienda dove i soggetti associativi possano ampliare i propri servizi e le loro progettualità.
A scala urbana, questi hub agricoli possono rientrare nel sistema dei centri civici mutuandone l’idea di fondo: strutture poste nella campagna romana, contigue all’abitato, dotate di funzioni e regolate da modalità di fruizione compatibili con i contesti ambientali da tutelare; spazi di servizio alla popolazione, pubblici o a gestione condivisa, per attività culturali e di sperimentazione artistica, dedicati ai processi di soggettivazione di singoli e gruppi, aperti all’interlocuzione tra soggetti impegnati in conflittualità urbane in materia di accesso al cibo, lotta agli sprechi e produzione agricola locale. Possono ispirarsi alle esperienze del Parco della Cellulosa o alla Casa del Parco delle Energie entrambe nate da rivendicazioni di tutela di aree verdi a forte valenza storica e naturalistica; quest’ultima, sorta in via Prenestina negli spazi della ex fabbrica Snia Viscosa, dove si trova il lago Bullicante, si è organizzata come centro polifunzionale che conserva l’archivio storico della fabbrica e ospita eventi culturali, seminari, festival, attività sportive[13]. Le iniziative connesse alla lunga vertenza per la difesa dell’ecosistema lacuale mostrano la peculiare rilevanza che rivestono, nel successo e maturazione di tali vicende, i rapporti con le università e i centri di ricerca, la disseminazione di conoscenze nel quartiere, i legami diretti con le scuole di vario grado, la condivisione di storie, saperi e visioni tra soggettività attive a Roma.
Nell’ottica di una campagna che diviene struttura portante della città, vanno infine inclusi i due istituti tecnici agrari attivi a Roma: gli ITAS “Emilio Sereni” e “Garibaldi” le cui sedi si trovano a est, sud e nord della città. La diversificazione produttiva delle rispettive aziende agrarie costituisce una risorsa anche spaziale, fondamentale per l’integrazione tra practitioners ed educatori. L’esperienza nazionale della “Scuola diffusa della Terra, Emilio Sereni”[14] avviata dall’associazione “Terra!” in collaborazione con le Università di Palermo e del Molise è paradigmatica per la promozione di scuole agrarie itineranti: una formula di partenariato replicabile per coinvolgere le aziende agricole romane con altri soggetti attivi, singoli o associati, esperti o amatoriali, scuole e biblioteche, e valorizzare quegli scambi tra saperi e attività di sperimentazione agronomica e ambientale, essenziali alla tutela partecipata della campagna.
L’Agro ha a lungo opposto tutta la sua forza primitiva al cementarsi di un unico mostruoso agglomerato che avrebbe stritolato il più fragile e antico corpo dell’Urbe. Esaurito ogni presupposto dell’espansione novecentesca, è ormai tempo di abitare una diversa città più prossima alle esigenze quotidiane dei cittadini, non inquinata e non esposta ai rischi climatici: una Roma che possa godere le proprie strade, le proprie sponde, le proprie spiagge, e voglia preservare la storia del proprio paesaggio rurale, rinchiudendo gli spazi di pietra nelle maglie di una nuova rete ambientale.
[1] M.Crisci, Rome after Sprawl: a Return to the Compact City?, in E.Canepari-M.Crisci, Moving Around in Town, Viella 2019
[2] La Variante di Salvaguardia è adottata con DCC n.279 del 23-24 luglio 1991
[3] Il nuovo Piano Regolatore di Roma è approvato con DCC n.18 del 11-12 febbraio 2008 (BURL 14/03/08)
[4] R.Pavia, Tra Suolo e Clima, Donzelli 2019
[5] Salvador Rueda (a cura di) Agencia de Ecología de Barcelona, Plan de la Movilidad 2017; Ajuntament de Barcelona, Plan Verde 2020
[6] Mairie de Paris, Plan Climat: une ville neutre en carbone, 2017; Métropole du Grand Paris, Plan Climat, 2018; Anne Hidalgo, Fifteen minutes city; la ville du quart d’heure, The Guardian 7 feb.2020
[7] Si veda la DGC n. 143 del 17 luglio 2020 recante lo “Schema di Assetto Generale dell’Anello Verde per la riqualificazione sostenibile dell’anello ferroviario e del settore orientale del territorio di Roma Capitale”
[8] B.Pizzo-G.Di Salvo, Il nodo della rendita, in D’Albergo-Moini, Il regime dell’Urbe, Carocci 2015
[9] M.Pietrolucci, Verso la realizzazione delle microcittà di Roma, Skira 2017
[10] M.R.Vittadini et al., Valutare la rigenerazione urbana, Regione Emilia Romagna 2018; M.R.Vittadini, A.Barp (a cura di), Spazi verdi da vivere, Il Prato 2015
[11] Centro de Estudios Ambientales, La Infraestructura Verde Urbana, Ayuntamiento de Vitoria Gasteiz
[12] EEA, SOER 2020; Climate change vulnerability and risk assessments, Report 1/18; Climate change adaptation, Report 15/17; Green Infrastructure Report 14/17; Urban adaptation to CC, Report 12/16.
[13] https://lagoexsnia.wordpress.com/
[14] http://www.terraonlus.it/scuola-diffusa-della-terra-emilio-sereni/
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Siamo arrivati al terzo incontro di presentazione e discussione pubblica delle nostre proposte per la città, finalizzati all’elaborazione di un sintetico Manifesto per Roma. Questa volta abbiamo parlato di campagna romana e del suo rapporto con la città, in...
24 marzo ore 17.00 | La campagna romana: una nuova mappa ambiente-città
Mercoledì 24 marzo dalle ore 17 parleremo della campagna romana e del suo rapporto con la città, in particolare dei cambiamenti che la corona dell’Agro ha vissuto nel corso degli ultimi anni. Affronteremo le conseguenze sociali, prima ancora che ambientali, di questi...
Video intervista a Matteo Amati | Rammendare il passato, inventare il futuro. Sedici risposte sul Recovery Plan
Roma Ricerca Roma inaugura il suo primo format video. 16 interviste a esperti, intellettuali e candidati sindaci con sei domande sul futuro di Roma, a partire dalla discussione sull’utilizzo del Recovery Fund/Next Generation EU. In questo video ne parliamo con Matteo...